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C'era qualcosa di ripugnante in lei, i capelli mi si rizzano a pensarci

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 101-122)

Le chiesi:

«Che fate lì?»

Non rispose.

Le chiesi:

«Chi siete?»

Non rispose, non si mosse, e restò ad occhi chiusi.

I miei amici dissero:

«Deve essere la complice di quelli che sono entrati con qualche brutta idea; saranno scappati sentendo¬

ci venire; lei non sarà riuscita a fuggire e si sarà na¬

scosta lì.»

L'ho interrogata di nuovo: è rimasta senza una vo¬

ce, senza un movimento, senza uno sguardo.

Uno di noi l’ha spinta a terra ed è caduta.

È caduta d un sol colpo, come un pezzo di legno, come una cosa morta.

L'abbiamo toccata col piede, poi due di noi l'han¬

no rialzata e di nuovo appoggiata contro il muro.

Non ha dato segno di vita. Le abbiamo gridato nelle orecchie, è rimasta muta come se fosse sorda.

Ma noi stavamo spazientendoci, e c era anche del¬

la collera nel nostro terrore.

Qualcuno ha detto:

«Mettetele la candela sotto il mento.»

Le ho messo lo stoppino acceso sotto il mento. Al¬

lora ha aperto un occhio per metà, un occhio vuoto, smorto, spaventato, e che non guardava.

Ho tolto la fiamma e ho detto:

«Ah! finalmente! risponderai, adesso, vecchia stre¬

ga? Chi sei?»

L'occhio se chiuso come da sé.

«Questa poi! è troppo» hanno detto gli altri. «An¬

cora la candela! Ancora! Deve parlare!»

Ho rimesso la luce sotto il mento della vecchia.

Allora ha aperto adagio entrambi gli occhi, ci ha guardato tutti, l'uno dopo l’altro, poi chinandosi bru¬

scamente ha soffiato sulla candela col suo fiato geli¬

do. In queiristante ho sentito tre denti aguzzi affon¬

dare nella mia mano, nelle tenebre.

Mi sono svegliato rabbrividendo, bagnato d'un su¬

dore diaccio.

Il buon cappellano era seduto ai piedi del letto e stava leggendo le preghiere.

«Ho dormito molto?» ho chiesto.

«Figliolo» mi ha detto «avete dormito un’ora. Vi hanno portato la vostra bambina. È di là, nella stan¬

za accanto, che v'aspetta. Non ho voluto che vi sve¬

gliassero.»

«Oh sì, miafiglia,» ho gridato «portatemi mia figlia!»

XLIII

È fresca e rosea, ha gli occhi grandi, è bella! Il vesti- tino che le hanno messo le sta bene.

L'ho presa, l'ho sollevata tra le braccia, Tho fatta sedere sulle ginocchia, l'ho baciata sui capelli.

Perché non è con la madre? - La madre è malata, e anche la nonna. Meglio così.

Mi guardava con aria stupita; si lasciava accarez¬

zare docile, abbracciare, divorare di baci; ma di tan¬

to in tanto lanciava occhiate inquiete alla balia che piangeva in un angolo.

Finalmente sono riuscito a parlare.

«Marie!» ho detto «mia piccola Marie!»

La stringevo forte contro il mio petto gonfio di singhiozzi. Lei ha lanciato un gridolino.

«Oh, mi fate male, signore» ha detto.

Signore! tra poco sarà un anno che non mi vede, povera bambina. Di me ha dimenticato tutto, il viso, la parola, il tono di voce; e poi, chi mi riconoscereb¬

be con questa barba, questi vestiti, questo pallore?

Ma allora, mi ha già cancellato dalla sua memoria, la sola in cui avrei voluto vivere! Dunque, non son già più un padre! son condannato a non udire più quella parola che appartiene alla lingua dei bambini, quella

parola troppo dolce per rimanere nella lingua degli uomini: papà\

Eppure, udirla sulle sue labbra ancora una volta, una sola volta, era tutto quello che avrei voluto in cambio dei quarant anni di vita che mi strappano.

«Ascoltami, Marie,» le ho detto, congiungendo le sue manine nelle mie «è proprio vero che non mi conosci?»

Lei mi ha guardato coi suoi begli occhi e mi ha ri¬

sposto:

«Certo che no!»

«Guardami bene» ho ripetuto. «Davvero non sai chi sono?»

