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Nel territorio brasiliano spicca la presenza di diverse imprese multinazionali che non sono soltanto straniere, ma che sono anche autoctone ovvero frutto dell’elemento identitario del Paese e delle conoscenze accumulate anche grazie all’apertura agli investimenti. La varietà di grandi imprese nazionali ed estere ha permesso di entrare in contatto con diverse culture e modi di organizzazione e gestione della produzione e, inoltre, ha permesso uno sviluppo in parte dipendente dagli investimenti esteri ed in parte proprio. Quest’ultimo è considerato piuttosto soddisfacente, visto i buoni risultati ottenuti da alcune grandi aziende che sono famose in tutto il mondo, come si discuterà nel prossimo paragrafo. Per dare al lettore un’idea completa riguardo il numero delle principali società non finanziarie nazionali ed estere presenti nel territorio, si riportano alcune cifre ricavate da Goldstein e Trebeschi (2012, pg. 76) nella tabella sulla composizione dell’universo delle 100 principali società non finanziarie. Nel 2010 il numero delle imprese nazionali sia pubbliche che private era pari a 50, la cui percentuale di fatturato corrispondeva al 56,85% del totale. Dal lato delle imprese straniere invece, esse erano 45 e contribuivano al 39,30% del fatturato. Gli Stati Uniti seguiti da Germania e Francia capeggiavano con la loro presenza in Brasile. Si nota inoltre che le imprese nazionali, nell’arco di anni che va dal 1995 al 2010, sono diminuite nel numero (da 57 a 50) a scapito delle imprese straniere, ma hanno aumentato il loro fatturato di circa due punti percentuali.

67 3.2.1 Le multinazionali “Made in Brazil”

Sono brasiliani i manager risultati più efficienti al mondo in base ad una ricerca condotta dalla rivista inglese Human Resources la quale ha utilizzato come campioni 22.000 lavoratori di 18 paesi diversi (si vedano Calabrò e Calabrò 2011, pg. 93). Valutando la presenza di capitali esteri e di imprese di diversa nazionalità e tenendo in considerazione che si studiano i modelli esteri da cui si può trarre ispirazione, si può affermare che: da una parte il Brasile dipende da modelli di grandi imprese statunitensi o europee, ma dall’altra si trova sulla giusta strada della transizione che lo porterà ad essere tra i protagonisti della scena mondiale e a superare totalmente la fase di dipendenza. Tutto ciò è dimostrato innanzitutto dal superamento degli ostacoli posti dal susseguirsi di governi e dall’economia instabile. In secondo luogo, un’altra prova è ottenuta dalla voglia da parte degli imprenditori brasiliani di investire in settori, tra i quali quello dell’alimentazione, della siderurgia e delle bevande, che richiedono meno innovazione tecnologica e che non sono presi in considerazione dagli imprenditori stranieri perché visti come “passati”, ma che rappresentano comunque una fonte di guadagno. I consumatori europei e statunitensi oggi sono spesso a contatto con prodotti la cui nazionalità è brasiliana, senza però esserne al corrente.

Ci sono multinazionali esportatrici di nazionalità verdeoro che sono state in grado di organizzare la produzione e di innovare il modello di gestione e, di conseguenza, di spiccare nei mercati. L’abilità brasiliana c’è e si vede. Per individuarla, basta nominare il gigante della cosmesi e dell’igiene personale Natura, il cui fondatore è il brasiliano Luiz Seabra che grazie alla rielaborazione dei concetti di base di sviluppo e sopravvivenza in chiave umana e relazionale riesce ad ottenere un fatturato annuo di 6 miliardi di reais (pari circa a 2.547.552.000 di US$) esportando i propri prodotti nel continente sudamericano, ma anche oltreoceano. Si ricorda inoltre Ambev, colosso mondiale della birra controllato da tre investitori brasiliani la cui filosofia aziendale racchiude meritocrazia, competitività, riduzione di costi e continue ricerche di sinergie. Hanno fatto strada con tale pensiero: la quota di mercato negli Stati Uniti è del 48%, cioè una lattina di birra su due e le filiali internazionali, gestite da imprenditori brasiliani formati dagli stessi proprietari, fanno sì che una birra su cinque al mondo sia Ambev. Alla lista delle multinazionali si possono aggiungere anche

Gerdau e Vale, entrambe impegnate nel settore della siderurgia, che hanno sfruttato la

stabilità dell’economia per investire in mercati in crescita; così come ha fatto Odebrecht grande impresa specializzata in opere pubbliche e sottomarini. Infine meritano un accenno anche Embraer, public company quotata in borsa che costruisce aerei e che si è avventurata

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nel mercato dei jet regionali evitato dai concorrenti e Alpargatas, impegnata nel settore tessile e produttrice delle conosciute Havaianas, esportate in tutto il mondo. I propri punti di forza sono il cambiamento e l’originalità che nel campo della moda non guastano, ai quali si uniscono il tentativo di “pensare come il consumatore” per soddisfarne le preferenze senza puntare solo al costo, in modo da sfidare con altre armi la concorrenza cinese (Calabrò e Calabrò, 2011; Goldstein e Trebeschi, 2012).

