Se esiste un’evoluzione dell’arte del suono, allora la sua pietra angolare, il suo culmine, sarebbe molto probabilmente da situarsi nel bel mezzo del XX secolo
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zate e dunque invisibili («inaudite») nel sistema integrato e transustanziale della contemporaneità. La musica concreta è l’unica forma d’arte sonora che ha fatto coincidere questo «dispositivo» con la propria essenza. Essa ha sviluppato esteti-che, condotte uditive e forme d’indagine sul suono assolutamente inedite e co-erenti con tale «dispositivo».
La musica concreta può essere definita come «l’arte dei suoni impressi» (preci-sazione che lo stesso Michel Chion fece della sua precedente definizione: «l’ar-te dei suoni fissati»), cioè una forma d’ar«l’ar-te sonora che opera concretamen«l’ar-te con il suono (così come uno scultore fa con il marmo) grazie alle tecnologie di memorizzazione e riproduzione del suono. Esattamente in questo senso Pier-re Schaeffer utilizzò il termine «concPier-reto»; cioè per diffePier-renziaPier-re questa pratica compositiva da quella «astratta» della musica tradizionale, che operava nei due tempi dell’ideazione e scrittura della partitura (dove ancora non si mostrava, difatti, nessun suono – perciò «astratta») e poi dell’esecuzione (il momento in cui appariva «concretamente» il suono). Essa è un’arte di «supporto» simile alla fotografia e ancor più al cinema, ma possiede la tridimensionalità e l’immersi-vità dell’architettura e della natura – contempla contemporaneamente, simul-taneamente l’immersione e la direzione. Si tratta di un’arte «acusmatica», cioè di una forma d’arte sonora dove non c’è nulla da vedere, non ci sono musici-sti che eseguono partiture o che suonano strumenti; essa è totalmente conce-pita in studio e diffusa tecnologicamente. La musica concreta, fin dall’origine, ha messo a nostra disposizione strumenti teorici e di riflessione sul suono, co-me «l’ascolto ridotto» o «l’oggetto sonoro», che si sono rivelati particolarco-men- particolarmen-te efficaci nel modellare e sviluppare una diversa capacità di ascolto o quali-tà direzionale da offrire alla nostra attenzione uditiva. Ad esempio, «l’ascolto ridotto» (che deriva dalla «riduzione fenomenologica» o epoché filosofica) si presenta come una «messa in parentesi» del suono, di una forma innaturale di ascolto, che necessita dunque di un lungo allenamento, di un esercizio qua-si interiore di attenzione, che consenta il superamento o il decondizionamen-to delle nostre abitudini uditive. Si tratta di una sorta di ridecondizionamen-torno alle origini, di una forma prelinguistica della percezione atta a cogliere il suono in quanto avvenimento sonoro in sé, cortocircuitando l’abitudine a considerare ciò a cui il suono rimanda («l’ascolto banale»), la sua dimensione vicaria. Molte forme attuali d’arte sonora digitale «ricombinante» o definite anche di «postproduc-tion» non si discostano affatto da questo scenario aperto dall’esperienza della musica concreta. Viceversa, alquanto distanti appaiono tutte quelle forme di arte sonora interattiva che in realtà, nonostante la loro spettacolarità o subli-mazione tecnologica, per molti aspetti sembrano appartenere a forme di rap-presentazione e di sviluppo nel tempo reale più affini alla tradizione presen-tandosi, in un certo senso, come dei simulacri del concerto classico (il rituale sonoro condiviso da una comunità ben caratterizzata) o come ritorno alla na-tura (l’ineffabilità del suono).
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Questo è il punto di massimo interesse per noi: un’inedita esperienza estetica,come quella messa in atto dalla musica concreta, diviene esperienza conoscitiva, esercizio spirituale, filosofia dei sensi, pratica trascendentale. La musica qui non è più per noi semplice attività ludica o ridotta a banale passatempo, ma un’azio-ne destinata a sviluppare una forza trasformativa tale da ripiegarsi sull’esistenza in maniera decisiva. Essa diviene scandalosamente destabilizzante nei confronti di tutte quelle pratiche consolatorie e rassicuranti che quotidianamente attivia-mo per proteggerci dall’incertezza, dalla precarietà e dalla fragilità dell’esisten-za. In questo modo la musica non può e non deve più essere intesa come un fi-ne, ma come un mezzo che consente di «nutrire la vita», che permette di entra-re «in fase» con essa.
Si potrebbe sostenere che questa complessa e inedita esperienza uditiva messa in opera dalla musica concreta e dal suo ampio estuario sonoro di sperimentazio-ni estetiche contemporanee, ci insegna che la qualità, la specificità, la peculiarità della musica, la sua «vocazione» è tutta riposta nel suo destrutturante appellar-si all’orecchio. Conappellar-siderando la radice «senappellar-sibile» del penappellar-siero appellar-si comprende che sviluppare, orientare, sollecitare questo importantissimo «senso», significa am-pliare e dilatare la capacità dell’uomo di pensare e di pensarsi nel mondo. Svi-luppare l’ascolto significa mettere in discussione, decostruire la nostra stessa pro-spettiva d’ascolto, ampliare il nostro orizzonte spazio-temporale. Non dimenti-chiamo che ascoltare significa interiorizzare – l’orecchio segue e subisce il tempo del suono, e per ascoltare è necessario fare silenzio – dunque, il suono e il silen-zio sono solidali. L’orecchio si configura come il «senso» dell’ospitalità e dell’ac-coglienza, strumento dell’apertura e della «trascendenza».