«Sì, un signore» ha detto la bambina.

Ahimè! amare appassionatamente una sola perso¬

na al mondo, amarla con tutto l'amore e averla da¬

vanti a sé, che vi vede e vi guarda, vi parla e vi ri¬

sponde, e che non vi conosce! Cercare consolazione solo in lei, mentre lei è la sola a ignorare che ne ave¬

te bisogno, perché di lì a poco morirete!

«Marie» ho ripreso «hai un papà?»

«Sì, signore» ha detto la bambina.

«Ebbene, dove?»

Ha alzato degli occhioni meravigliati.

«Ah, non lo sapete? È morto.»

E ha lanciato un grido; per poco non 1 avevo la¬

sciata cadere.

«Morto!» dicevo. «Marie, lo sai cosa vuol dire es¬

sere morto?»

«Sì, signore» ha risposto. «Essere nella terra e nel cielo.»

E ha continuato da sé:

«Prego il buon Dio per lui mattino e sera sulle gi¬

nocchia della mamma.»

L'ho baciata in fronte.

«Marie, dimmi la tua preghiera.»

«Non posso, signore. Di giorno non si prega. Veni¬

te stasera a casa mia e ve la dirò.»

Era troppo, l'ho interrotta.

«Marie, sono io il tuo papà.»

«Ah!» ha detto.

Ho aggiunto: «Vuoi che sia io il tuo papà?».

E la piccola, divincolandosi:

«No, il mio papà era molto più bello.»

L'ho coperta di baci e di lacrime. Ha cercato di li¬

berarsi delle mie braccia gridando:

«Mi fate male con quella barba.»

Allora Tho rimessa sulle mie ginocchia e, man¬

giandola con gli occhi, ho chiesto:

«Marie, sai leggere?»

«Certo che so leggere!» ha risposto. «La mamma mi fa leggere le lettere».

«Vediamo un po'» le ho detto, indicando il foglio di carta che teneva accartocciato in una manina.

Ha scosso la testa.

«Oh no! so leggere solo le favole.»

«Prova ugualmente. Leggi, su!»

Ha spiegato il foglio e s'è messa a compitare con un dito:

«D, E, de, C, R, E, ere,

T,

O, to, DECRETO...»

Gliel'ho strappato dalle mani. Stava leggendo la mia condanna a morte. La balia sera comprato il fo¬

glio per un soldo. A me sarebbe costato più caro.

Non ci sono parole per dire quello che provai. La mia violenza l'aveva spaventata; quasi piangeva.

D'un tratto mi ha detto:

«Ridatemelo! mi serve per giocare.»

L'ho riconsegnata alla balia.

«Portatela via.»

E sono ripiombato sulla sedia, fosco, deserto, di¬

sperato. Da un momento all'altro arriveranno; non me n'importa; l'ultima fibra del mio cuore s'è spezza¬

ta. Son buono solo per quel che mi faranno.

XLIV

È una brava persona, il prete, e anche la guardia. De¬

vono aver versato una lacrima quando ho chiesto che mi portassero la bambina.

È fatta. Adesso bisogna irrigidirsi e con fermezza pensare al boia, alla carretta, alle guardie, alla folla sul ponte, alla folla sul quai, alla folla alle finestre, e a quel che ci sarà, apposta per me, sulla lugubre place de Grève, che si potrebbe lastricare con le teste che ha vi¬

sto cadere.

Ho ancora un ora, credo, per abituarmici.

XLV

Tutta quella gente riderà, batterà le mani, applaudirà.

E tra quegli uomini, liberi e ignoti ai carcerieri, che corrono euforici verso un'esecuzione, tra quella folla di teste che coprirà la piazza, più d una testa sarà pre¬

destinata a seguire prima o poi la mia, nel cesto rosso.

Più d'uno che ci viene per me, ci verrà per sé.

In un punto preciso di place de Grève, ce per quegli esseri fatali un luogo fatale, un centro d'attrazione, una trappola. Vi girano attorno finché non vi sono dentro.

XLVI

La mia piccola Marie! L’hanno rimandata a giocare;

sta guardando la folla dalla portiera della carrozza, e non pensa già più a quel signore.

Forse ho ancora il tempo di scrivere qualche pagi¬

na per lei, perché un giorno le legga e pianga tra quindici anni questo giorno.

Sì, bisogna che sia io a farle conoscere la mia sto¬

ria, e perché il nome che le lascio è insanguinato.

