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L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE

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Academic year: 2022

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Oscar classici

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di Victor Hugo nella collezione Oscar

l lavoratori del mare I miserabili (3 voli, in cofanetto) Nolre-Dame de Paris

N ovati tatré Poesie

L'ultimo giorno di un condannato a morte L'uomo che ride

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Victor Hugo

L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO

A MORTE

A cura di Franca Zanelli Quarantini con una nota di Adèle Hugo

OSCARMONDADOra

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© 1991 SE Srl, via Manin, 13 Milano

Titolo originale dell'opera: Le demier jour d’un condanné I edizione Oscar classici ottobre 1998

Edizione su licenza della SE Studio Editoriale s.r.l.

ISBN 978-88-04-55638-1

Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A.

Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy

Anno 2012 - Ristampa 11 12 13 14

www.librimondadori.it

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Introduzione

Ce una figura del discorso - ed è l'antitesi - nata per dare un nome al gioco dei contrari, per separare il buio dalla luce, la vita dalla morte, il romanzo dalla poesia.

Ma nella pratica letteraria essa non si limita a fondare antinomie, giacché al contrario mette due mondi in re¬

lazione e favorisce, accanto al fronteggiarsi dell’inco- niugabile, quelle incursioni più o meno caute da un ambito aU’altro che sono responsabili di mutazioni an¬

che improvvise del senso. Incisiva e rilevata, oppure su¬

scettibile di stemperarsi in un amalgama e di venarsi delle tracce del segno antagonista, si dice dell'antitesi che essa abbia presieduto all'origine del linguaggio e, di riflesso, all'invenzione del racconto (Barthes): teoria immensa e persuasiva. Si riduca ora il campo alla sola Francia letteraria, ed ecco la medesima figura svettare come la chiave di volta d’uno stile iniziato con Montai¬

gne e culminante nella vocazione alla scrittura di Hugo:

per il quale - osservò Albalat - le parole sono schegge e faville, scaturite dalla collisione tra due pietre.

E certo che comporre, nel caso dell’autore del Demier jourd’un condamné, significa innanzitutto contrapporre, campire sulla pagina zone tematiche fortemente contra¬

state e tuttavia semplici, anzi semplicissime: sono imma¬

gini, idee, epoche, persone e situazioni romanzesche con¬

cepite per imporsi sui segni avversativi con l'ineluttabile movenza d’un guanto rovesciato, col secco impatto d'un ombrello aperto contro il cielo. Basti pensare alla partitu¬

ra manichea dei Misérables, articolata tutta sull'opposi-

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zione redenzione/caduta; al climax ribaldo, smaccata¬

mente bellicoso nei confronti dei «classici», e che portò al trionfo dei romantici in teatro; ma soprattutto alla parola poetica di Hugo, dove l'antitesi instancabilmente si scin¬

de in serpentine di raggi e di ombre, in abissi di gloria e di nulla, in lampi di giovinezza e di decrepitudine.

Il criterio della contrapposizione arriva a informare persino la scansione dei generi - poesia, romanzo, dramma, saggio, plaidoyer — in cui l'ancor giovane scrit¬

tore si cimenta nell'anno che qui più interessa, il 1829:

una raccolta di poemi - Les Orientales - definita dall’au¬

tore «un libro inutile di pura poesia» e nel quale Hugo afferma d'essersi mosso da poeta disimpegnato, «senza limiti, senza manette, senza bavagli». Pochi mesi dopo, il primo testo «utile», al servizio di un'idea sociale, Le demier jour d’un condamné. Entrambi poi - Orientales e Dernier jour - risultano per così dire incastonati tra il Cromwell (1827) e YHemani (1830), ossia tra i testi sto¬

ricamente più rappresentativi del far teatro alla manie¬

ra romantica. Poesia pura, impegno sociale, rivoluzio¬

ne drammatica: l'alternanza dei generi non potrebbe risaltare più vistosamente. Eppure, si tratta solo duna tripartizione di superficie: la solidarietà della scrittura con se stessa risulta in definitiva molto più coerente dell'antagonismo e del discrimine formali.

Della sostanziale continuità del proprio linguaggio lo scrittore era del tutto consapevole quando osservava che

«nella [sua] opera, i libri si mescolano come gli alberi d una foresta. Ci sono dei rami degli Chàtiments nelle Feuilles dautomne e dei rami della Legende des siècles nelle Orientales e nei Burgraves». Lo slittamento della so¬

stanza poetica al di là del confine della singola opera e il suo riversarsi altrove, nei testi a venire, è uno dei tratti peculiari di Hugo e contribuisce ad accentuare la riso¬

nanza profetica o sacrale duna scrittura che è sempre - per così dire - anticipatrice di se stessa. Non sorprende perciò se le ramificazioni tematiche, sopravanzando l'ambito strettamente poetico, si diffondono fin dentro l’opera narrativa e teatrale; e neppure se, malgrado l'anti- nomia apparente, i generi scivolano l’uno dentro l'altro

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come accade alle falde sotterranee lavorate dal tempo.

Questa congenita permeabilità in cui si sgretola l'antitesi risalta nelle definizioni di genere date dall'autore: le Odes, per esempio, che ai suoi occhi compongono una poesia d'idee e non di parole, possiedono «qualcosa del¬

l'interesse del dramma»; del dramma invece egli dirà che

«attiene alla tragedia per la pittura delle passioni e alla commedia per quella dei caratteri».

In una simile inquietudine terminologica, quel che vacilla è proprio la distinzione fra le diverse forme let¬

terarie. Intatto resta unicamente il gran sistema dell'o¬

pera presa nel suo insieme, la costellazione autonoma e pulsante d’una scrittura indifferente o superiore - è sta¬

to detto - perfino alla differenza culturale tra la prosa e il verso (Meschonnic). Cosicché, se nei libri in versi non è raro chelaffabulazione poetica accolga l'eco d'un mo¬

vimento narrativo, in un testo di finzione la tensione romanzesca potrà farsi in larga parte debitrice di accor¬

gimenti prosodici, di natura squisitamente poetica.

Esemplare in tal senso è il Demier jour.

Non so fino a che punto io sia riuscita a trasferire, nella versione italiana, il ritmo martellante dell'origina¬

le. Nel Demier jour, dove talvolta si parla d’un rintocco d'orologio e che si chiude sull'ora dell'esecuzione («Le quattro.»), il tempo è l’unico compagno-antagonista del condannato; più della morte, lasciata fuori scena. Que¬

sto tempo in corsa, e che alla fine ruba all'altro la vita, se non ha un volto non manca però d'imporre una pre¬

senza; è contenuto in ogni frase, la cadenza, la orienta ritmicamente: il movimento del linguaggio segue quello del pendolo.

L’incedere della parola, scandita su una battuta in due tempi - da un estremo all'altro dell'immaginario orolo¬

gio -, non può non coniugarsi mirabilmente con l’antite¬

si. La morte e la vita, la prigionia e la libertà, il chiuso e l'aperto, il buio e la luce, il sogno e la realtà* il basso e l’al¬

to, l'argot e la parola letteraria, il prima e il dopo la morte, il condannato e il re, sono le principali coppie avversative attraverso le quali il monologo del Derider jour si frantu-

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ma in una miriade di microconflitti a due termini, perfet¬

tamente autosufficienti. Le frasi, spesso brevi, procedo¬

no talvolta per dissonanza luna rispetto all'altra, oppure per risonanza, e in tal caso si appoggiano ad anafore («...

sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua pre¬

senza, sempre curvo sotto il suo peso»), a metabole («Ogni giorno, ogni ora o minuto aveva un'idea nuova»), a omoteleuti («Giacevo ancora al fondo di quel profondo sonno...»), come se volessero lasciar echeggiare più a lungo il grido d'orrore che apre il racconto e più volte ri¬

torna: «condannato a morte!».

Elementare e per nulla concettuali zzata, la dramma¬

ticità che da ciò proviene è indiscutibile. Fondato su una trouvaille ritmica entro la quale - più che nelle sin¬

gole parole - si condensa il racconto d una attesa, que¬

sto récit-poème riflette egregiamente il virtuosismo istintivo dell'autore ventisettenne, e anticipa per più versi i massimi romanzi futuri, Notre-Dame de Paris e i Misérables. A quest'ultimo il Demier jour certo si lega per la vistosa inserzione dell'argot, poi riutilizzato am¬

piamente e formalizzato, e per alcune soluzioni roman¬

zesche (il racconto della partenza dei forzati, rincontro del condannato col friauche, il racconto di quest'ultimo e il furto del pane) che annunciano, seppure in forma nucleare, il destino di Jean Valjean. Ma forse, la con¬

nessione più incisiva tra i due testi si affida - una volta di più - a un effetto prosodico e in particolare all'asso¬

nanza prodotta dalla ripresa dell'aggettivo «misérable», nel Demier jour (un'assonanza che nella traduzione se necessariamente attenuata, il termine italiano «misera¬

bile» non possedendo che in parte la variegatura se¬

mantica del corrispettivo francese). Quanto all'antici¬

pazione di Notre-Dame de Paris, basti pensare alla sequenza in cui il condannato ricorda la sua avventuro¬

sa ascesa su una delle torri campanarie della cattedrale, e che si commenta - per così dire - da sola; ma non tra¬

scurerei la visione d'una Notre-Dame evanescente e az¬

zurrata di bruma, che s'imprime come in un balenio pittorico negli occhi del condannato, lungo il tragitto da Bicètre alla Conciergerie; la rivedrà pochi attimi pri¬

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ma di salire sul patibolo, e non a caso in quel momento essa gli si mostra amputata duna delle due torri, per un effetto di prospettiva.

