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so più nitidamente

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 51-76)

Sogno, visione o realtà, sarei impazzito se una bru¬

sca impressione non m’avesse svegliato in tempo. Sta¬

vo per cadere all'indietro quando sul piede nudo ho sentito strisciare delle zampe pelose e un ventre fred¬

do; era il ragno che avevo disturbato e che fuggiva.

Ciò mi ha liberato daU’incubo. - Oh, spettri terrifi¬

canti! - Ma no, nient’altro che vapori, fantasticherie d un cervello vuoto e sconvolto, chimere alla Mac- beth! I morti son morti, quelli soprattutto. Ben inca¬

tenati nel sepolcro, che non è una prigione da cui s'e¬

vada. Ma perché allora ho avuto tanta paura?

La porta della tomba non s’apre dall’interno.

XIII

Ho visto, nei giorni scorsi, un fatto ripugnante.

Da poco era mattino, e la prigione si riempiva di ru¬

more. Sentivo aprire e chiudere pesantemente le por¬

te, stridere i chiavistelli e i catenacci di ferro, tintinna¬

re e sbattere i mazzi di chiavi che i guardiani tengono alla cintura, tremare le scale sotto i passi frettolosi, mentre le voci si chiamavano e si rispondevano da un capo all’altro dei lunghi corridoi. I miei vicini, i forzati in cella di punizione, parevano più allegri del solito.

Sembrava che tutta Bicètre stesse ridendo, cantando, correndo, ballando.

Soltanto io, muto tra tanto chiasso, immobile tra tanta confusione, ascoltavo, stupito e attento.

Passò un secondino.

Osai chiamarlo e chiedergli se in prigione fosse festa.

«Chiamiamola festa!» rispose. «Oggi ferrano i for¬

zati che domani partiranno per Tolone. Volete venire a vedere? Vi divertirete.»

In effetti, seppur repellente, un simile spettacolo poteva dirsi una fortuna per un recluso solitario. Ac¬

cettai il divertimento.

Dopo aver preso con me le consuete precauzioni di sicurezza, il secondino mi condusse in una collet¬

ta vuota, assolutamente sguarnita, dove c era una fi¬

nestra con le sbarre: un’autentica finestra ad altezza d’uomo, da cui realmente si scorgeva il cielo.

«Ecco fatto» mi disse «da qui vedrete e sentirete.

Sarete solo nel vostro palco come il re.»

Poi uscì, armeggiando tra serrature, catenacci e chiavistelli.

La finestra dava su un cortile quadrato abbastanza grande, attorno al quale s'innalzava da ogni lato, co¬

me una muraglia, un grande edificio a sei piani in pie¬

tra a vista. Niente era più avvilente, nudo e misero a vedersi di quella quadruplice facciata trafitta dall'alto in basso da una quantità di finestre con le inferriate, alle quali si tenevano aggrappati dei volti smunti, livi¬

di, disposti quasi l'uno sopra l’altro come le pietre d'un muro e - per così dire - incorniciati dai riquadri delle sbarre. Erano i prigionieri, spettatori della cerimonia e in attesa d'esserne a loro volta, un giorno, attori. Pa¬

revano le anime in pena del purgatorio, appostate agli spiragli che s'affacciano sull'inferno.

Tutti guardavano in silenzio il cortile ancora vuo¬

to. Aspettavano. Tra quelle facce spente e smorte, qua e là scintillavano degli occhi penetranti e vivi co¬

me punte di fuoco.

Il quadrato di prigione che circonda il cortile non si richiude su se stesso. Una delle quattro ali dell'edi¬

ficio (quella che guarda a levante) è interrotta nel mezzo e si collega all'altra con un cancello che s'apre su un secondo cortile, più piccolo del primo e, come l'altro, chiuso da muri e da scuri tetti spioventi.

Attorno al cortile principale, a ridosso del muro, dei banchi di pietra. Nel mezzo, uno stelo di ferro ri¬

curvo, destinato a reggere un lampione.

Suonò mezzogiorno. Un grande pollone, celato da una rientranza, s'aprì di colpo. Una carretta, scortata da

certi soldati mesti e sporchi, coll uniforme blu, le spalline rosse e le bandoliere gialle, entrò pesantemente nel corti¬

le con un rumore di ferraglia. Era la scorta con le catene.

