RIESAMINARE LA RELATIVITÀ LINGUISTICA
3.3 Metaphorical Framing
Nel contesto degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, dominato dalle teorie generativiste, lo studio della semantica viene messo in secondo piano, per lo più ristretta ai termini della semantica generativa.
È in questo clima che George Lakoff e Mark Johnson agiscono, segnando, con la pubblicazione di Metaphors We Live By (1980), un punto di svolta tanto nell’ambito degli studi linguistici su larga scala, quanto in quello degli studi semantici. La premessa a tale monumentale lavoro è rappresentata dalla teoria della metafora concettuale di Lakoff, che rappresenta non solo un punto di fondamentale importanza nella storia della semantica cognitiva, ma è anche un punto di vista interessante ed originale nell’ambito dell’ampia questione della relatività linguistica. Per questi motivi ho ritenuto importante citare il lavoro in questa sede.
Come afferma Dirk Geeraerts in Theories of lexical semantics267 le metafore costituiscono la maggiore area di ricerca nell’ambito della semantica cognitiva. Il loro studio sistematico inizia a partire dagli anni Ottanta, allorquando viene pubblicata l’opera spartiacque di Lakoff e Johnson.
Conceptual Metaphor Theory
La teoria proposta da Lakoff si basa su tre proposizioni: la prima afferma che le metafore non siano un fenomeno esclusivamente lessicale, ma che siano in primis un fenomeno di carattere cognitivo. Quest’argomentazione non è in realtà una assoluta novità della teoria lakoffiana; a ben guardare infatti già la semantica storico-filologica interpreta le metafore non come un mero meccanismo stilistico, che abbia lo scopo ultimo di abbellire retoricamente il testo, quanto piuttosto si tratterebbe di un meccanismo cognitivo; è pur vero, però, che la teoria della metafora concettuale propone al lettore per la prima volta un numero ingente di prove a favore della sua natura cognitiva. Il secondo pilastro della teoria poggia sulla convinzione che la metafora debba essere analizzata in quanto mappatura (mappa) fra due domini concettuali. Infine, il terzo punto
institutional settings, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 66-100; John B. Haviland, Anchoring, Iconicity and Orientation in Guugu Yimithirr Pointing Gestures, «Journal of Linguistic Anthropology», vol. 3, n. 1,
1993, pp. 3-45; Penelope Brown, Stephen C. Levinson, Explorations in Mayan Cognition, Working Paper n. 24, Cognitive Anthropology Research Group, Max Planck Institute for Psycholinguistics, Nijmegen, 1993.
ha a che fare con la concezione secondo cui la metafora, e in generale la semantica linguistica, sia basata sull’esperienza e che, quindi, debba essere inquadrata storicamente e culturalmente268.
L’idea che la metafora non sia un mero strumento retorico a disposizione del poeta o di chiunque voglia abbellire il proprio discorso, comporta un altro tipo di ragionamento; esso implica infatti che la metafora non sia situata sul livello superficiale del linguaggio, quanto, piuttosto, sia un fenomeno situato nella profondità del nostro sistema concettuale, che faccia parte di quest’ultimo, e che, dunque, modifichi e dia forma al nostro pensiero, non solo nella fase della sua espressione linguistica. La metafora quindi non influenza solo il modo in cui parliamo, ma anche il modo in cui pensiamo. In questi termini, il nesso con la classica formulazione della relatività linguistica emerge chiaramente.
Come sostiene Nadja Niyaz nel paper Metaphorical Framing, the Sapir-Whorf-Hypothesis and how language shapes our thoughts, dato il traboccare di informazioni che il parlante riceve in ogni momento della sua quotidianità, egli ha bisogno di semplificare tali informazioni, per poi formulare delle supposizioni e poter trarre le conclusioni su tutte quelle informazioni che prende in considerazione. Le strategie con cui si confronta con tale flusso sono essenziali per il buon funzionamento delle sue attività mentali; in questo senso, la lingua in generale, con le sue caratteristiche grammaticali, e le metafore in particolare, con la capacità di mettere in relazioni più domini concettuali e con quella di permetterci di leggere un concetto complesso nei termini di uno più immediato, forniscono quelli stessi strumenti strategici di cui il nostro cervello necessita, orientando la nostra percezione e concezione della realtà269.
Come riportano Geeraerts e Claudia Casadio270, Lakoff ritiene che le metafore si costituiscano di patterns, che trascendono le singole voci lessicali. Così, nel funzionamento di una metafora concettuale, consistente nella proiezione fra due distinti domini, l’uno chiamato source domain e l’altro target domain, e nella messa in corrispondenza fra aspetti del primo ed aspetti del secondo, vengono raccolte una varietà di espressioni idiomatiche, che hanno origine ed
268 Ivi, p. 183.
269 Nadja Niyaz, Metaphorical Framing, the Sapir-Whorf-Hypothesis and how language shapes our thoughts, Murcia, Grin, 2017, p. 9.