Estremamente elaborato sul piano letterario e gravi¬

do d'idee messe più tardi a frutto, il Demier jour fu defi¬

nito da Hugo nella Préface nient altro che un plaidoyer, una sorta di pubblica arringa travestita da racconto, in favore dell abolizione della pena di morte. Abbraccian¬

do dichiaratamente il pensiero del Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), con questo breve testo narrativo egli contribuisce a scardinare una teoria cara al regno ultra di Carlo X, secondo la quale il Papa e il Boia rappresen¬

tavano i soli puntelli dell ordine sociale. Va però detto che il prestigio di Joseph de Maistre, autore della succi¬

tata teoria, nel '29 stava volgendo rapidamente al decli¬

no, come del resto quello del re, costretto l'anno succes¬

sivo, durante le famose tre giornate di luglio del '30, a fuggire da Parigi e abdicare in favore del nipote. In una situazione politica come era quella del '29, lontana solo di pochi mesi da una nuova rivoluzione che avrebbe spostato il concetto di sovranità dal re all'individuo, inevitabilmente il dibattito sulla pena di morte si pone¬

va come centrale; né di certo, a tacitare il dubbio mora¬

le intorno ad essa, potevano esser sufficienti le parole con cui il suo inventore presentò la ghigliottina all'As¬

semblea, nel 1789: «Signori, con la mia macchina vi spiccherò la testa dal corpo in un batter d'occhio e sen¬

za farvi provare il minimo dolore!».

La presunta istantaneità e l'altrettanto presunta qua¬

lità indolore di questa morte, che oggi qualcuno defini¬

rebbe «chirurgica», avevano per qualche decennio suf¬

fragato l'ipotesi che la ghigliottina operasse sui rei, per così dire, beneficamente: uccidendo il corpo, ma senza infierirvi. Una delle conseguenze di questa morte ad¬

dolcita fu senz'altro l'accentuarsi del carattere pubblico dell'esecuzione: la diminuzione del dolore nel condan¬

nato bastava da sola a giustificare la presenza d'un pub¬

blico d’ogni età - persino d'un pubblico, per dir così, sensibile. La violenza popolare andò a svampare altro-

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ve: si appostò nei luoghi previsti per il passaggio dei forzati incatenati ed esposti al dileggio. L'entità delle of¬

fese, fisiche e morali, inflitte ai forzati dalla folla degli spettatori sarà tale da indurre, nel 1837, il Comune di Parigi a sostituire l'inerme catena umana con una vet¬

tura cellulare. Ma non per questo place de Grève perse il suo tragico potere di richiamo.

Spiega Hugo nella Préface: non è stato sui libri che maturò in me lorrore per la pena di morte, ma cammi¬

nando per Parigi in uno dei giovedì d'esecuzione, quan¬

do mi trovai davanti al patibolo inondato di sangue.

Dunque è la scena, e non l'idea soltanto, l'ispiratrice. In altri termini: non è la morte in sé, bensì l'intero spetta¬

colo che Victor Hugo, da politico umanitario, aborre e al tempo stesso, da grande uomo di teatro, insegue e spia. Si sa che egli assistette ad alcune esecuzioni, che andò a visitare i forzati a Bicètre, che fu insomma, a sua volta, spettatore. Un ruolo non innocente: in un'ese¬

cuzione capitale, è sempre la folla la prima giustiziera, la prima nemica del condannato (Foucault). L'odio del¬

la folla, in altri termini, fa parte del castigo e si confon¬

de con un'altra pena inflitta al condannato in prepara¬

zione della morte: quella di dover esporsi allo sguardo di tutti, come in un tragico gioco di teatro, dov'egli è - o così crede - l'unico attore.

Col Detnier jour, lo spettatore Hugo ha scelto di ri¬

baltare il punto di vista, facendolo coincidere con quel¬

lo dell'anonimo condannato a morte; ma non per que¬

sto la relazione condannato/folla si allenta. Questo testo, pur così prossimo al vibrato poetico, mostra al tempo stesso una precisa matrice spettacolare, teatrale.

Innanzitutto, esso è spartito in tre alti: Bicètre, la Con- ciergerie, il Municipio; ognuno di essi si suddivide an¬

cora in tre sottosequenze, che equivalgono ad altrettan¬

ti cambiamenti di scena così schematizzabili:

Bicètre: il processo / la ferratura dei forzati ! la canzo¬

ne argotica della fanciulla senza volto.

Conciergerie: il viaggio entro Parigi / l'incontro col.

friauche / rincontro col secondino che chiede al con¬

dannato i numeri da giocare al lotto.

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Municipio: il viaggio entro Parigi / la toilette del con¬

dannato/ il viaggio verso place de Grève.

Interposto tra luna e lai tra scena, sta il monologo solitario del protagonista: ora faccia a faccia coi propri dilaniati fantasmi, ora estraneo per la sua stessa condi¬

zione al mondo intorno a sé. Inutile segnalare quanto sia congeniale all'autore questa alternanza di scrittura allucinata-visionaria e di grottesco dialogismo da com¬

media; importa più dar conto dell'esito drammatico proveniente dall'impiego del punto di vista del condan¬

nato: che non può vedersi («ma quale occhio può veder se stesso?» dirà Stendhal) e che per questo, pur senza percepirlo, si tramuta saltuariamente in spettatore. Al processo, filtrata attraverso il suo sguardo, è la folla a venir sbalzata in primo piano, la folla che accorre a precipizio, avida di vederlo. Ma in questa scena, la pri¬

ma in cui i due termini si fronteggiano, ancora il con¬

dannato sente di costituire il luogo dominante:

... mentre percorrevo la lunga sala fra quel duplice assembramento di popolo sbarrato dai soldati, mi sem¬

brava d'essere il centro dove convergevano i fili che muovevano quelle facce piegate verso di me e a bocca aperta.

Più tardi, nella sequenza della ferratura dei forzati in partenza per Tolone, il ribaltamento del condannato in spettatore è, per qualche istante, completo: «Osservavo lo strano spettacolo con una curiosità cosi avida, palpi¬

tante e attenta, da dimenticarmi di me stesso...». Solita¬

rio e inquadrato nella finestrella, egli assiste all'orrendo spettacolo punitivo, fino a che i forzati in ressa si volgo¬

no verso di lui e, guardandolo, gli restituiscono il ruolo di primo attore. E tale egli si vede vivere: in pasto ora a una piccola folla di «curiosi parigini», entrati con un la¬

sciapassare nelle prigioni, ora alla gente che l'aspetta all'uscita, sotto la pioggia; più tardi, ha l'impressione che un fiume di persone stia seguendo la sua povera carrozza, nel viaggio verso la Conciergerie; ancora, do¬

po aver ceduto la bella giacca al friauche e indossato

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un'ignobile gualdrappa, si sorprende a chiedersi come potrà sostenere lo sguardo della folla, così miseramente vestito. Ma al momento della toilette preparatoria all'e¬

secuzione, qualcosa accade che incrina un antagoni¬

smo filtrato fino allora solo attraverso le percezioni del condannato. Mentre a quest ultimo gli aiutanti del boia tagliano i capelli e il colletto della camicia, la folla, fuo¬

ri, rumoreggia, schiamazza: limpido è il contrasto volu¬

to dall'autore tra la sacralità silenziosa della cerimonia privata, preparairice alla morte, e la bestialità del popo¬

lo smaniante, in attesa. Poi il condannato viene fatto uscire, sale sulla carretta, si avvia al patibolo. Da quei¬

ristante si può dire che egli scompaia, inghiottito dal suo stesso sguardo. In sua vece non si vedrà che la città e la folla: una città euforica per l'avvenimento, e una folla di «mille facce urlanti», «un quadro orrendo», «la folla, la folla, ancora la folla», «un immondo popolo»

che si riversa sulla strada «lastricata, murata di volti umani». Unico, minaccioso e inconsapevole protagoni¬

sta, che si fa avanti verso chi legge, sempre più avanti, finché quel mondo di spettatori «dalle grida di iena»

non si mescola, si confonde e fa tutt'uno con l'urbanis¬

simo mondo dei lettori (non improbabili habitués di place de Grève, a tempo perso). Che quel mondo al ri¬

paro, e che si appaga guardando (leggendo), sia in qual¬

che modo segretamente colpevole, viene d'altronde det¬

to per allusione dal condannato:

Tutta quella gente riderà, batterà le mani, applau¬

dirà. E tra quegli uomini, liberi e ignoti ai carcerieri, che corrono euforici verso un'esecuzione, tra quella fol¬

la di teste che coprirà la piazza, più duna testa sarà predestinata a seguire prima o poi la mia, nel cesto ros¬

so. Più d'uno che ci viene per me, ci andrà per sé.