Nel medesimo istante, come se quel rumore avesse ridestato i tanti rumori della prigione, gli spettatori al¬

le finestre, fino allora silenziosi e immobili, esplosero in grida di gioia, in canti, minacce e imprecazioni mi¬

ste a risate terrificanti. Parevano delle maschere di de¬

moni. Su ogni faccia si disegnò una smorfia, mentre i pugni spuntavano fuori dalle sbarre e tutti urlavano con gli occhi fiammeggianti; ebbi paura nel vedere tante scintille ricomparire tra la cenere.

Malgrado ciò gli aguzzini - in mezzo ai quali, dagli abiti puliti e l'espressione spaventata, era riconoscibile qualche curioso venuto da Parigi - si misero tranquilla¬

mente all'opera. Uno salì sulla carretta e lanciò ai com¬

pagni le catene, i collari per il viaggio, le pile di pantalo¬

ni di tela. Quindi si distribuirono il lavoro; chi andava a disporre in un angolo del cortile le lunghe catene che in gergo essi chiamavano gli spaghi)'4 chi stendeva in tema i taffetà,'5 le camicie e i pantaloni; i più svegli, invece, esaminavano a uno a uno i collari di ferro sotto gli occhi del capitano, vecchio e tracagnotto; poi ! i provavano fa¬

cendoli luccicare sul selciato. Il tutto tra le beffarde ac¬

clamazioni dei prigionieri, la cui voce era sovrastata soltanto dalle risa fragorose dei forzati per i quali tutto ciò si apprestava, e che stavano relegati dietro le fine¬

stre della vecchia prigione prospiciente il cortiletto.

Terminati codesti preparativi, un personaggio coi galloni d'argento e che chiamavano signor ispettore die¬

de un ordine al direttore della prigione; un attimo dopo due o tre porte basse vomitarono a folate nel cortile nu¬

goli d'uomini orrendi, urlanti e laceri. Erano i forzati.

'4 Les jìccltes.

15 Les taffetas.

A quell'ingresso, raddoppiò la gioia alle finestre. Alcu¬

ni, le celebrità del bagno penale, vennero salutati tra ovazioni e applausi, che quelli accoglievano con una sorta di modestia fiera. Quasi tutti portavano in testa de¬

gli strani cappelli che ciascuno sera fabbiicato con le proprie mani, intrecciando la paglia del giaciglio secon¬

do forme sempre bizzarre, affinché spiccasse la faccia nelle città in cui sarebbero passati. E questi erano anco¬

ra più applauditi. Uno in particolare sollevò un’ondata d'entusiasmo: un giovane di diciassette anni,con un vi¬

so da ragazza. Usciva dalla cella, dove stava in isolamen¬

to da otto giorni, e con la balla di paglia sera fatto un abi¬

to che Io ricopriva dalla testa ai piedi: entrò nel cortile roteando su se stesso, agile come un serpente. Era un saltimbanco condannato per furto. Battimani furibondi esplosero tra grida di gioia. I galeotti rispondevano, ed era impressionante quello scambio di festosità tra i for¬

zati titolari egli aspiranti. Simboleggiata dai carceri eri e dai curiosi intimoriti, la società poteva pur dirsi presen¬

te, il crimine la irrideva in piena faccia, e trasformava un orribile castigo in una festa di famiglia.

Man mano che arrivavano, venivano spinti tra due ali d'aguzzini nel cortiletto col cancello, dove li aspet¬

tava la visita medica. Lì tutti tentavano un ultimo sfor¬

zo per evitare il viaggio, adducendo dei pretesti di salu¬

te, gli occhi malati, la gamba zoppa, la mano mutilata.

Ma quasi sempre venivano trovati buoni per il bagno penale; e allora con indifferenza si rassegnavano, scor¬

dandosi in pochi minuti ogni presunta infermità a vita.

Il cancello del cortiletto si riaprì. Un guardiano fe¬

ce l’appello in ordine alfabetico; uscirono a uno a uno, e ogni forzato andò a mettersi in piedi in un an¬

golo del grande cortile, vicino al compagno datogli per caso dall’iniziale del nome. Così ognuno si vede ridotto a se stesso; trascina la propria catena fianco a fianco con uno sconosciuto; e se per caso un forza¬

to ha un amico, la catena li separa. Estrema miseria!

Quando ne furono usciti circa una trentina, venne richiuso il cancello. Un aguzzino li mise in fila col bastone, gettò davanti a ognuno una camicia, una casacca e un paio di pantaloni di tela grossa; poi fece un segno, e tutti cominciarono a spogliarsi. Ma sul più bello sopraggiunse inatteso un incidente a tra¬

sformare quell’umiliazione in tortura.

