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In questo scritto Whorf affronta la questione del rapporto fra linguaggio e pensiero. Rispetto al maestro Sapir, il suo allievo tratta il problema in maniera più esplicita ed apertamente critica nei confronti di quella che definisce come “logica naturale”, ossia il senso comune:

La logica naturale afferma che il parlare è semplicemente un processo accidentale che riguarda soltanto la comunicazione e non la formulazione di idee. Si suppone che il parlare o l’impiego del linguaggio “esprima” soltanto ciò che è già essenzialmente formulato in modo non linguistico. La formulazione è un processo indipendente, chiamato pensiero o pensare, ritenuto per lo più indipendente dalla natura delle lingue particolari. […] Il pensiero, secondo questa prospettiva, non dipende dalla grammatica, ma dalle leggi della logica o della ragione che si suppone siano le stesse per tutti gli osservatori dell’universo, per rappresentare la razionalità nell’universo, che può essere “trovata” indipendentemente da tutti gli osservatori intelligenti, che parlino cinese o choctaw. […] La logica naturale ritiene che le diverse lingue siano essenzialmente metodi diversi per esprimere un’unica e medesima razionalità del

194 Ivi, pp. 53-54.

195 Ivi, p. 59.

196Benjamin Lee Whorf, Science and Linguitics, «Technology Review», vol. 42, 1940, pp. 229-231 e 247-248, ristampato in Edward Sapir, Benjamin Lee Whorf, Linguaggio e relatività, Marco Carassai, Enrico Crucianelli (a cura di), Roma, Castelvecchi, 1° edizione, 2017, pp. 60-75.

pensiero, e che in realtà essi differiscano in modo rilevante ma non eccessivo solo quando vengono analizzati troppo da vicino197.

Dunque in questo senso ciò che la “logica naturale” ritiene è che il processo di pensiero sia svincolato ed indipendente rispetto alla grammatica della singola lingua e che sia tuttavia dipendente dalle leggi della logica o dalle leggi della ragione, che sono le stesse indipendentemente dalla lingua parlata. Conseguenza di questo ragionamento è che la logica naturale ritenga che le diverse lingue rappresentino unicamente modi diversi per esprimere un unico pensiero.

Tutta questa premessa è funzionale all’articolazione della tesi proposta dal linguista, il quale si contrappone apertamente a tutto quello che ha appena attribuito alla logica naturale. Nel fare ciò, egli si rifà a due celeberrimi esempi, ognuno dei quali è accompagnato da alcune illustrazioni.

Il primo riguarda la dimostrazione del fatto che le lingue sezionino la natura in modo diverso; l’esempio riporta un confronto fra l’italiano e lo shwanee nella descrizione della medesima esperienza, ossia pulire un fucile con una bacchetta.

Come si può vedere dall’immagine, in italiano i tre elementi isolati dall’esperienza sono rispettivamente: “pulire”, “con” e “bacchetta”; tutto ciò contribuisce alla formulazione della frase italiana “io lo (per fucile) pulisco con la bacchetta”. In shawnee, invece, si isolano altri tre elementi: “pēkw”, “ālak” e “H” per comporre la frase “nipēkwālakha” che significa “io lo (per fucile) pulisco con la bacchetta”. Whorf con questo esempio dimostra come gli Italiani e gli

197 Edward Sapir, Benjamin Lee Whorf, Linguaggio e relatività, Marco Carassai, Enrico Crucianelli (a cura di), Roma, Castelvecchi, 1° edizione, 2017, pp. 60-61.

Shawnee selezionino tre diversi elementi di significato (pensieri) per descrivere una medesima esperienza.

Il secondo esempio riguarda il fatto che le diverse lingue classifichino gli elementi dell’esperienza in modo diverso e che la classe corrispondente a una parola e a un pensiero nella lingua A, può essere considerata dalla lingua B come due o più classi corrispondenti, a loro volta, a due o più parole e pensieri. Per esempio, in hopi esiste un’unica parola per riferirsi a ciò che in italiano esprimiamo attraverso tre distinte parole, ovverosia rispettivamente, “insetto”, “aeroplano” e “pilota”, mentre in hopi esiste l’unica parola “masa’ytaka”; così come, invece, in eschimese esistono tre parole per riferirsi a tre diversi tipi di neve, mentre in italiano esiste un’unica parola, “neve” appunto; infine, mentre in italiano abbiamo un’unica parola per riferirci a ciò che chiamiamo “acqua”, in hopi esistono due parole, rispettivamente, “pāhe” per riferirsi all’acqua del mare, del fiume, del lago, della fontana, cioè a sorgenti d’acqua naturali, e “kēyi” per riferirsi ai tipi di acqua di origine non naturale, come per esempio l’acqua nelle soluzioni chimiche o l’acqua in un bicchiere o in un catino, ovvero quantità d’acqua limitate.