In un punto preciso di place de Grève, c'è per quegli esseri fatali un luogo fatale, un centro d'attrazione, una trappola. Vi girano attorno finché non vi sono dentro.

Così l'antitesi condannato/folla arriva all'approdo e trova un nuovo senso rovesciandosi, facendo suo il ter-

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mine più periferico, divenuto di colpo il solo portatore della colpa, il solo segno temibile e condannabile. La teoria hughiana deH'« umanità bambina», del popolo selvaggio e in crescita, può certo essere fatta intervenire a giustificazione del ribaltamento fulmineo che sembra voler trascinare sul banco degli accusati una folla anco¬

ra inarginata, da indirizzare, correggere, e forse, cri¬

stianamente, da perdonare. Non so quanto il Dernier jour acquisterebbe se lo si avvalorasse con una siffatta, romantica concezione del male; da semplice lettrice di romanzi, preferisco la seduzione d'un piccolo testo au¬

tonomo, ma guizzante e polimorfo qual è questo.

Franca Zanetti Quarantini

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Nota alla traduzione

Trent'anm prima dei Misérables, dove viene utilizzato in vasta misura, Yargot (dal provenzale gergori, poi jargon) ri¬

ceve il suo battesimo letterario nel Demier jour d’un con- damné. Questo misterioso codice pare fosse diffuso in Francia fin dal XVII secolo - e forse prima ancora, se si tien conto di quella sorta di Ur-argot disseminato nei testi poetici di Francois Villon; a crearlo, furono ladri, truffato¬

ri, mendicanti e assassini, i quali si trovavano per com¬

prensibili ragioni nella necessità di mascherare alle orec¬

chie delle autorità il senso dei loro discorsi. Nella seconda metà deliOttocento, tuttavia, per la sotterranea e sempre più vasta diffusione non fu più possibile proteggere la na¬

tura criptica dellV;rgo/, che venne infine decifrato dalla po¬

lizia parigina: neutralizzato nelle sue sostanziali finalità criptiche, Yargot si ridusse a operare come un puro effetto linguistico, e in tale veste entrò nell'uso sociale e collettivo.

Nell'impiego che ne fa Hugo, l’originario ermetismo ha assecondato egregiamente l’idea di allegare al testo del Demier jour un documento in forma di dépliant (qui ripro¬

dotto alle pp. 90-91), che nell'edizione originale era stam¬

pato in un formato più grande rispetto alle dimensioni del volume. Come si può constatare dalla riproduzione foto¬

grafica, il foglio riporta accanto al testo in argot numerose note, destinate a restituire agli occhi del lettore francese il significato delle parole altrimenti oscure; e non è da esclu¬

dere che nelle intenzioni dell'autore l’inserimento del fo¬

glio, redatto in più grafie (a titolo di curiosità: nei «due versi intercalati» cui si fa cenno nella Nota a p. 89 della

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presente edizione, è stata riconosciuta la scrittura dello stesso Hugo), abbia obbedito al desiderio d'insinuare un supplemento d'inquietudine tra il pubblico, lasciato in dubbio sulla provenienza e l'autenticità dell'intero testo.

Quanto al problema del trasferimento dell'argot in ita¬

liano, va premesso che la nostra lingua non possiede un lessico equivalente: non possiede, cioè, un lessico altret¬

tanto unitario e compatto quale doveva essere Yargot origi¬

nario; le nostre costellazioni di termini gergali, d'inflessio¬

ne spiccatamente regionale,4 costituiscono piuttosto delle diramazioni dialettali. Nell'impossibilità di tradurre pro¬

priamente i termini argotici, se optato per un «trasferi¬

mento» di detti termini in un italiano decisamente meno criptico dell'originale, ma che tien conto della qualità pit¬

toresca della matrice argotica e tenta, quando possibile, di tener vive la radice e l'origine semantica del corrispettivo lessico argotico. Di ogni termine è stata trascritta, in nota e in corsivo, la forma originale.

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Nota bio-bibliografica

1802 26 febbraio. Nasce a Besangon Victor-Marie Hugo, terzogenito di Joseph-Léopold Sigisbert Hugo, ca¬

pitano dell'esercito di Napoleone, e di Sophie Tré- buche t.

1803 Gennaio. Partenza degli Hugo per Bastia, in Corsi¬

ca, quindi soggiorno all'isola d'Elba, a Portoferraio.

Ritorno a Parigi.

1806 Aprile. Il maggiore Léopold Hugo viene mandato in missione nella provincia di Avellino.

Novembre. Léopold cattura il "brigante" Fra Diavolo e lo fa impiccare.

1808 Ritorno a Parigi della signora Hugo con i tre figli, Abel, Eugène e Victor.

1809 Léopold è nominato governatore della provincia di Segovia, mentre Sophie, con i figli, si sistema a Pa¬

rigi, nell'ex convento delle Feuillantines.

1811 La signora Hugo raggiunge il marito in Spagna. Pri¬

mo amore di Victor Hugo per una certa Pepita. Stu¬

di al Collegio dei Nobili di Madrid.

1812 Alano. Madrid è minacciata dall'offensiva di Wel¬

lington. Ritorno alle Feuillantines. Victor scrìve la sua prima opera, un melodramma dal titolo Le Chà- teau. du Diable.

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1814 Invasione della Francia e abdicazione di Napoleone.

11 generale Hugo viene degradato. Divorzio dei geni¬

tori di Victor Hugo.

1815 Sconfitta di Waterloo. Victor scrive i suoi primi ver¬

si, mentre frequenta i corsi della «pensione Cordier»

assieme al fratello Eugène.

1816 Intensa attività poetica di Victor: «Voglio essere Chateaubriand oppure nulla!». Frequenta il liceo Louis-le-Grand e si prepara per il Politecnico.

1817 Agosto. Il poema Dii Bonheur que procure VÉtilde dans toutes les Situations de la Vie ottiene una segna¬

lazione dell'Académie frangaise.

1818 Prime Odes. Victor e Eugène si orientano verso gli studi di giurisprudenza. Prima stesura del romanzo Bug-Jarguì.

1819 Con i fratelli, Victor Hugo fonda la rivista bimestra¬

le «Le Conservateur littéraire». Victor si innamora di Adèle Foucher.

1820 Sophie Hugo si dimostra ostile al matrimonio di Victor con Adèle. Pubblicazione di Bug-JargaL 1821 Léopold Hugo si risposa con la giovane Catherine

Thomas. Amicizia di Victor con Lammenais.

1822 8 giugno. Pubblicazione di Odes et Poésies diverses.

12 ottobre. Victor sposa Adèle nella chiesa parigina di Saint-Sulpice. La sera stessa, Eugène ha la prima crisi di demenza.

1823 Pubblicazione del romanzo Han d’Islande.

16 luglio. Nasce il primogenito di Victor e Adèle, Léopold, che morirà il 9 ottobre successivo.

1824 Nouvelles Odes.

28 agosto. Nasce la figlia Léopoldine.

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1825 Assiste con Nodier e Lamartine airincoronazione di Carlo X nella cattedrale di Reims. Ode du sacre.

Viaggio in Svizzera. Breve sosta a Saint-Point, al ca¬

stello di Lamartine.

1826 Victor Hugo lavora al suo dramma Cromwell. A no¬

vembre escono in libreria Odes et Ballades.

1827 Cromwell. Nella Prefazione pone i principi del dram- ma romantico.

1828 Morte del generale Hugo. Stesura di Le Dernier jour d'uri condamné. Nascita di Frangois-Victor.

1829 19 gennaio. Les Orientales.

3 febbraio. Le Dernier jour d'un condamné. Il dram¬

ma Marion de Lorme è vietato dal governo. Sdegna¬

to, Victor Hugo rifiuta una pensione di Carlo X.

1830 25 febbraio. Prima rappresentazione di Hemani.

28 luglio. Nasce Adèle.

1831 Notre-Dame de Paris esce in libreria. Prima rappre¬

sentazione di Marion de Lorme al Teatro della Porte Saint-Martin. Les Feuilles d’automne. Il matrimonio di Victor Hugo va in crisi.

1832 Prefazione alla 5a edizione di Le Dernier jour d'un condamné.

6 e 1 giugno. Sommossa repubblicana in occasione dei funerali del generale Lamarque. Le Roi s’amuse è vietato.

1833 Lucrèce Borgia. Victor Hugo diventa l'amante di Ju- liette Drouet. Marie Tudor.

1834 19 marzo. Littérature et philosophie mélées.

6 settembre. Claude Gueitx.

1835 Prima rappresentazione di Angelo al Théàtre- Frangais. Les Chants du crépuscule.

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1836 Viene respinta la candidatura di Victor Hugo alla Académie frangaise, nonostante l'appoggio di Cha¬

teaubriand, La martini e Nodier.

1837 Nel manicomio di Charenton muore Eugène Hugo.

Les Voix intérieures. Viaggio nel Nord della Francia e in Belgio con Juliette Drouet.