Ecco un punto di importanza assoluta, di radicale vertigine, quello che potrem-mo definire di iniziazione alla dimensione più autenticamente umana. Ancor più che pensare l’uomo tra le cose del mondo, egli è da pensare in relazione all’altro – noi siamo relazione intersoggettiva. La musica, dunque, è un’arte che ci con-sente di ascoltare l’altro non tanto per le parole che pronuncia, ma per il silenzio che sostiene quelle parole, per i respiri che ne cadenzano il ritmo, o per la filigra-na stessa di quelle parole. Senza questa qualità accogliente dell’ascolto saremmo destinati a parlare e a parlare senza sosta, a errare e a delirare in un eterno solilo-quio, senza mai poter conoscere il potere generativo del silenzio. Un silenzio che come ha mostrato John Cage è pur sempre suono, anche se solo sussurrato, bi-sbigliato. Il silenzio, che è pratica costitutiva dell’ascolto, consente di aprire so-glie ai limiti del nostro orizzonte e di accedere all’altro, a una più profonda idea di libertà. La libertà intesa non come limite morale ed etico, ma come oppor-tunità di «trascendenza» – l’altro ci «trascende», esso è infinitamente altro, irri-ducibile a noi stessi. Con l’altro possiamo e dobbiamo, abbiamo l’obbligo e la responsabilità di condividere nuove parole, nuovi pensieri, altri racconti – non quelli già qui, già dati, in qualche modo già imposti (integrazione e annessione sono i corrispettivi dell’esclusione e dell’espulsione), ma da creare, da inventare
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La tensione verso la
«trascendentalità»
dell’altro, la spinta verso l’esterno del nostro essere, ha a che fare con quella forma di stupore intessuto di silenzio e di ascolto che chiamiamo
«desiderio»
assieme. Condividere il già dato significa riconoscere l’altro solo per quello che ci accomuna, significa celarlo e ridurlo a ciò che già ci appartiene; mentre la condi-visione è da generarsi, è ancora tutta da farsi, è da crearsi unicamente attraverso l’incontro con l’altro. Tutto ciò, la tensione verso la «trascendentalità» dell’altro, la spinta verso l’esterno del nostro essere, ha a che fare con quella forma di stu-pore intessuto di silenzio e di ascolto che chiamiamo «desiderio».
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di Girolamo De Simone Una premessa a qualsiasi inizio: ho sempre ‘rubato’ conoscenza. Dai libri, dai
film, dai (pochi) scorci di bellezza intravisti ai margini della velocità cui la vita ci costringe.
Ho rubato soprattutto ai Maestri; ai più anziani tra loro. Ho conosciuto Cage, Carter, Rieti, Grossi, Chiari, Castaldi, e tanti altri. Ciascuno mi ha detto mol-to o il «nulla» (ricordo la stretta di mano di John Cage e il brillio dei suoi occhi:
strette fessure e due stelle d’acuta curiosità; aveva appena suonato silenzi e mi-crofoni per Merce Cunningham). Da ciascuno ho imparato qualcosa, lavorando a estetiche replicanti, alla produzione di metafonie, a vere e proprie operine, co-me Sogni, esorcismi e Distrazione da canzoni napoletane oppure a lavori più strut-turati, come Shama e ScarlAct, fino a trarne il mio Giardino ipotetico, campo di proiezioni e memorie.
AUTORITÀ
Tuttavia, nonostante la presenza e l’uso di frammenti, combinazioni acusmati-che o semplicemente acustiacusmati-che, non ritengo acusmati-che la conoscenza debba essere fat-ta a pezzettini, e vendufat-ta un fat-tanto al pezzo. Così si rischierebbe una svendifat-ta da saldo, da prezzo all’ingrosso, le classiche ‘offerte’ dei megastore. Credo inve-ce che chi voglia autenticamente ‘dire’, debba mutuare dalla prospettiva magi-strale un linguaggio semplice, senza mai sottostimare alcunché della complessità dell’offerta musicale ed elettronica. Questo è un punto davvero cruciale, perché se l’autorità si (auto)dichiara, è già a un passo dall’autoritarismo; e se la si dichia-ra (solo) per la musica occidentale, in fondo non si è capito nulla del pludichia-ralismo.
QUANTITÀ E QUALITÀ
Quando subentra il plurale, viene subito fuori la necessità di distinguere la qua-lità. La speculazione sulla quantità e qualità è complessa, almeno quanto quella sul significato della musica – senso come direzione – e quindi sulla funzionali-tà del suo rinvio ad altro (ne ho trattato ampiamente altrove). È possibile, però, riferirsi a un tracciato, che parte dalle quantità estensive e arriva a quelle inten-sive. Un percorso che presuppone almeno ‘una’ qualità: la continuità data dal semplice incremento uniforme delle quantità. È evidentemente una traccia