XLVII LA MIA STORIA

Nota dell’editore. Non sono ancora stati ritrovati i fo¬

gli relativi a questa parte. Forse, come i fogli succes¬

sivi sembrano indicare, il condannato non ha avuto il tempo di scriverli. Era già tardi quando gli è venu¬

to quel pensiero.

XLVIII

Da una stanza del municipio Dal municipio!... Dunque, ci siamo. L'esecrabile tra¬

gitto s'è compiuto. Laggiù c'è la piazza, e sotto la fi¬

nestra l'orrenda plebaglia abbaia, aspetta, e ride.

Per quanto abbia cercato di resistere e d'irrigidir- mi, me mancato il cuore. Quando ho visto tra i due lampioni del quai, al di sopra delle teste, drizzarsi i due bracci rossi col triangolo nero in cima, il corag¬

gio me venuto meno. Ho chiesto di fare un'ultima dichiarazione. Mi hanno portato qui e sono andati a cercare un procuratore del re. Lo sto aspettando, è pur sempre qualcosa di guadagnato.

Dunque:

Suonavano le tre, sono venuti ad avvertirmi che era ora. Ho tremato come se da sei ore, da sei setti¬

mane, da sei mesi, avessi pensato sempre ad altro.

Mi ha fatto l'effetto di qualcosa d'inatteso.

Mi hanno fatto percorrere i loro corridoi, scende¬

re le loro scale. Mi hanno spinto tra due porticine, al pianterreno, in una sala buia, stretta, a volta, appena rischiarata da un giorno di pioggia e nebbia. Nel mezzo stava una sedia. Mi hanno detto di sedermi;

mi sono seduto.

Cera vicino alla porta e lungo i muri qualche per¬

sona in piedi, oltre al prete e alle guardie, e c'erano anche tre uomini.

Il primo, il più alto, il più vecchio, era grasso e con la faccia rossa. Portava una finanziera e un cappello sformato a tricorno. Era lui.

Era il boia, il servo della ghigliottina. Gli altri due erano gli aiutanti.

Appena seduto, quelli mi si sono avvicinati da die¬

tro, come due gatti; ho sentito di colpo tra i capelli il freddo dell'acciaio e nelle orecchie lo stridio delle forbici.

I capelli, tagliati a casaccio, mi cadevano a cioc¬

che sulle spalle, e l’uomo dal tricorno li toglieva deli¬

catamente con la grossa mano.

Intorno parlavano sottovoce.

C'era molto rumore, fuori, come un fremito che ondeggiasse nell'aria. Sulle prime ho pensato al fiu¬

me; poi, da qualche risata squillante, ho riconosciuto in quel rumore la folla.

Vicino alla finestra, un giovane intento a scrivere con la matita su un taccuino ha chiesto a uno dei se¬

condini come si chiamava quello che stavano facendo.

«La toilette del condannato» ha risposto l'altro.

Ho capito che l'indomani la cosa sarebbe stata sul giornale.

A un tratto uno dei servi mi ha tolto la giacca, l'al¬

tro ha preso le mie mani inerti, le ha girate dietro la schiena, e io ho sentilo i nodi duna corda chiudersi adagio attorno ai polsi stretti l'uno all’altro. Contem¬

poraneamente, l’altro mi disfava la cravatta. La mia camicia di batista, unico brandello di ciò che ero sta¬

to un tempo, l’ha fatto esitare un istante; poi se mes¬

so a tagliare il colletto.

A quell’orrenda precauzione, al gelo dell acciaio che mi toccava il collo, i gomiti hanno avuto uno scatto e me sfuggito una specie di ringhio sommes¬

so. La mano dell'esecutore ha tremato.

«Perdono, signore!» ha detto. «Forse vi ho fatto male?»

Questi boia sono persone dolcissime.

Fuori la folla urlava più forte.

L'omone con la faccia rossa di foruncoli mi ha of¬

ferto da respirare un fazzoletto imbevuto d'aceto.

«Grazie,» gli ho detto con la voce più ferma che ho potuto «è inutile; mi sento bene.»

Allora uno dei due se chinato e mi ha legato i pie¬

di con una cordicella lenta, che mi lasciava far sol¬

tanto dei brevi passi. La corda è stata unita a quella delle mani.