1838 8 novembre. Prima rappresentazione del dramma Ruy Blas.

1839 Victor Hugo visita il bagno penale di Tolone.

1840 Les Rayons et les Ombres. Viaggio sul Reno.

1841 7 gennaio. Victor viene eletto alla Académie fran^ai- se. Due giorni dopo incontra una prostituta mole¬

stata per strada da un borghese e poi portata via dalla polizia. L'episodio sarebbe all'origine del per¬

sonaggio di Fantine nei Miserabili.

1842 15 febbraio. Matrimonio di Léopoldine con Charles Vacquerie.

11 settembre. Durante una passeggiata in barca, i giovani sposi annegano a Villequier.

1845 Victor Hugo è nominato pari di Francia.

17 novembre. Inizia la stesura di Jean Tréjean (e cioè dei Miserabili).

1846 Discorsi pronunciati alla Camera dei Pari. Visita al carcere della Roquette.

1847 Victor Hugo lavora alla redazione di Les Misères (che diverrà / Miserabili).

1848 Febbraio. La Rivoluzione interrompe l’attività lette¬

raria di Hugo. Il manoscritto dei futuri Misérables rimane fermo a IV, XV, 1.

25 febbraio. Victor Hugo è nominato sindaco del suo arrondissement a Parigi.

4 giugno. È eletto deputato per la destra

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6 luglio. Ostile alla sommossa popolare, è costretto a lasciare la sua abitazione di place Royale (attuale places des Vosges).

10 dicembre. Viene eletto alla presidenza della Repub¬

blica Luigi-Napoleone; Hugo ne sostiene l'elezione.

1849 Victor Hugo si distacca dalla destra conservatrice.

9 luglio. Discorso sulla miseria. Intensa attività par¬

lamentare.

1850 /5gennaio. Discorso suua lioertà dell'insegnamento.

21 maggio. Discorso a favore del suffr agio universale.

9 luglio. Discorso a favore della libertà di stampa.

1851 Victor Hugo si schiera dalla parte dei repubblicani.

2 dicembre. Colpo di Stato di Luigi Napoleone. Hu¬

go tenta, con alcuni parlamentari, di organizzare una resistenza.

11 dicembre. Lascia la Francia con passaporto falso e raggiunge Br uxelles.

1852 9 gennaio. Luigi Napoleone firma il decreto di espul¬

sione di Victor Hugo.

5 maggio. Sempre a Bruxelles finisce la stesura di Histoire d’un crime e di Napoléon le Petit.

12 agosto. Sistemazione nell’isola di Jersey, a Mari¬

ne Terrace.

1853 Sedute spiritiche a Jersey.

25 novembre. Pubblicazione di Les Chàtiments.

1854 Intensa attività poetica.

11 febbraio. «I Miserabili saranno sotto la forma di un dramma e di un romanzo una specie di epopea sociale della miseria».

1855 7 febbraio. Morte del fratello Abel.

31 ottobre. Victor Hugo, espulso da Jersey, parte alla volta di Guernesey.

1856 28 aprile. L'editore Hetzel pubblica simultaneamen¬

te a Parigi e a Bruxelles Les Contemplaiions. Grande

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successo di pubblico. Grazie ai diritti d'autore, Vic¬

tor Hugo acquista la residenza di Hauteville House.

1857 Redige L'Àne, La Pitié suprème, La Revolution.

1858 Grave malattia di Victor Hugo.

1859 Lavora alle Petites Epopées (diventeranno La Légen- de des siècles). Nell'isola di Serk, compone i versi delle Chansons des rues et des bois.

26 settembre. Hetzel pubblica la prima parte della Legende des siècles.

1860 Victor Hugo interrompe la stesura della Fin de Satan.

25 aprile. Riprende il manoscritto dei Misérables.

14 giugno. A Jersey pronuncia un discorso in lode di Garibaldi.

Agosto. Lavora alla “prefazione Filosofica" dei Misé¬

rables, incompiuta e rimasta inedita.

30 dicembre. Hugo riprende il filo della narrazione del romanzo abbandonato nel 1848.

1861 Viaggio in Belgio per visitare Waterloo in compa¬

gnia di Juliette Drouet.

22 maggio. Ripresa della redazione dei Misérables.

4 ottobre. Victor Hugo firma un contratto con ledi- tore belga Albert Lacroix.

1862 7gennaio. Le prime bozze dei Misérables giungono a Hauteville House.

30 marzo. La prima parte del romanzo esce a Bruxel¬

les, poi a Parigi, il 3 aprile.

15 giugno. Fine della correzione delle bozze.

16 settembre. Banchetto a Bruxelles in onore della pubblicazione dei Misérables.

1863 3 gennaio. Prima rappresentazione in un teatro di Bruxelles del dramma Les Misérables di Charles Hu¬

go, tratto dal romanzo del padre. Adèle Hugo scap¬

pa da Guernesey per raggiungere il tenente Penson, di cui è innamorata, a Halifax (Canada).

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Agosto-ottobre. Viaggio di Victor Hugo nelle Arden- ne e in Renania.

1864 15 aprile. William Shakespeare.

Agosto-ottobre. Terzo viaggio di Hugo in Belgio e in Germania.

1865 Victor Hugo termina il manoscritto Les Travailleurs de la mer.

Giugno-ottobre. Quarto viaggio in Belgio e Germania.

1866 12 marzo. Les Travailleurs de la mer. A fine luglio, inizia L’Homme qui rit.

1867 Pubblicazione di Paris-Guidet in occasione della Esposizione Universale.

20 giugno. Ri presa di Hernani, accolto trionfalmen¬

te dal pubblico. Viaggio in Olanda.

1868 27 agosto. Morte improvvisa della signora Hugo a Bruxelles.

1869 19 aprile. L'Homme qui rit.

18 agosto. Hugo rifiuta l’amnistia che gli consenti¬

rebbe di tornare in Francia.

Settembre. Presiede a Losanna il Congresso della Pace.

1870 Victor Hugo riprende l’attività poetica.

4 settembre. Dopo la sconfitta di Sedan, in Francia è proclamata la Repubblica.

5 settembre. Hugo torna a Parigi acclamato dalla fol¬

la. Assedio di Parigi.

1871 28 gennaio. Firma dell'armistizio con la Prussia.

8 febbraio. Victor Hugo viene eletto deputato.

13 marzo. Morte del figlio Charles. Comune di Pari¬

gi. Hugo viene espulso dal territorio belga per aver difeso i ‘Vinti della Comune".

1872 Adèle viene ricoverata in una casa di cura a Saint- Mandé; morirà nel 1915 nel castello di Suresnes.

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20 aprile. L'Année terrible. Partenza per Guernesey.

Inizia il suo ultimo romanzo, Quatrevingt-treize.

1873 Rientro a Parigi e sistemazione in rue Pigalle. Morte del figlio Francois-Victor.

1874 19 febbraio. Pubblicazione di Quatrevingt-treize.

Ottobre. Mes jìls.

1875 Giugno. Actes et Paroles I (.avarit l’exil).

Novembre. Actes et Paroles II (Pendant l’exil).

1876 Victor Hugo viene eletto senatore su proposta di Clemenceau; discorso al Senato per un’amnistia a favore dei Communards.

5 luglio. Actes et Paroles III (Depuis Vexil).

11 agosto. Victor Hugo è nominato presidente della sinistra al Senato.

1877 26 febbraio. La Légende des siècles, seconda parte.

12 maggio. L’Art d’étre grand-pére.

7 ottobre. Pubblicazione della Histoire d’un crime scritta nel 1852.

1878 29 aprile. Le Pape.

27-28 giugno. Leggera congestione cerebrale. Guer¬

nesey. Parigi: sistemazione in avenue d'Eyleau (l’at¬

tuale avenue Victor Hugo).

1879 Febbraio. La Pitié suprème.

1880 Aprile. Religions et Religion.

24 ottobre. L’Àne.

1881 31 maggio. Les Quatre Vents de l’Esprit.

1882 26 maggio. Torquemada. Viene rieletto senatore.

1883 11 maggio. Morte di Juliette Drouet.

9 giugno. Terza parte della Légende des siècles.

Ottobre. L’Archipel de la Manche, prefazione per Les Travailleu'c de la mer.

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1885 15 maggio. Congestione polmonare.

22 maggio. Morte di Victor Hugo.

1°giugno. Funerali nazionali ai quali assiste una fol¬

la di due milioni di persone. Dall’Arco di Trionfo le spoglie di Hugo sono trasportate al Panthéon.

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L’ultimo giorno

di un condannato a morte

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Prefazione

In testa alle prime edizioni di quest'opera, pubblica¬

ta in origine senza nome d’autore, non si leggevano che le poche righe qui trascritte:

«Vi sono due modi per rendersi conto della natura di questo libro. 0 è realmente esistito un fascio di fogli gialli e diseguali su cui son stati rinvenuti, apposti uno a uno, gli ultimi pensieri d'uno sventurato; oppure è capitato che un uomo, un sognatore occupato ad os¬

servare la natura a profitto dell'arte, un filosofo, chis¬

sà?, o un poeta, abbia avuto la fantasia di quell'idea, che l'ha preso o meglio se lasciato prendere da lei, fin¬

ché per sbarazzarsene non ha potuto far altro che metterla in un libro.