270 Si veda Claudia Casadio, Effetto Framing: Come inquadriamo il mondo con le metafore, Università degli Studi
di Chieti e Pescara, Facoltà di Psicologia, 2009:
https://www.academia.edu/4865266/Effetto_Framing_come_inquadriamo_il_mondo_con_le_metafore, consultato il 15 ottobre 2018.
estendono la metafora concettuale iniziale. Ma per cogliere meglio questo cruciale passaggio proviamo ad andare con ordine, esemplificando le situazioni appena descritte.
Il fatto che la metafora di per sé costituisca un pattern che va al di là della singola parola può essere mostrato in maniera chiara rifacendoci ad un esempio proposto da Lakoff e Johnson nella loro argomentazione:
LOVE IS A JOURNEY
Look how far we’ve come. We are at a crossroads. We’ll just have to go our separate ways. We cannot turn back now. We are stuck. This relationship is a dead-end street. I don’t think this relationship is going anywhere. It’s been a long, bumpy road. We have gotten off the track271.
La metafora concettuale LOVE IS A JOURNEY si costituisce di una serie di frasi idiomatiche ad essa correlate. Così, nell’esempio di Lakoff e Johnson, è accompagnata da espressioni comuni che richiamano il concetto di relazione amorosa e quello di percorso, viaggio, ed annessi. Da una parte dunque si crea un’estensione semantica dei due termini messi in correlazione, rispettivamente “love” e “journey”, dall’altra tale metafora modifica la percezione dei parlanti rispetto al concetto di amore e di relazione. Il set di espressioni che possono o potrebbero essere messe in connessione con tale immagine metaforica è potenzialmente senza fine:
[…] Metaphorical images may be used creatively. The sets of expressions that illustrate metaphorical patterns are open-ended; they do not only comprise conventionalized expressions, but they may attract new ones. […] The metaphorical image is a live one that may be exploited for construing new expressions. An expression like to walk on cloud nine “to be very happy” may be expanded in non-conventional ways: you may be walking on cloud nine now, but don’t forget there’s a world with other people underneath. Such extensions show that the image contained in to walk on cloud nine is a live one. The creative use of metaphors also shows up in the entailments that metaphorical patterns allow272.
L’immagine metaforica è nella maggior parte dei casi, eccetto quando si parla di “metafore morte”, un’immagine viva, che può dunque essere sfruttata per costruire nuove espressioni che continueranno ad illustrare i patterns di cui la metafora stessa è corredata. È curioso notare che l’esempio offerto da Geeraerts in questo frangente, tratto ancora una volta dalla lingua inglese, sia paragonabile ad un’espressione idiomatica italiana che ha analogo significato, ma diversa forma; “to walk on cloud nine”, o la sua variante “to move to cloud nine”, significa “essere molti felici” ed equivale infatti alla frase idiomatica italiana “essere al settimo cielo”.
271Dirk Geeraerts, Theories of Lexical Semantics, Oxford, Oxford University Press, 2010, p. 184.
L’esempio riportato da Casadio ripropone l’argomentazione appena affrontata, fornendoci un altro utile esempio. La metafora concettuale CONOSCERE È VEDERE ha un’origine fisiologica: “vedere”, il cui oggetto è cognitivo, ovvero “il conoscere”. Essa, a sua volta, raccoglie una corposa serie di frasi idiomatiche, proprio come è avvenuto nell’esempio precedente. In tal caso si tratta di espressioni come: “rendere visibile” – nel senso di “far conoscere” – “vedere bene” – nel senso di “capire bene, come nel contesto “vedi bene che non sarei potuta andare da Camilla ieri sera”, variante colloquiale del più formale “capisci bene che…” – “puoi vedere” – simile all’espressione precedente, con il significato di “puoi comprendere” o anche espressioni definite da Casadio-Casadei creative come per esempio “con gli occhi della mente”, “nei tuoi occhi vedo molta confusione” o ancora “possedere una seconda vista”273. Va sottolineato che la correlazione fra i domini concettuali non è mai arbitraria, ma è sempre motivata da contenuti dell’esperienza extralinguistica, fisica e percettiva. In questo caso specifico, Casadei spiega chiaramente il perché della costruzione dell’abbinamento fra “conoscere” e “vedere”:
L’associazione tra conoscere e vedere (anziché, poniamo, tra conoscere e correre) è motivata dal fatto che la vista è per gli esseri umani la fonte primaria di dati sul mondo esterno, ciò che rende il dominio del vedere cognitivamente più “predisposto” a essere il punto di partenza per la concettualizzazione metaforica del dominio del conoscere274.