Fino a quel momento il tempo era stato abbastanza buono, e benché un vento ottobrino raffreddasse l'aria, ogni tanto tra le nubi grigie s'apriva uno spiraglio da cui scendeva un raggio di sole. Ma non appena i forzati si furono tolti di dosso gli stracci di prigione e proprio mentre soffrivano in piedi, nudi, alla visita sospettosa dei guardiani, e agli sguardi incuriositi degli estranei che giravano loro attorno per osseivame le spalle, il cielo si fece nero e un gelido acquazzone d'autunno scoppiò d'un tratto, riversandosi a torrenti nel cortile quadrato, sulle teste scoperte, sulle membra nude dei galeotti, sulle miserabili casacche stese in terra.

In un batter d'occhio il cortile si vuotò di chiun¬

que non fosse aguzzino o galeotto. I curiosi di Parigi andarono a rifugiarsi sotto le tettoie delle porte.

Ma la pioggia cadeva torrenziale. Nel cortile non si vedevano più che i forzati, nudi e grondanti sul selcia¬

to allagato. Un cupo silenzio era seguito alle loro fra¬

gorose bravate. Ora tremavano, battevano i denti; le gambe magre, le ginocchia nodose cozzavano luna contro l'altra, e faceva pietà vederli coprire le mem¬

bra livide con le camicie zuppe, le casacche e i panta¬

loni grondanti di pioggia. Nudi, sarebbe stato meglio.

Uno soltanto, un vecchio, aveva mantenuto un po’

d'allegria. Asciugandosi con la camicia bagnata, gridò che la cosa non era in programma; poi comin¬

ciò a ridere, alzando un pugno al cielo.

Quando ebbero rivestito gli abiti da viaggio, furo¬

no condotti a gruppi di venti o trenta all’altro angolo del cortile, dove li aspettavano i cordoni stesi a terra.

Sono, questi cordoni, delle catene lunghe e forti, che s'incrociano ogni due piedi con altre più corte, alla cui estremità viene attaccato un collare quadrato: es¬

so s'apre per mezzo duna cerniera posta in uno degli angoli, e si chiude all’angolo opposto con un bullone di ferro che per tutto il viaggio resta fissato al collo del galeotto. Quando stanno allungati a terra, i cor¬

doni raffigurano assai bene una gran lisca di pesce.

I galeotti furono fatti accovacciare nel pantano, sul selciato allagato; vennero loro provati i collari; poi due fabbri della scorta, armati d'incudini portatili, li fissa¬

rono a freddo con grandi colpi di martello. È questo un momento spaventoso, da far impallidire anche i più forti. A ogni colpo di martello assestato sull'incudine, che poggia sulla schiena del paziente, il mento di que¬

sti sobbalza; e il minimo movimento all’indietro della testa la manderebbe in pezzi come un guscio di noce.

Terminata l'operazione, tutti si fecero cupi. Non s'udiva che il tintinnio delle catene, talvolta un grido e il rumore sordo del bastone degli aguzzini sulle membra dei recalcitranti. C'era chi piangeva; i vec¬

chi, tremanti, si mordevano le labbra. Osservavo con orrore quei profili sinistri nei loro riquadri di ferro.

Dunque, dopo la visita dei medici, quella dei car¬

cerieri; dopo la visita dei carcerieri, la ferratura. I tre atti dello spettacolo.

Riapparve un raggio di sole. Fu come se appiccasse il fuoco in quei cervelli. I forzati s'alzarono tutti insie¬

me, convulsamente. I cinque cordoni s'unirono perle mani, e all'improvviso disegnarono un immenso cer¬

chio attorno al braccio del lampione. Giravano, gira¬

vano da stancare a guardarli. Cantavano una canzone del bagno penale, una romanza in gergo su un'aria ora dolente, ora sfrenata e gaia; s'udivano ogni tanto delle grida stentate, delle risa spezzate e ansimanti, mesco¬

late a parole misteriose; poi delle acclamazioni furi¬

bonde; e le catene, sbattendo in cadenza, accompa-

gnavano come un’orchestra quel canto più roco del lo¬

ro rumore. Se dovessi trovare un'immagine del sabba, la vorrei così, né più né meno.

Venne portata nel cortile una grande marmitta. A colpi di bastone, i guardiani della scorta interruppe¬

ro la danza dei forzati, e li condussero davanti al re¬

cipiente dove strane verdure galleggiavano in un li¬

quido fumante e sporco. Mangiarono.