«Delle due spiegazioni, il lettore sceglierà quella che vuole.»

Come si vede, all'epoca in cui il libro uscì, l'autore non ritenne opportuno dir subito il suo pensiero. Pre¬

ferì aspettare che venisse compreso e vedere se lo sa¬

rebbe stato. Lo è stato. L'autore può oggi smascherare Tidea politica, l'idea sociale, che aveva voluto rendere popolari sotto quell'innocente e candida forma lette¬

raria. Egli dunque dichiara, anzi confessa aperta¬

mente che L’ultimo giorno di un condannato a morte

non è altro che una perorazione diretta o indiretta,

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come si pr eferisce, per l’abolizione della pena di mor¬

te. Ciò che egli ha inteso fare, ciò che egli vorrebbe che la posterità vedesse nella sua opera, se mai s’oc¬

cuperà di tanto poco, non è la difesa speciale, sempre facile, sempre transitoria, di questo o quel criminale scelto, di questo o quell’accusato delezione; ma una perorazione generale e permanente in favore di tutti gli accusati presenti e a venire; è il grande punto di di¬

ritto dell’umanità, addotto e perorato a gran voce din¬

nanzi alla società, che rappresenta la grande corte di cassazione; è il supremo rigetto d’istanza, abhorrescere a sanguine, apposto per sempre in testa a tutti i processi criminali; è la cupa, fatale questione che oscuramente palpita al fondo di tutte le cause capitali, sotto il triplice strato di pathos di cui ravvolge la retorica sanguinosa degli uomini del re; è la questione di vita e di morte, vi dico, svestila, denudata, spogliata dei contorcimenti so¬

nori della pubblica accusa, brutalmente messa in luce e collocata dove bisogna vederla, dove occorre che sia, dove essa è realmente, nel suo vero spazio, in quell’or- rendo spazio che non è il tribunale ma il patibolo, e do¬

ve non sta un giudice ma un carnefice.

Questo è ciò che l’autore ha voluto fare. Se mai l’avvenire - egli non osa sperarlo - gli assegnerà la gloria ri averlo fatto, non chiederà altra corona.

Egli dunque dichiara, e lo ripete, di patrocinare tutti i possibili accusati, innocenti o colpevoli, da¬

vanti a tutte le corti, a tutte le aule, a tutte le giurie, a tutte le giustizie. Questo libro s'indirizza a chiunque giudica. E affinché la perorazione fosse ampia quan¬

to la causa, egli ha dovuto rimuovere ovunque dal suo soggetto - ed è per questo che L’ultimo giorno di un condannato a morte è così fatto - il contingente, l’accidentale, il particolare, l’eccezionale, il relativo, il modificabile, l’episodico, l'aneddoto, l’avvenimento, il nome proprio, limitandosi (se ciò equivale a limitarsi) a difendere la causa d’un condannato qualsiasi, giusti-

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ziato in un giorno qualsiasi per un qualsiasi delitto.

Felice lui se, col solo strumento del pensiero, avrà sa¬

puto scavare tanto a fondo da far sanguinare un cuo¬

re sotto Yaes triplex del magistrato! felice lui se avrà saputo impietosire chi si credeva un giusto! felice lui se, a forza di scavare dentro al giudice, avrà potuto talvolta ritrovare l'uomo!

Tre anni fa, quando uscì il libro, alcuni ritennero do¬

veroso contestare all'autore la sua idea. Ci fu chi indicò unii bro inglese, chi un libro americano. Strana mania, quella di cercare a mille leghe l’origine delle cose, e di far nascere dalle sorgenti del Nilo il rivoletto che lava la vostra strada! Non ce qui dentro, purtroppo, nessun li¬

bro inglese né americano né cinese. L'autore ha preso l'idea de L’ultimo giorno di un condannato a morte non da un libro - non ha l’abitudine d’andare a cercare le sue idee tanto lontano ma dove voi tutti potevate pren¬

derla, dove forse l'avete presa (ditemi, chi non ha fatto o sognato dentro di sé L’ultimo giorno di un condanna¬

to a ritorte?), semplicemente nella pubblica piazza, in place de Grève. Fu lì che passando, un giorno, egli ha raccolto quell’idea fatale; giaceva in una pozza di san¬

gue, sotto i rossi monconi della ghigliottina.

Da allora ogni volta che, sulla scia dei funerei gio¬

vedì della Corte di cassazione, veniva il giorno in cui il grido duna condanna a morte risuonava per Pari¬

gi, ogni volta che l'autore sentiva passare sotto le sue finestre gli strilloni arrochiti che aizzavano gli spet¬

tatori verso la Grève, la dolorosa idea gli ritornava, s'appropriava di lui, gli empiva la testa di guardie, di carnefici e di folla, gli dettagliava ora per ora le ulti¬

me sofferenze dello sventurato agonizzante - adesso lo confessano, adesso gli tagliano i capelli, adesso gli legano le mani - intimandogli, povero poeta, di dir tutto alla società che pensa ai propri affari mentre si compie quel fatto mostruoso: lo sollecitava, Io spin¬

geva, lo scuoteva, gli strappava i versi dalla mente se

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mai era intento a farne, glieli uccideva dentro ancora in bozzolo, gli impediva qualsiasi lavoro, si metteva dostacolo a tutto, rinvestiva, l’ossessionava, l'asse¬

diava. Era un supplizio, un supplizio che iniziava al mattino e che durava, come quello del miserabile che nello stesso istante veniva torturato, fino alle quattro. Soltanto allora, dopo il ponens caput expira- vit gridato dalla funesta voce dell’orologio, l’autore poteva respirare e l itrovare una qualche libertà di spirito. Finalmente un giorno, forse all'indomani dell'esecuzione d’Ulbach, se messo a scrivere questo libro. Da allora s'è sentito sollevato. Quando viene commesso uno di quei pubblici delitti che chiamano esecuzioni giudiziarie, la coscienza gli dice che lui non è più solidale; né se più sentito sulla fronte la goccia di sangue che dalla Grève zampilla sul capo di tutti i membri della comunità sociale.

Questo però non basta. Lavarsi le mani è bene, impedire che scorra il sangue sarebbe meglio.

Perciò egli non conosce uno scopo più elevato, più santo, più augusto del concorrere all'abolizione della pena di morte. Perciò dal fondo del cuore egli aderi¬

sce ai voti e agli sforzi degli uomini generosi di tutti i paesi che da anni s'adoperano ad abbattere l'albero patibolare, il solo che le rivoluzioni non sradicano.

Ed è con gioia che a sua volta viene, lui meschino, a dare il proprio colpo di scure per fare più profondo il taglio che, sessantasei anni fa, Beccaria lasciò sul vecchio patibolo eretto da secoli sulla cristianità.

(34)

I

Bicètre Condannato a morte!

Sono cinque settimane che abito con questo pen¬

siero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!

Un tempo, giacché mi sembrano passati anni e non settimane, io ero un uomo come tanti. Ogni giorno, ogni ora o minuto aveva un'idea nuova. La mia mente, giovane e ricca, traboccava di fantasie, e si divertiva a dispiegare per me, una dopo l'altra, senz'ordine e senza fine, ricamando infiniti arabe¬

schi sulla stoffa ruvida e sottile della vita. Erano gio¬

vinette, erano cappe vescovili sontuose, battaglie vinte, teatri pieni di rumore e di luce, e poi ancora giovinette e buie passeggiate di notte sotto le larghe braccia degli ippocastani. Era sempre festa nella mia immaginazione. Potevo pensare a quel che volevo, ero libero.

Adesso sono prigioniero. Ho il corpo in ceppi in una cella, la mente imprigionata in un'idea. Un'orri¬

bile, una sanguinosa, un'implacabile idea! Non ho più che un pensiero, una convinzione, una certezza:

condannato a morte!

Qualsiasi cosa io faccia, l’infernale pensiero è sempre qui, al mio fianco come uno spettro di piom¬

bo, solo e geloso, e in faccia a me, sventurato, dile¬

gua ogni distrazione e mi scrolla con le sue mani ge-

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lide quando vorrei girare la testa o chiudere gli oc¬

chi. S'insinua in tutte le forme con cui la niente vor¬

rebbe sfuggirgli, si mescola come un infame ritornel¬

lo alle parole che mi rivolgono, s'aggrappa con me alle orrende sbarre di questa cella, m'ossessiona da sveglio, spia il mio sonno convulso, e mi riappare nei sogni sotto forma dun coltello.

Mi desto di soprassalto, lui m'insegue, «Ah! è solo un sogno!» mi dico. Ebbene, ancor prima d'avere il tempo di schiudere questi occhi pesanti per vedere il fatale pensiero scritto nell'atroce realtà che mi circon¬

da, sulla pietra umida e st illante della cella, nei raggi pallidi della lampada, nella rozza trama di tela dei miei vestiti, sulla faccia cupa del soldato di guardia con la giberna che balena tra le sbarre, già mi sembra d'aver udito una voce mormorarmi al l'orecchio:

«Condannato a morte!»

