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Vili Contiamo quel che mi resta:

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 46-51)

Tre giorni di proroga dopo la sentenza, per il ri¬

corso in cassazione.

Otto giorni di giacenza in Corte d'assise, dopodiché gli a tti, come si usa dire, vengono mandati al ministro.

Quindici giorni d'attesa dal ministro, il quale nep¬

pure sa che esistono, e che però si suppone li tra¬

smetta, previo esame, alla Corte di cassazione.

Lì giunti, classificazione, numero progressivo, re¬

gistrazione; perché la ghigliottina è affollata, e ognu¬

no ci passerà quand'è il suo turno.

Quindici giorni per controllare che non vi faccia¬

no dei torti.

Poi la corte si riunisce, di solito un giovedì, respin¬

ge in blocco venti ricorsi e inoltra il tutto al ministro, che inoltra al procuratore generale, il quale inoltra al boia. Tre giorni.

La mattina del quarto giorno, mentre s annoda la cravatta, il viceprocuratore generale pensa: «Biso¬

gnerà pur chiudere questa faccenda ». Allora, se non è impedito da un pranzo tra amici, il vicecancelliere redige la minuta dell'ordine d'esecuzione, la trascri¬

ve in bella copia, la spedisce e l'indomani all'alba sul¬

la place de Grève si sentono inchiodare le impalcatu-

re, mentre agli incroci gridano a più non posso degli strilloni arrochiti.

In tutto sei settimane. La ragazza aveva ragione.

Da almeno cinque settimane, forse da sei, non oso contarle, mi trovo in questa cella d'isolamento di Bicétre, e mi sembra che tre giorni fa fosse giovedì.

IX Ho fatto testamento.

A che scopo? Mi condannano anche alle spese, e tutto quello che ho basterà appena. È molto cara, la ghigliottina.

Lascio una madre, lascio una moglie, lascio una figlia.

Una bimbetta di tre anni, dolce, rosea, fragile, con gli occhioni neri e lunghi capelli castani.

Aveva due anni e un mese quando la vidi l'ultima volta.

Così, dopo la mia morte, tre donne, senza figlio, senza marito, senza padre; tre orfane di diversa spe¬

cie; tre vedove per volere della legge.

Che io sia giustamente punito, lo accetto; ma quel¬

le innocenti, cosa hanno fatto? Non importa, vanno disonorate, rovinate. È la giustizia.

Non è tanto la mia povera, vecchia madre ad an¬

gustiarmi; ha sessantaquattr'anni, morirà sul colpo.

O se andrà avanti ancora qualche giorno, le basterà avere fino all’ultimo un po' di cenere calda nello scal¬

dino, e non chiederà altro.

Né mia moglie mi angustia di più; è già di salute malferma, ha la testa debole. Morirà anche lei.

A meno che non impazzisca. Dicono che la follia lasci vivere e che l'intelligenza non soffra; dorme, co¬

me morta.

Ma mia figlia, la mia bambina, la povera, piccola Marie, che a quest’ora ride, gioca e canta spensiera¬

ta, è lei che mi fa male!

X Ecco corri'è fatta la mia cella:

Otto piedi quadrati. Quattro muri di pietra a vista poggianti ad angolo retto su un pavimento a lastre un poco più alto rispetto a quello del corridoio ester¬

no. A destra della porta, entrando, una specie di av¬

vallamento simula malamente lo spazio destinato al sonno. Lì buttano una balla di paglia, su cui il pri¬

gioniero dovrebbe riposare e dormire, vestito con dei pantaloni di tela e una casacca di canapa grossa, estate e inverno.

Sopra la testa, in guisa di cielo, una nera volta a ogiva - è così che si chiama -, da cui penzolano co¬

me stracci delle pesanti ragnatele.

Infine, non una finestra né uno spiraglio. Solo una porta su cui il ferro copre il legno.

Mi sbaglio; al centro della porta, verso l'alto, ce un'apertura di nove pollici quadrati, tagliata a croce da un'inferriata e che il secondi no può richiudere la notte.

Fuori, un corridoio piuttosto lungo, rischiarato e aerato da qualche stretto spiraglio in cima al muro e diviso da compartimenti in muratura, che comunica¬

no l'uno con l'altro attraverso una serie di porte basse a centina; ogni compartimento serve per così dire da anticamera a una cella simile alla mia. È lì che vengo¬

no messi i forzati condannati dal direttore della pri¬

gione a pene disciplinari. Le prime tre celle d'isola¬

mento sono riservate ai condannati a morte: essendo più vicine alla guardiola, sono più comode per il se¬

condino.