Una volta mangiato, buttarono in terra i resti della minestra e del pane nero, e ricominciarono a ballare e cantare. Pare che venga lasciata loro questa libertà il giorno della ferratura e la notte seguente.

Osservavo lo strano spettacolo con una curiosità così avida, palpitante e attenta, da dimenticarmi di me stesso. Mi penetrava fin nelle viscere un profondo sentimento di pietà, e il loro riso mi faceva piangere.

D'un tratto, attraverso il velo della fantasticheria cui ni ero abbandonato, vidi la ronda urlante fermarsi e tacere. Poi tutti gli occhi si volsero verso la finestra che occupavo. «Il condannato! Il condannato!» grida¬

vano, indicandomi col dito; e le esplosioni di gioia raddoppiavano.

Restai impietrito.

Ignoro perché sapessero di me e come potessero riconoscermi.

«Buonasera! buonasera!» gridavano col loro ghi¬

gno atroce. Uno dei più giovani, condannato alla ga¬

lera a vita, con una faccia lustra e livida, mi guardò con l’aria d'invidiarmi e disse: «Beato lui! Lo rifile¬

ranno !16 Addio, compagno! ».

Cosa accadeva in me, non posso dirlo. Sì, era vero, ero il loro compagno. La Greve è sorella di Tolone.

Anzi, mi trovavo più in basso di loro; costoro, dun¬

que, mi facevano un onore. Rabbrividii.

16 II sera rogné!

Il loro compagno! E tra qualche giorno, avrei po¬

tuto anch'io dare spettacolo per loro.

Rimasi alla finestra, immobile, annichilito, fulmi¬

nato. Ma quando vidi i cinque cordoni avanzare e diri¬

gersi decisi verso di me, pronunciando parole d'infer¬

nale cordialità; quando sentii il tumultuoso rumore delle catene, i clamori, i passi fin sot to il muro, pensai che quel nugolo di demoni si sarebbe arrampicato fi¬

no alla mia misera cella; lanciai un grido, mi scagliai con violenza contro la porta quasi volessi schiantarla;

ma non c'era modo di fuggire. I catenacci erano tirati dall’esterno. Picchiai, chiamai con furia. Poi mi parve di sentire ancor pi ù vicine le voci terrificanti dei forza¬

ti; credetti di veder quelle facce orrende comparire sul bordo della finestra, lanciai un secondo grido d'orro¬

re, e caddi svenuto.

XIV

Quando tornai in me, era notte. Ero disteso su un giaciglio; una lanterna che oscillava appesa al soffit¬

to me ne mostrò altri, allineati accanto al mio. Capii che m'avevano trasportato all'infermeria.

Restai per qualche istante sveglio, ma senza pen¬

sieri né ricordi, tale era la gioia di trovarmi in un let¬

to. Certo, in altri tempi quel giaciglio d'ospedale e di prigione m'avrebbe fatto arretrare per il ribrezzo e la pena; ma non ero più lo stesso uomo. Le lenzuola erano grigie e ruvide al tatto, la coperta logora e bu¬

cata; sentivo il tavolaccio attraverso il materasso;

che importa! Potevo distendere le membra a piacer mio tra quei panni grossolani; e per quanto sottile fosse la coperta, sentivo svanire a poco a poco lorri- bile freddo alle midolla cui ero ormai avvezzo. — Mi riaddormentai.

Albeggiava quando un gran rumore mi svegliò. Ve-

niva da fuori; il letto era accanto alla finestra, m al¬

zai a sedere per vedere cosa fosse.

La finestra saffacciava sul gran cortile di Bicétre:

era pieno di gente; due ali di veterani stentavano a tenere libero, in mezzo a tanta folla, uno stretto pas¬

saggio attraverso il cortile. Tra quella doppia fila di soldati avanzavano lentamente, sobbalzando a ogni pietra del terreno, cinque lunghe carrette cariche d'uomini; erano i forzati che partivano.

Le carrette erano scoperte. Ogni cordone ne occu¬

pava una. I forzati sedevano di lato su ciascun bordo, addossati gli uni agli altri, divisi dalla catena comune che si stendeva in lunghezza e alla cui estremità, te¬

nendovi un piede sopra, stava ritto un aguzzino col lu¬

cile carico. Si sentivano risuonare i ferri e a ogni scos¬

sa le teste sobbalzavano, le gambe penzolavano.