II Era un bel mattino di agosto.

Da tre giorni era cominciato il mio processo; da tre giorni il mio nome e il mio delitto radunavano ogni mattina un nugolo di spettatori, pronti a buttarsi sui banchi della sala d’udienza come dei corvi attorno a un cadavere; da tre giorni una fantasmagoria di giu¬

dici, testimoni, avvocati, procuratori del re, ini passa¬

va e ripassava davanti, ora grottesca ora sanguinosa, sempre cupa e fatale. Le prime due notti, per l’ango¬

scia e il terrore, non avevo potuto dormire; la terza, m’ero addormentato per noia e per stanchezza. A mezzanotte avevo lasciato i giurati che deliberavano.

M'avevano ricondotto sulla paglia della cella, e imme¬

diatamente ero piombato in un sonno profondo, in un sonno d'oblio. Erano le prime ore di riposo dopo molti giorni.

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Giacevo ancora al fondo di quel profondo sonno quando vennero a svegliarmi. Stavolta non bastaro¬

no i passi pesanti del carceriere, le scarpe ferrate, il tintinnio del mazzo di chiavi, lo stridere rauco delle serrature; mi ci vollero, per uscire da quella letargia, una brusca voce all'orecchio e una ruvida mano sul braccio. «Su, alzatevi!» Aprii gli occhi, mi drizzai a sedere sgomento. In quell'attimo, attraverso l’alta e stretta finestra della cella, vidi sul soffitto del corri¬

doio accanto, unico cielo che potessi scorgere, il ri¬

flesso giallo in cui degli occhi abituati alle tenebre duna prigione sanno così bene riconoscere il sole.

Amo il sole.

«È bel tempo» dissi al carceriere.

Rimase un istante senza rispondere, quasi si chie¬

desse se valeva la pena di spendere una parola; poi con uno sforzo mormorò brusco:

«Può darsi.»

Restavo immobile, con la mente semiaddormenta¬

ta, un sorriso sulle labbra e Io sguardo fisso verso il tenue riverbero dorato che screziava il soffitto.

«È proprio una bella giornata » ripetei.

«Sì,» rispose l'uomo «vi stanno aspettando.»

Quelle poche parole, come il filo che spezza il volo d'uri insetto, mi riportarono violentemente alla realtà.

Rividi di colpo, come alla luce d’un lampo, la cupa sala d'assise, il banco a ferro di cavallo dei giudici ingombro di stracci insanguinatile tre file di testimoni dalle facce attonite, le due guardie alle estremità del mio banco, e gli abiti neri agitarsi, le teste della folla brulicare laggiù, nell'ombra, e fermarsi su di me lo sguardo fisso dei do¬

dici giurati che avevano vegliato mentre io dormivo!

Mi alzai; battevo i denti, le mani mi tremavano e non riuscivano a trovare gli indumenti, le gambe era¬

no fiacche. Al primo passo, vacillai come un portatore troppo carico. Ciò nonostante seguii il carceriere.

Le due guardie m'aspettavano sulla porta della cel-

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la. Mi rimisero le manette: avevano una serratura pic¬

cola e complicata che venne chiusa con cura. Lasciai fare: erano solo una macchina su una macchina.

Traversammo un cortile interno. L'aria viva del mattino mi rianimò. Alzai la testa. Il cielo era azzur¬

ro e i raggi caldi del sole, interrotti dai lunghi comi¬

gnoli, disegnavano grandi angoli di luce in cima ai muri alti e scuri della prigione. Faceva davvero bel tempo.

Salimmo una scala a chiocciola; passammo un corridoio, poi un altro, poi un terzo; poi una porta bassa s aprì. Un’aria calda, mista a un brusio, mi colpì in viso; era il fiato della folla nella sala d'assise.

Entrai.

Ci fu al mio apparire un rumore d armi e di voci. I banchi si spostarono fragorosamente. I tramezzi scricchiolarono; e mentre percorrevo la lunga sala fra quel duplice assembramento di popolo sbarrato dai soldati, mi sembrava d’essere il centro dove con¬

vergevano i fili che muovevano quelle facce piegate verso di me e a bocca aperta.

Fu in quel momento che m'accorsi d'essere senza ferri; ma non riuscii a ricordare né dove né quando me li avevano tolti.

Si fece allora un grande silenzio. Raggiunsi il mio posto. Non appena s'acquietò il tumulto tra la folla, esso cessò anche nelle mie idee. D'un tratto capii di¬

stintamente quel che avevo intuito in forma vaga fi¬

no allora, che il momento decisivo era venuto e che ero lì per ascoltare la sentenza.

Non so spiegarmi, ma per la maniera in cui mi venne quell’idea, io non provai alcun terrore. Le fine¬

stre erano aperte; l'aria e il rumore della città arriva¬

vano liberamente da fuori; la sala era chiara come per una festa nuziale; qua e là, i raggi gioiosi del sole disegnavano le sagome lucenti delle finestre che s'al¬

lungavano sul pavimento, avanzavano sui tavoli, si

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spezzavano all'angolo dei muri; e da quelle losanghe di luce fino alle finestre, ogni raggio ritagliava nell’a¬

ria un gran prisma di polvere d'oro.

In fondo alla sala, i giudici avevano l'aria soddi¬

sfatta, probabilmente per la gioia di poter finire di lì a poco. Appena rischiarato dal riflesso d'un vetro, il volto del presidente aveva un che di calmo e di buo¬

no; e un giovane giudice aggiunto, spiegazzandosi il collaretto, discorreva quasi allegramente con una bella signora dal cappellino rosa, seduta dietro di lui per un privilegio particolare.

Solo i giurati apparivano lividi e abbattuti, ma senz'al¬

tro per la fatica d'aver vegliato tutta la notte. Alcuni sba¬

digliavano. Nel loro atteggiamento nulla indicava degli uomini che hanno appena emesso una sentenza di mor¬

te; e sul le facce di quei bravi borghesi non indovinavo che una gran voglia di dormire.

Di fronte a me c era una finestra spalancata. Sen¬

tivo ridere sul quai delle fioraie; e sul davanzale della finestra, una pianticella gialla, bagnata da un raggio di sole, giocava col vento in una fessura della pietra.

Come avrebbe potuto sorgere un'idea sinistra tra tante gentili sensazioni? Inondato d'aria e di sole, mi fu impossibile pensare ad altro che alla libertà; la speranza cominciò a splendermi dentro come la luce che mi stava intorno; e fiducioso aspettai il verdetto come si aspetta la liberazione e la vita.

Nel frattempo arrivò il mio avvocato. Lo stavano aspettando. Aveva pranzato abbondantemente e di buon appetito. Giunto al suo posto, si chinò verso di me con un sorriso.

«Io spero» mi disse.

«Non è vero?» risposi, sollevato e sorridente a mia volta.

«Sì» riprese «non so ancora niente della loro dichia¬

razione, ma avi-anno senz'altro scar tato la premedita¬

zione, e allora vi daranno soltanto i lavori forzati a vita.»

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«Che dite, signore?» replicai indignato «cento vol¬

te meglio la morte!»

Sì, la morte! - E del resto, mi ripeteva una vaga voce interiore, cosa rischio a dir così? Se mai pronunciata una condanna a morte diversamente che a mezzanot¬

te, alla luce delle fiaccole, in una sala buia e nera, in una fredda notte di pioggia invernale? Ma nel mese di agosto, alle otto del mattino, in una giornata così bel¬

la, con quei buoni giurati, è impossibile! E i miei occhi tornavano a fissarsi sul fiorellino giallo al sole.

A un tratto il presidente, che aspettava solo l'avvo¬

cato, m'invitò ad alzarmi. Il drappello presentò le ar¬

mi; e come per una scossa elettrica l’intera assem¬

blea si levò in piedi all'istante. Una figura insulsa e scialba, che stava a un tavolo sotto il tribunale - do¬

veva trattarsi del cancelliere - prese la parola e lesse il verdetto che i giurati avevano pronunciato in mia assenza. Mi uscì dalle membra un sudore freddo;

m'appoggiai al muro per non cadere.

«Avvocato, avete qualcosa da dire riguardo all'ap¬

plicazione della pena?» chiese il presidente.

Avrei avuto tutto da dire, io, ma non mi usci nulla.

La lingua restò incollata al palato.

Il difensore si alzò.

Capii che cercava di attenuare la dichiarazione della giuria e d'insinuare, in luogo della pena richie¬

sta, l'altra pena, quella che aveva sperato e che tanto m'aveva ferito.

L’indignazione doveva essere ben forte per aprirsi un varco tra le mille emozioni che si disputavano la mia mente. Volevo ripetere ad alta voce quello che avevo già detto: cento volte meglio la morte! Ma mi mancò il fiato; potei solo afferrarlo per il braccio e gridare con forza convulsa: «No!».