Poi l’omone mi ha buttato la giacca sulle spalle e annodato insieme le maniche sotto il mento. Quel che doveva fare, l'aveva fatto.

Allora il prete s'è avvicinato col crocefisso.

«Andiamo, figliolo» mi ha detto.

I due aiutanti mi hanno preso per le ascelle. Mi so¬

no alzato, ho camminato. Avanzavo a passi molli e malfermi, come se in ogni gamba avessi avuto due ginocchia.

In quel momento la porta esterna se aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un'aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio.

Dal fondo dell'oscura guardiola, di colpo ho visto at¬

traverso la pioggia le mille facce urlanti della gente ammassata sulla rampa del grande scalone del palaz¬

zo, a destra, al livello del la soglia, una fila di guardie a cavallo - a causa della porta bassa, non scorgevo che le zampe anteriori e i pettorali dei cavalli-; di fronte, un distaccamento di soldati in assetto di guerra; a sini¬

stra, la parte posteriore duna carretta, contro la quale era appoggiata un'erta scala. Una quadro orrendo, ben incorniciato da una porta di prigione.

Avevo conservato il mio coraggio per quel momen¬

to tanto temuto. Ho fatto tre passi, e sono apparso sulla soglia della guardiola.

«Eccolo! eccolo!» ha gridato la folla. «Esce! final¬

mente!»

E i più vicini battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa.

Era una qualsiasi carretta con un cavallo macilento e un vetturino in camiciotto blu a disegni rossi, come quelli che portano gli ortolani intorno a Bicètre.

L’omone col tricorno è salito per primo.

«Buondì, Sannson!» gridavano i ragazzini appesi alle cancellate.

Un aiutante gli è andato dietro.

«Bravo, Martedì!» hanno gridato di nuovo i ragazzini.

Si sono seduti entrambi sul sedile davanti.

Toccava a me. Sono salito con passo abbastanza fermo.

«È in gamba!» ha detto una donna che stava ac¬

canto alle guardie.

L’atroce elogio mi ha rincuorato. Il prete è venuto a mettersi vicino a me. M'avevano fatto sedere sul se¬

dile di dietro, con la schiena rivolta al cavallo. Estre¬

mo riguardo che mi ha fatto rabbrividire.

Mettono dell’umanità in quel che fanno.

Ho voluto guardarmi intorno. Guardie davanti, guardie dietro; poi la lolla, la folla, ancora la folla.

Un mare di teste sulla piazza.

Un picchetto di guardie a cavallo m’aspettava sul¬

la soglia del cancello del palazzo.

L’ufficiale ha dato l’ordine. La carretta col suo cor¬

teo se messa in movimento, ed è stato come se l’a¬

vesse spinta innanzi l’urlo della folla.

Abbiamo varcato il cancello. Non appena la car¬

retta ha svoltato verso il Pont-au-Change, dal selcia¬

to ai tetti è esploso il fragore della piazza, e i ponti e le banchine hanno risposto come in un terremoto.

È stato lì che il picchetto in attesa s'è unito alla scorta.

«Giù i cappelli! giù i cappelli!» gridavano mille bocche insieme. - Come davanti al re.

Allora, a mia volta ho riso orrendamente, e ho det¬

to al piote:

«Loro i cappelli, e io la testa.»

Andavamo al passo.

Tl quai aux Fleurs profumava di fiori; oggi è gior¬

no di mercato. Le venditrici hanno abbandonato per me i loro mazzetti.

Di fronte, poco prima della torre quadrata che sta all’angolo del palazzo, ci sono delle osterie con le ve¬

rande piene di spettatori, felici dei loro ottimi posti.

Soprattutto le donne. Sarà una buona giornata per gli osti.

Noleggiavano tavoli, sedie, impalcature, carrette.

Tutto rigurgitava di spettatori. Dei venditori di san¬

gue umano gridavano a squarciagola:

«Chi vuole dei posti?»

La rabbia contro la folla m'è salita dentro. Avrei voluto gridare:

«Chi vuole il mio?»

Ma la carretta avanzava. A ogni passo, dietro di me la folla si smembrava e con gli occhi smarriti io la vedevo riformarsi più avanti, nei punti in cui sarei passato.

NeH'imboccare il Pont-au-Change, per caso ho guardato indietro alla mia destra. I miei occhi si so¬

no fermati sull'altro quai, sopra le case, su una torre nera, solitaria e irta di sculture, sulla cui cima ho vi¬

sto due mostri di pietra seduti di profilo. Non so per¬

ché ho chiesto al prete il nome di quella torre.