Nella seconda parte dell’articolo, dopo aver spiegato gli esempi sopracitati, Whorf passa all’argomentazione teorica, confutando ciò che ha attribuito alla “logica naturale”:

Quando i linguisti sono divenuti in grado di esaminare criticamente e scientificamente un gran numero di lingue con configurazioni molto diverse, la loro base di riferimento si è estesa; hanno sperimentato una sospensione di fenomeni ritenuti universali e un intero nuovo ordine di significati ha fatto ingresso nella loro comprensione. Si è scoperto che il sistema linguistico di sfondo (in altre parole, la

grammatica) di ogni lingua non è un mero strumento di riproduzione per esprimere idee, ma è piuttosto esso stesso ciò che dà forma alle idee. Esso è il programma e la guida dell’attività intellettuale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni e della sintesi dei suoi strumenti di lavoro mentali. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso del termine, ma appartiene a una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, nelle differenti grammatiche. Analizziamo la natura secondo le linee tracciate

dalle nostre lingue native198.

Il fatto che Whorf affermi che la formulazione delle idee non sia un processo indipendente, ma, anzi, che le diverse lingue, attraverso il loro sistema grammaticale, diano forma alle idee stesse, ricorda molto da vicino ciò che il maestro Sapir aveva già formulato nell’articolo del 1924 (quindi ben sedici anni prima rispetto al presente scritto di Whorf), intitolato Il grammatico e la sua lingua, in cui Sapir si riferisce alla relatività della forma di pensiero risultante proprio dallo studio e dalla comparazione delle diverse lingue. Pochi passaggi dopo Whorf formula quella che da molti sarà considerata come parte sostanziale della “versione forte” della teoria della relatività linguistica; leggiamo infatti:

Siamo condotti così a un nuovo principio di relatività, il quale sostiene che differenti osservatori non sono condotti dalle stesse evidenze fisiche alla medesima immagine dell’universo, a meno che i loro sfondi linguistici non siano simili o non possano essere in qualche modo tarati199.

Questa formulazione così “radicale” non è in effetti similare a quella proposta dallo stesso Sapir in La posizione della linguistica come scienza? Torneremo sull’argomento.

Whorf porta un altro esempio al fine di avvalorare la propria tesi, tratto dalla lingua italiana. In italiano, osserva il linguista, la maggior parte delle parole è suddivisa in due classi dalle caratteristiche logiche e grammaticali distinte: la prima classe è quella dei nomi, che include parole come “casa”, “cane”, “bambino” etc. e la seconda classe è quella dei verbi, che include parole come “correre”, “mangiare”, “saltare” etc. Raramente può capitare che ci sia una coincidenza fra nome e verbo, per esempio nel caso di “mangiare”, verbo che viene nominalizzato e, per conversione, diventa il nome “il mangiare”. La lingua italiana in questo modo crea una divisione bipolare della natura, nonostante essa non sia nella realtà polarizzata. Nell’argomentare questa idea, Whorf tocca un tema ampiamente discusso fra gli studiosi di lingua italiana. Infatti, in italiano, da un punto di vista funzionale, si usa definire la classe dei verbi come quelle parole che illustrano un’azione o un evento. Questa definizione può funzionare con molti verbi come per esempio “correre”, “saltare”, “zappare” etc., ma cosa dovremmo pensare allora di parole come “pugno”, “corsa”, “salto” etc. che, nonostante anch’esse denotino un’azione o un evento, sono in effetti classificate come dei nomi? Così come vale il discorso contrario, ovverosia, se è indiscutibile che parole come per esempio “casa”,

198 Ivi, p. 67 (grassetto mio).

“cane”, “uomo” etc. siano effettivamente dei nomi perché indicano eventi durevoli e stabili, perché questo allora non vale anche per parole come “crescere”, “biancheggiare”, “abitare” etc. che sono invece considerati come dei verbi?

Dunque, in base a questi e ad altri interrogativi, Whorf dimostra come la suddivisione fra nomi e verbi sia una suddivisione esclusivamente “formale”, dovuta cioè alla grammatica italiana, che non ha alcun fondamento “naturale”.

Whorf dapprima fa riferimento ad un’altra lingua, l’hopi, nella quale parole come “lampo”, “onda”, “pulsazione” etc. sono considerate non nomi (come accadrebbe in lingua italiana), bensì verbi, perché sono eventi di durata breve. Gli Hopi, infatti, classificano gli eventi in base alla durata.

In nootka, invece, tutte le parole sembrano essere verbi, ma in realtà non c’è una netta distinzione fra la classe dei nomi e la classe dei verbi. Dunque, in questo caso la visione della natura risulta essere monistica. Così per esempio Whorf sottolinea come in nootka, non essendoci questa distinzione, frasi come “una casa accade” o “essa caseggia” (che in italiano analizzeremmo come l’insieme di nome + verbo, rispettivamente, “casa” e “accadere” o “essa”, che in realtà è propriamente un pronome personale soggetto, e “caseggiare”, verbo inesistente in italiano) equivale a “casa”, così come per “una fiamma accade” (che in italiano si analizzerebbe in nome + verbo, ovverosia, “fiamma”+ “accadere”) equivale a “brucia” (solo un verbo in italiano, con il soggetto della frase sottinteso). Queste parole ci sembrano dei verbi perché in effetti sono flessi secondo sfumature di durata e di tempo, nonostante in nootka non esista nei fatti questo tipo di distinzione.