11 procuratore generale replicò all'avvocato; io l'ascol¬

tavo con una soddisfazione inebetita. Poi i giudici usci¬

rono, tornarono, e il presidente mi lesse la sentenza.

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«Condannato a morte!» disse la folla, e mentre mi portavano via, tutta quella gente si precipitò sui miei passi col fracasso d un edificio che crolla. Io cammina¬

vo, smarrito e stupefatto. S era compiuta una rivolu¬

zione in me. Fino alla condanna a morte, m ero sentito respirare, palpitare, vivere nello stesso spazio degli al¬

tri uomini; adesso distinguevo chiaramente una bar¬

riera tra me e il mondo. Niente m appariva più sotto lo stesso aspetto di prima. Le ampie finestre luminose, il bel sole, il cielo puro, il fiorellino, tutto era bianco, pal¬

lido, del colore d un lenzuolo. Mi pareva che gli uomi¬

ni, le donne, i ragazzini che s affollavano al mio pas¬

saggio, avessero lariadi tanti fantasmi.

In fondo alle scale m'aspettava una nera e sporca carrozza con le inferriate. Al momento di salirvi, lan¬

ciai a caso un'occhiata nella piazza. «Un condannato a morte!» gridavano i passanti, correndo verso la vet¬

tura. Attraverso la nube che sentivo interposta tra me e le cose, distinsi due ragazze che mi seguivano avidamente con gli occhi. «E così» diceva la più gio¬

vane, battendo le mani «sarà tra sei settimane!»

Ili Condannato a morte!

Ebbene, perché no? Gli uomini, ricordo d'aver let¬

to in chissà quale libro dove non c era che questo di buono,1 gli uomini son tutti condannati a morte con proroghe indefinite. Cosa c'è dunque di tanto cambia¬

to nella mia situazione?

Dall’ora in cui è stata pronunciata la sentenza, quanti sono morti, che si disponevano a una lunga

1 In realtà la frase si incontra al cap. XLVITI del romanzo Han dislande, che Hugo aveva pubblicato nel 1823.

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vita! Quanti mi hanno preceduto che, giovani, liberi, sani, certo contavano d’andare un giorno a veder ca¬

dere la mia testa in Place de Grève! E forse, da oggi ad allora, quanti ancora mi precederanno, che cam¬

minano e respirano all'aria aperta, entrano ed esco¬

no a loro piacimento!

Ma in fondo, che cos’ha la vita perché io debba tanto rimpiangerla? Solo un po' di luce fioca, il tozzo di pane nero del carcere, la povera razione di broda¬

glia presa dalla marmitta dei galeotti; e venir mal¬

trattato, malmenato dai carcerieri, dagli aguzzini - proprio io, affinato dall'educazione -, non vedere mai un essere umano che mi creda degno di una pa¬

rola e a cui rispondere, trasalire di continuo per quello che ho fatto e che mi faranno: son questi, pressappoco, i soli beni che il boia possa togliermi.

Ah! non importa, è orribile!

IV

La nera vettura mi condusse qui, nell'infame Bicètre.

Da lontano, ledificio non manca d’imponenza. Si profila all'orizzonte, sul fianco duna collina, e a di¬

stanza conserva qualcosa dell'antico splendore, un'a¬

ria da castello reale. Ma provate ad avvicinarvi, e il palazzo diventerà una stamberga. I frontoni in rovi¬

na offendono lo sguardo. Un che di vergognoso e mi¬

serando aleggia sulle regali facciate; i muri paiono affetti da una lebbra. Non più vetri né ante alle fine¬

stre; solo sbarre massicce di ferro incrociate, con la faccia sparuta d'un galeotto o d'un matto che qua e là vi s'incolla.

È la vita vista da vicino.

(42)

V

Appena arrivato, s'impadronirono di me delle mani di ferro. Le precauzioni si moltiplicarono; non un coltel¬

lo né una forchetta per il pasto; la camicia di forza, una specie di sacco di tela da vela, m'imprigionò le braccia; c era da rispondere della mia vita. M ero ap¬

pellato in cassazione. La gravosa faccenda poteva du¬

rare sei o sette settimane; per questo era importante conservarmi vivo e vegeto fino a Place de Grève.

I primi giorni venni trattato con una gentilezza che mi parve ripugnante. I riguardi d'un secondino puz¬

zano di patibolo. Per fortuna, dopo pochi giorni pre¬

valse l’abitudine; mi confusero con gli altri prigionieri nella comune brutalità, e non ebbero più quegli in¬

consueti tratti di cortesia che di continuo mi rimette¬

vano davanti agli occhi il boia. Non fu quello l’unico miglioramento. La mia giovane età, la mia docilità, gli interessamenti del cappellano della prigione, e so¬

prattutto qualche parola in latino rivolta al guardia¬

no, che non le capì, mi fecero ottenere la passeggiata una volta alla settimana insieme agli altri detenuti, e scomparve la camicia che mi paralizzava. Dopo molti tentennamenti, mi si diede anche dell'inchiostro, del¬

la carta, delle penne e una lampada.

Tutte le domeniche, dopo la messa, mi lasciano andare in cortile, allora della ricreazione, e lì parlo un po' coi detenuti: bisogna pur farlo. Sono buona gente, poveracci. Mi raccontano le loro imprese: cose da inorridire, ma loro se ne vantano. M'insegnano a parlare a modo loro, a masticare il gergo,2 così dico¬

no. L una vera lingua che s'innesta su quella genera¬

le come una specie d'escrescenza repellente, come una verruca; ma a volte possiede un'energia singola-

- Rousca iIle r bigome.

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re, una vivacità impressionante: c'è del mosto sulla strada3 (del sangue), sposare la vedova4 (venir impic¬

cato), come se la corda della forca fosse la vedova di tutti gli impiccati. La testa d un ladro ha due nomi:

la sorbona,5 quando medita, analizza e consiglia il

delitto; la trincia,6 * 8 9 10 II quando il boia la taglia. A volte, s'incontra una freschezza da operetta: un manto di

paglia1 (la gerla dello straccivendolo), la bugiarda8 (la lingua); e ovunque, continuamente, parole strane, misteriose, brutte, sordide, venute da chissà dove: il lamettone9 (il boia), la stucca10 (la morte), la piazzar- dau (la piazza dell'esecuzione). Sembrano ranocchi e ragni. Sentir parlare quella lingua fa l'effetto di qualcosa di sporco e polveroso, come un viluppo di stracci che qualcuno vi scuota in piena faccia.

Però questi uomini mi compatiscono, e sono gli unici. I carcerieri, i secondini, i custodi con le chiavi - non serbo loro alcun rancore - discutono, ridono e parlano di me, davanti a me, come d una cosa.

VI Mi son detto:

«Poiché ho i mezzi per scrivere, perché non farlo?

Ma cosa scrivere? Stretto tra quattro mura di pietra nuda e fredda, senza libertà per i miei passi, senza un orizzonte per gli occhi, intento a seguire mecca-

5 II y a du résiné sur le trimar 4 Epouser la ve uve.

5 La sorbonne.

6La tronche.

I Un chachemird'osier.

8La menteuse.

9 La laute.

10La cane.

II La placarde.

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nicamente, per tutto il giorno, come unica distrazio¬

ne, il lento percorso del quadrato di luce biancastra che lo spioncino della porta ritaglia sul muro nero di fronte, e sempre - come dicevo poc'anzi - faccia a faccia con quest'idea di delitto e di castigo, d'assassi¬

nio e di morte! Cosa posso avere ancora da dire, io che non ho più nulla da fare in questo mondo? Nel mio cervello guasto e vuoto, cosa troverò che meriti di venir scritto?

«Perché no? Se tutto intorno a me è sbiadito e mo¬

notono, non ce in me forse una tempesta, una lotta, una tragedia? L'idea fissa che mi possiede, non mi fronteggia forse in ogni ora, in ogni istante e con nuove forme, sempre più ripugnante e sanguinosa man mano che la scadenza si avvicina? Perché non dovrei provare a dirmi tutto quel che di violento e d'ignoto sto vivendo nello stato d'abbandono in cui mi trovo? E di certo una materia ricca; e per quanto scorciata sia la mia vita, nell'angoscia, nel terrore, nelle torture che la riempiranno da questa fino all'ul¬

tima ora, resterà ancora di che consumare la penna ed esaurire l’inchiostro. - Del resto, l'unico modo per soffrir di meno tra tante angosce, è osservarle, e de¬

scriverle mi distrarrà.

«Inoltre, quello che scriverò forse non sarà inutile.

Questo diario delle mie sofferenze, d'ora in ora, di minuto in minuto, di supplizio in supplizio, se avrò mai la forza di pollarlo fino all’istante in cui mi sarà fisicamente impossibile continuare; questa storia, necessariamente incompiuta, ma per quanto possi¬

bile completa, delle mie sensazioni, non porterà for¬

se con sé un grande e profondo insegnamento? In questo verbale del pensiero agonizzante, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie d'autopsia intellettuale d'un condannato non potrebbe esservi più duna lezione per quelli che con¬

dannano? Forse, una simile lettura potrebbe rendere

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la mano meno leggera, quando si dovrà nuovamente gettare una testa pensante, la testa d un uomo, su quella che essi chiamano la bilancia della giustizia.