«Saint-Jacques-la-Boucherie» ha risposto il boia.

Ignoro come ciò avvenisse; ma nella nebbia, mal¬

grado la pioggia fine e bianca che rigava l'aria come il reticolo d una ragnatela, niente di quanto m’acca¬

deva intorno mi sfuggiva. Ogni dettaglio m'inviava la sua tortura. Mancano le parole per siffatte emozioni.

A metà circa del Pont-au-Change, così largo e in¬

gombro che avanzavamo a stento, mi ha invaso vio-

lentissimo l'orrore. Ho temuto - ultima vanità! - di venir meno. Allora mi sono stordito da solo, per far¬

mi cieco e sordo a tutto, tranne al prete di cui udivo appena le parole, inframmezzate dal l'umore.

Ho afferrato il crocefisso, l'ho baciato.

«Abbiate pietà di me, mio Dio!» ho detto. - E ho cercato di annullarmi in quel pensiero.

Ma ogni sobbalzo della dura carretta mi scuoteva.

Poi d'improvviso mi son sentito addosso un gran freddo. La pioggia mi aveva attraversalo gli abiti e mi bagnava la pelle della testa attraverso i capelli ta¬

gliati corti.

«Tremate per il freddo, figliolo?» mi ha chiesto il prete.

«Sì» ho risposto.

Ohimè, non soltanto per il freddo.

Alla svolta del ponte, delle donne si sono impieto¬

site per la mia giovinezza.

Abbiamo imboccato il fatale quai. Cominciavo a non veder più nulla, a non sentir più nulla. Quelle voci, quelle facce alle finestre, sulle porte, alle infer¬

riate dei negozi, sui bracci dei lampioni; quegli spet¬

tatori avidi e crudeli; quella folla ove tutti mi cono¬

scono e in cui io non conosco nessuno; questa strada lastricata, murata di volti umani... Ero sconvolto, inebetito, fuori di me. È insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di voi.

Vacillavo sul sedile, senza neppur prestare atten¬

zione al prete e al crocefisso.

Nel tumulto che m’avvolgeva, non distinguevo più le grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai lamenti, le voci dal rumore; tutto era rumore, un rumore che mi ustionava nella testa come in un'eco di ottoni.

I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne dei negozi.

D un tratto mi ha preso la strana curiosità di gira¬

re la testa per vedere dove stavo andando. Era un'ul-

tima bravata dell'intelligenza. Ma il corpo non ha vo¬

luto saperne; la mia nuca s'è paralizzata, quasi mor¬

ta anzitempo.

Scorsi a sinistra, oltre il fiume, una delle due toni di Notre-Dame che, vista da quel punto, nasconde l'altra. Era la torre con la bandiera. Zeppa di gente, che doveva veder bene.

E la carretta andava, andava, e i negozi passava¬

no, e le insegne si succedevano, scritte, dipinte, dora¬

te, mentre la gentaglia rideva e scalpitava nel fango, e io mi lasciavo pollare come un addormentato che s’affida ai sogni.

Ma allo svoltare d una piazza, la serie di negozi che mi sfilava davanti se interrotta; il grido della fol¬

la se fatto più vasto, più stridulo, e ancor più gioio¬

so; di colpo la carretta s'è fermata, e io per poco non sono caduto con la faccia in giù sulle assi del pianci- to. Il prete mi ha sorretto. «Coraggio!» ha mormora¬

to. - Allora hanno portato una scala sul retro della carretta; il prete mi ha dato il braccio, son sceso, ho fatto un passo, poi mi sono girato per farne un altro, e non ci sono riuscito. Tra i due lampioni del quai ho visto una cosa sinistra.

Sì, era vera!

Mi sono fermato, come se già vacillassi sotto il colpo.

«Ho un'ultima dichiarazione da fare!» ho gridato debolmente.

Mi hanno fatto salire qui.

Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volontà. Mi hanno slegato le mani, ma la corda è pronta qui vicino, e il resto è giù.

XLIX

Un giudice, un commissario, un magistrato - ignoro a quale razza appartenga - è appena salito da me.

Gli ho chiesto la grazia a mani giunte, trascinando¬

Gli ho chiesto la grazia a mani giunte, trascinando¬

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 101-122)