Queste celle rappresentano tutto quel che resta del¬

l’antico castello di Bicétre quale fu costruito nel Quat¬

trocento dal cardinale di Winchester, lo stesso che fe¬

ce bruciare Giovanna d'Arco. L'ho sentito dire da certi curiosi che etmano venuti a vedermi l'altro giorno nella mia celletta e che mi guardavano da lontano come se

fossi un animale da serraglio. Al secondino hanno da¬

to cento soldi.

Dimenticavo di dire che notte e giorno ce una sentinella di guardia alla mia porta, e che non posso alzare gli occhi verso il riquadr o dello spioncino sen¬

za incontrare quei due occhi fissi e sempre aperti.

Per il resto, si suppone che vi siano aria e luce in questa scatola di pietra.

XI

Poiché il giorno ancora non si mostra, che fare della notte? Ho avuto un'idea. Mi sono alzato e con la lam¬

pada ho fatto il giro delle quattro mura. Sono coperte di scritte, disegni, strane figure e nomi che s'intreccia¬

no l’uno con l'altro fino a cancellarsi. Ogni condannato si direbbe che abbia voluto lasciare una traccia, alme¬

no qui. Con la matita, col gesso, col carbone, a lettere nere, bianche, grigie, spesso con profonde incisioni nella pietra, e qua e là con certi caratteri rugginosi che paiono scritti col sangue. Se avessi l'animo più sgom¬

bro, sicuramente proverei interesse per lo strano libro che si svolge davanti ai miei occhi, pagina dopo pagi¬

na, su ogni pietra della cella.

Mi piacerebbe ricondurre a un tutto quei fram¬

menti di pensiero sparsi sulla pietra; ritrovare ogni uomo dietro il nome; restituire il senso e la vita alle iscrizioni mutilate, alle frasi smembrate, alle parole troncate, corpi senza testa come chi le scrisse.

All'altezza del capezzale, ci sono due cuori fiam¬

manti, trafitti da una freccia, e sopra: Amore per la vi¬

ta.~Lo sventurato non aveva preso un lungo impegno.

Accanto, una specie di cappello a tricorno con una figura approssimativamente disegnata e queste paro¬

le; Viva l’imperatore! 1824.

Ancora due cuori ardenti con quest'iscrizione, ca-

ratteristica in una prigione: Amo e adoro Mathieu Danvin. Jacques.

Sul muro opposto si legge: Papavoine. La P maiu¬

scola è ricamata ad arabeschi e abbellita con cura.

Una strofa duna canzone oscena.

Un berretto libertario inciso abbastanza profonda¬

mente nella pietra, con sopra scritto: - Bories. - La Re¬

pubblica. Era uno dei quattro sottufficiali della Rochel- le.12 Povero giovane! Come sono odiose le cosiddette necessità politiche! per un'idea, per una fantasia, per un'astrazione, quellorribile realtà chiamata la ghigliot¬

tina! E io che mi lamentavo, io sciagurato che ho com¬

messo un vero delitto, che ho fatto versare del sangue!

Non procederò oltre nella mia ricerca. - Ho appe¬

na visto, schizzata in bianco sull'angolo del muro, un'immagine spaventosa, la sagoma del patibolo che, a quest'ora, stanno forse innalzando per me. - Per poco la lampada non me caduta di mano.

XII

Son tornato precipitosamente a sedere sul paglieric¬

cio, con la testa tra le ginocchia. Poi il mio spavento infantile se dissolto, e una strana curiosità mi ha ri¬

preso di continuare la lettura del mio muro.

Ho strappato, accanto al nome di Papavoine,13 un'enorme ragnatela che s’allungava sull'angolo, ispessita dalla polvere. Sotto, cerano quattro o cin-

12 L’autore si riferisce a un complotto in favore di alcuni carbona¬

ri italiani, organizzato nell’ottobre 1824 da quattro sergenti a La Rochelle, e poi fallito. I quattro furono ghigliottinati nel marzo 1825, dopo aver tentato inutilmente di evadere da Bicètre.

13 II nome di Papavoine e quelli che seguono nel capoverso si rife¬

riscono ad altrettanti criminali che agirono a Parigi tra il 1815 e il 1823.

que nomi perfettamente leggibili, in mezzo ad altri di cui non resta che una macchia

sul

muro.

DAUTUN,

1815.

-POULAIN,

1818.

-JEAN MARTIN,

182

1. -CASTAING,

1823. Leggendo, mi sono tornati dei lugubri ricordi:

Dautun, quello che fece a pezzi il fratello e che vagava

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