Una pioggia fine e penetrante gelava l'aria, incol¬

lando alle ginocchia i pantaloni di tela, che da grigi s'erano fatti neri. Le lunghe barbe, i capelli corti gron¬

davano acqua; le facce erano violette; tutti tremavano e battevano i denti per la rabbia e per il freddo. Nes¬

sun altro movimento, del resto, era possibile. Una vol¬

ta inchiodati alla catena, non se che una parte dell'or¬

rido tutto chiamato il cordone, che si muove come un sol uomo. L'intelligenza deve abdicare, il collare del bagno penale la condanna a morte; quanto poi all'ani- iriaie che è nell'uomo, avrà bisogni e appetiti soltanto a ore fisse. Immobili, i più seminudi, le teste scoperte e i piedi penzoloni, cominciavano il loro viaggio di venticinque giorni, issati sulle stesse carrette, vestiti coi medesimi indumenti sotto il sole torrido di luglio e le fredde piogge di novembre. Come se gli uomini avessero deciso di spartire a mezzo col cielo l'ufficio di carnefice.

S era stabilito tra la folla e le carrette uno strano, orribile dialogo: ingiur ie da una parte, provocazioni dalTaltra, imprecazioni da entrambe; a un segno del

capitano vidi le bastonate piovere alla cieca sulle carrette, sulle spalle o sulle teste, poi tutto rientrò nella calma apparente che vien chiamata Vordine.

Ma quei miserabili avevano gli occhi carichi di ven¬

detta, e li vedevo contrarre i pugni sulle ginocchia.

Le cinque carrette, scortate dalle guardie a cavallo e dagli aguzzini a piedi, scomparvero una dopo l'al¬

tra sotto l'alta porta ad arco di Bicètre; seguì una se¬

sta, nella quale sobbalzavano i fornelli, le gamelle di rame e le catene di scorta buttate alla rinfusa. Qual¬

che aguzzino che s'era attardato alla mensa uscì cor¬

rendo per raggiungere il gruppo. La folla si disperse.

L’intero spettacolo si dileguò come in una fantasma¬

goria. S'udì sempre più fievole nell'aria il rumore delle ruote pesanti e degli zoccoli dei cavalli lungo la strada lastricata di Fontainebleu, insieme allo schioccare delle fruste, al tintinnio delle catene e alle urla del popolo che augurava sventura al viaggio dei galeotti.

E per loro non era che l'inizio!

Cosa m'aveva detto, l'avvocato? I lavori forzati!

Ah! sì, mille volte meglio la morte! meglio il patibolo che il bagno penale, meglio il nulla che l’inferno; me¬

glio affidare il collo al coltello di Guillotin che al col¬

lare della ciurma! I lavori forzati, gran Dio!

XV

Per mia sfortuna non ero malato. L'indomani dovetti lasciare l’infermeria. La cella mi riebbe.

Non sono malato! In effetti, son giovane, sano e forte. Il sangue scorre libero nelle mie vene; le mem¬

bra obbediscono a ogni mio capriccio; sono robusto di corpo e di mente, costruito per una lunga vita. Sì, è vero; eppure ho una malattia, una malattia morta¬

le, una malattia voluta dalla mano degli uomini.

Da cheson uscito dairinfermeria, m’ha preso un'idea straziante, un’idea che mi fa impazzire: forse, se mi ci avessero lasciato, avrei potuto evadere. Quei medici, quelle suore caritatevoli, sembravano interessarsi a me. Morire così giovane e d una tale morte! Mera parso che mi compiangessero, tanto s’avvicendavano al mio capezzale. Bah! era semplice curiosità! E poi, quella è gente che vi guarisce bene da una febbre, non da una condanna a morte. E ciò malgrado, come sarebbe facile per loro! una porta aperta, che gli costerebbe?

Nessuna possibilità, adesso! Il mio ricorso verrà respinto, perché tutto è in regola; i testimoni hanno ben testimoniato, gli avvocati ben arringato, i giudici ben giudicato. Non ci conto, a meno che... No, che pazzia! Nessuna speranza! Il ricorso è una corda che vi tiene sospesi sul l'abisso e che va di continuo scric¬

chiolando, finché non si spezza. È come se il coltello della ghigliottina impiegasse sei settimane a cadere.

E se ottenessi la grazia? - La grazia! da chi? per¬

ché? come? è impossibile che mi diano la grazia. Bi¬

sogna dar l’esempio! Così dicono.

Non mi restano che tre passi da fare: Bicètre, la Conciergerie, la Grève.

Non mi restano che tre passi da fare: Bicètre, la Conciergerie, la Grève.

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 51-76)