Va ricordato anche che le multinazionali brasiliane hanno recentemente voluto investire all’estero, puntando a loro volta in economie emergenti e nei settori manifatturiero e dei servizi. Il fenomeno era già iniziato negli anni ’70 grazie alla capacità di adattamento delle imprese brasiliane a contesti “in evoluzione”, poiché simili a quelli che il Paese ha sempre vissuto. Ha raggiunto l’apice con il nuovo secolo e, in particolare, nel 2006 quando il Brasile ha investito di più di quello che ha ricevuto dall’estero. In questo modo alcune imprese brasiliane sono diventate veramente globali: si ricordano, ad esempio, Petrobras ed Embraer con il potere della loro tecnologia; Vale, Jbs Friboi e Cutrale con le loro capacità di rendere solidi all’estero settori come quelli metallurgico e primario (allevamento-agricoltura). Ancora una volta le innovazioni strategiche ed organizzative sono risultate fondamentali per competere ed essere presenti in nuove economie (Goldstein e Trebeschi, 2012).

Queste sono le caratteristiche positive ed il valore aggiunto che le multinazionali “Made in

Brazil” riescono ad apportare all’industria e all’economia brasiliana, purtroppo però

costituiscono solo una piccola parte dell’intero settore. 3.2.2 Le multinazionali straniere in Brasile

Già a partire dalla fine del ‘900, i paesi esteri hanno puntato al mercato brasiliano ed hanno iniziato ad investire il loro capitale specialmente nei settori dei servizi e dell’industria manifatturiera. I flussi d’investimento sono andati aumentando a partire dal 2000 del 3% annuo con una sola eccezione registrata nel 2009 a causa della crisi, ma l’immediata ripresa dell’anno successivo ha subito cambiato l’andamento. Nel 2008 infatti gli investimenti erano pari a 45 miliardi, nel 2009 sono scesi a 26 per poi aumentare nel 2010 ad oltre 48. Negli ultimi anni si sono aggiunti ai settori più attrattivi anche quelli minerari ed energetici, complice la scoperta dei nuovi giacimenti di petrolio al largo delle coste del Sud-Est unita alla tendenza mondiale di investire in tali settori. Dal 1995 al 2005 il numero delle multinazionali estere in Brasile è quasi triplicato, mentre per le filiali è raddoppiato. In termini di percentuale del Pil invece, il contributo delle multinazionali è raddoppiato ed inoltre è cresciuto il saldo della parte corrente della bilancia dei pagamenti (si rimanda al Box 2). Gli stati che più

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impegnano capitale sono gli Stati Uniti, seguiti da Paesi Bassi, Germania e Spagna il cui intervento è aumentato molto negli ultimi quindici anni. La Cina ha iniziato a vedere il Brasile come “terra delle possibilità” a partire dal 2007, quando ha investito circa 150 milioni di dollari. Successivamente, nel 2010, il suo intervento è stato massiccio con investimenti pari a 5 miliardi che nel 2011 sono raddoppiati. Poco a poco gli Stati Uniti hanno perso e stanno perdendo terreno in favore del nuovo gigante dell’Est in forte espansione. In riferimento all’Italia invece si accenna solo, per poi approfondire la tematica nei prossimi paragrafi, che la sua importanza è data dalla presenza di tre grandi aziende come Fiat, Pirelli e Telecom che le hanno permesso di rientrare tra i primi dieci paesi che investono in Brasile (Goldstein e Trebeschi, 2012). Attive sono le multinazionali straniere in particolar modo nel settore automobilistico le cui le nazionalità sono davvero numerose: oltre alla Fiat italiana, è presente la Germania con Bmw e Volkswagen, il Giappone con Toyota, la Korea con Hyundai e la Cina con Chery. Energia, chimica e beni di consumo (che hanno avuto un boom grazie allo sviluppo e continua evoluzione della classe media brasiliana) sono poi altri campi in cui l’impronta straniera non manca e, tra le aziende più famose, si menzionano Bayer, Siemens, Total, Unilever, Whirpool e Microsoft (Calabrò e Calabrò, 2011).

Le preoccupazioni per una “denazionalizzazione” del Paese dovuta alla presenza di troppe aziende estere o comunque causate dalle possibili acquisizioni di società nazionali che seguono gli investimenti sono molte. A queste si aggiungono poi le incertezze sulle esternalità positive che le multinazionali possono generare: nonostante operino solitamente in settori tecnologicamente avanzati e possano generare conoscenza con la circolazione di lavoratori qualificati e con l’internazionalizzazione della ricerca e sviluppo, non sono ben chiari i contributi che possono apportare al Paese. Serve infatti, da parte dello stesso, la predisposizione ad assimilare le capacità ed il know-how che si diffondono nel territorio, abbinata poi a politiche coerenti e sicure di attrazione dei capitali di modo che possano apportare ricchezze, senza che queste poi dominino l’economia interna così da non ostacolare lo sviluppo nazionale. Alcuni risultati positivi ci sono stati come, per esempio, lo dimostra il caso della Fiat. L’azienda ha prodotto esternalità positive con l’inclusione dei fornitori locali nella propria rete, tuttavia la maggior parte dei risultati sono ancora poco convincenti. Non aiutano sicuramente gli scarsi fondi messi a disposizione dal governo brasiliano per l’innovazione i quali non permettono un’evoluzione autonoma del Paese nella ricerca e una migliore organizzazione dei capitali esteri (Goldstein e Trebeschi, 2012).

Per le motivazioni appena descritte, il focus della ricerca vuole essere sulle piccole e medie imprese e sui distretti industriali che, con uno sviluppo regionale ed una pianificazione di

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politiche mirate e personalizzate verso un’area geografica limitata e specifica, possono rendere in misura maggiore ed apportare benefici che le multinazionali estere non riescono a generare.