Hanno forse riflettuto, gli sciagurati, alla lenta se¬

quela di torture racchiuse nella formula spiccia du¬

na condanna a morte? Si son mai soffermati un istante sull’idea atroce che neiruomo che sopprimo¬

no ce un’intelligenza; un'intelligenza che aveva con¬

tato sulla vita, un'anima che non se preparata alla morte? No. Ai loro occhi tutto questo altro non è che la caduta verticale d'una lama triangolare, e di certo pensano che per il condannato non esista niente pri¬

ma e niente dopo.

«Leggendo queste pagine si ricrederanno. Pubbli¬

cate forse un giorno, li faranno per un attimo indugia¬

re col pensiero sulle sofferenze dello spirito: proprio quelle che essi non sospettano. Esultano di poter ucci¬

dere senza far quasi soffrire il corpo. Ah, ma questo è il punto! Cos e mai il dolore fisico accanto al dolore mo¬

rale! Orrore e pietà per leggi siffatte! Verrà un giorno e forse queste memorie, ultime confidenti d'uno sven¬

turato, vi avranno contribuito...

«Sempre che dopo la mia morte il vento non gio¬

chi nel cortile con questi pezzetti di carta sporchi di fango, o che essi non vadano a marcire sotto la piog¬

gia, incollati a raggiera contro il vetro rotto d'un usciolo.»

VII

Anche se quanto sto scrivendo riuscirà utile un gior¬

no ad altri, frenerà il giudice dal giudicare, salverà degli infelici, innocenti o colpevoli, dall'agonia cui m’hanno condannato, ebbene? a che prò? che me ne viene? Quando m'avranno tagliato la testa, cosa m’importerà se la taglieranno anche ad altri? Come

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ho potuto pensare simili follie? Smantellare il pati¬

bolo dopo esservi salito! Ditemi voi a che mi gioverà.

11 sole, la primavera, i campi fioriti, gli uccelli che si svegliano al mattino, le nuvole, gli alberi, la natu¬

rala libertà, la vita, niente di tutto questo è più mio!

Ah, son io che dovreste salvare! - Ditemi, è pro¬

prio vero che non si può, che dovrò morire domani, forse oggi, è cosi? Dio! che cosa orribile, da rompersi la testa contro il muro di questa cella!

Vili

Contiamo quel che mi resta:

Tre giorni di proroga dopo la sentenza, per il ri¬

corso in cassazione.

Otto giorni di giacenza in Corte d'assise, dopodiché gli a tti, come si usa dire, vengono mandati al ministro.

Quindici giorni d'attesa dal ministro, il quale nep¬

pure sa che esistono, e che però si suppone li tra¬

smetta, previo esame, alla Corte di cassazione.

Lì giunti, classificazione, numero progressivo, re¬

gistrazione; perché la ghigliottina è affollata, e ognu¬

no ci passerà quand'è il suo turno.

Quindici giorni per controllare che non vi faccia¬

no dei torti.

Poi la corte si riunisce, di solito un giovedì, respin¬

ge in blocco venti ricorsi e inoltra il tutto al ministro, che inoltra al procuratore generale, il quale inoltra al boia. Tre giorni.

La mattina del quarto giorno, mentre s annoda la cravatta, il viceprocuratore generale pensa: «Biso¬

gnerà pur chiudere questa faccenda ». Allora, se non è impedito da un pranzo tra amici, il vicecancelliere redige la minuta dell'ordine d'esecuzione, la trascri¬

ve in bella copia, la spedisce e l'indomani all'alba sul¬

la place de Grève si sentono inchiodare le impalcatu-

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re, mentre agli incroci gridano a più non posso degli strilloni arrochiti.

In tutto sei settimane. La ragazza aveva ragione.

Da almeno cinque settimane, forse da sei, non oso contarle, mi trovo in questa cella d'isolamento di Bicétre, e mi sembra che tre giorni fa fosse giovedì.

IX Ho fatto testamento.

A che scopo? Mi condannano anche alle spese, e tutto quello che ho basterà appena. È molto cara, la ghigliottina.

Lascio una madre, lascio una moglie, lascio una figlia.

Una bimbetta di tre anni, dolce, rosea, fragile, con gli occhioni neri e lunghi capelli castani.

Aveva due anni e un mese quando la vidi l'ultima volta.

Così, dopo la mia morte, tre donne, senza figlio, senza marito, senza padre; tre orfane di diversa spe¬

cie; tre vedove per volere della legge.

Che io sia giustamente punito, lo accetto; ma quel¬

le innocenti, cosa hanno fatto? Non importa, vanno disonorate, rovinate. È la giustizia.

Non è tanto la mia povera, vecchia madre ad an¬

gustiarmi; ha sessantaquattr'anni, morirà sul colpo.

O se andrà avanti ancora qualche giorno, le basterà avere fino all’ultimo un po' di cenere calda nello scal¬

dino, e non chiederà altro.

Né mia moglie mi angustia di più; è già di salute malferma, ha la testa debole. Morirà anche lei.

A meno che non impazzisca. Dicono che la follia lasci vivere e che l'intelligenza non soffra; dorme, co¬

me morta.

Ma mia figlia, la mia bambina, la povera, piccola Marie, che a quest’ora ride, gioca e canta spensiera¬

ta, è lei che mi fa male!

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X Ecco corri'è fatta la mia cella:

Otto piedi quadrati. Quattro muri di pietra a vista poggianti ad angolo retto su un pavimento a lastre un poco più alto rispetto a quello del corridoio ester¬

no. A destra della porta, entrando, una specie di av¬

vallamento simula malamente lo spazio destinato al sonno. Lì buttano una balla di paglia, su cui il pri¬

gioniero dovrebbe riposare e dormire, vestito con dei pantaloni di tela e una casacca di canapa grossa, estate e inverno.

Sopra la testa, in guisa di cielo, una nera volta a ogiva - è così che si chiama -, da cui penzolano co¬

me stracci delle pesanti ragnatele.

Infine, non una finestra né uno spiraglio. Solo una porta su cui il ferro copre il legno.

Mi sbaglio; al centro della porta, verso l'alto, ce un'apertura di nove pollici quadrati, tagliata a croce da un'inferriata e che il secondi no può richiudere la notte.

Fuori, un corridoio piuttosto lungo, rischiarato e aerato da qualche stretto spiraglio in cima al muro e diviso da compartimenti in muratura, che comunica¬

no l'uno con l'altro attraverso una serie di porte basse a centina; ogni compartimento serve per così dire da anticamera a una cella simile alla mia. È lì che vengo¬

no messi i forzati condannati dal direttore della pri¬

gione a pene disciplinari. Le prime tre celle d'isola¬

mento sono riservate ai condannati a morte: essendo più vicine alla guardiola, sono più comode per il se¬

condino.

Queste celle rappresentano tutto quel che resta del¬

l’antico castello di Bicétre quale fu costruito nel Quat¬

trocento dal cardinale di Winchester, lo stesso che fe¬

ce bruciare Giovanna d'Arco. L'ho sentito dire da certi curiosi che etmano venuti a vedermi l'altro giorno nella mia celletta e che mi guardavano da lontano come se

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fossi un animale da serraglio. Al secondino hanno da¬

to cento soldi.

Dimenticavo di dire che notte e giorno ce una sentinella di guardia alla mia porta, e che non posso alzare gli occhi verso il riquadr o dello spioncino sen¬

za incontrare quei due occhi fissi e sempre aperti.

Per il resto, si suppone che vi siano aria e luce in questa scatola di pietra.

XI

Poiché il giorno ancora non si mostra, che fare della notte? Ho avuto un'idea. Mi sono alzato e con la lam¬

pada ho fatto il giro delle quattro mura. Sono coperte di scritte, disegni, strane figure e nomi che s'intreccia¬

no l’uno con l'altro fino a cancellarsi. Ogni condannato si direbbe che abbia voluto lasciare una traccia, alme¬

no qui. Con la matita, col gesso, col carbone, a lettere nere, bianche, grigie, spesso con profonde incisioni nella pietra, e qua e là con certi caratteri rugginosi che paiono scritti col sangue. Se avessi l'animo più sgom¬

bro, sicuramente proverei interesse per lo strano libro che si svolge davanti ai miei occhi, pagina dopo pagi¬

na, su ogni pietra della cella.

Mi piacerebbe ricondurre a un tutto quei fram¬

menti di pensiero sparsi sulla pietra; ritrovare ogni uomo dietro il nome; restituire il senso e la vita alle iscrizioni mutilate, alle frasi smembrate, alle parole troncate, corpi senza testa come chi le scrisse.

All'altezza del capezzale, ci sono due cuori fiam¬

manti, trafitti da una freccia, e sopra: Amore per la vi¬

ta.~Lo sventurato non aveva preso un lungo impegno.

Accanto, una specie di cappello a tricorno con una figura approssimativamente disegnata e queste paro¬

le; Viva l’imperatore! 1824.

Ancora due cuori ardenti con quest'iscrizione, ca-

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