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Sulla (de)costruzione compositiva delle tecnologie musicali

Nel documento Musica e tecnologia nella scuola italiana (pagine 179-185)

Nel 1984 mi accadde di mettere da parte la chitarra elettrica che avevo suonato per alcuni anni, e di concentrarmi a tempo pieno su un personal computer

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Si fa arte innanzitutto elaborando i mezzi del fare arte, cioè si agisce creativamente solo inventando tecniche nuove o inusitate, distorcendo e mettendo in crisi i mezzi esistenti

1. Feenberg 1991 e Feenberg 2002.

2. Di Scipio 2000 e Di Scipio 1997.

3. Su questo punto teorico generale, mi permetto di rinviare a Di Scipio 1998.

definiva effettivamente come un calcolatore. Dovevo piuttosto appropriarmi del suo codice e inventarmi programmatore, anche se di livello semi-professionale o solo amatoriale, sempre incline a soluzioni ad hoc che poco avevano di una più seria ingegneria informatica. Insomma, con termine odierno, diventavo un hacker che forza il funzionamento della macchina verso un quadro d’uso del tutto parti-colare e inatteso. Dovevo «cambiare mestiere», ma per reinventare il mio mestiere.

Più tardi imparai che tale situazione rispecchiava a livello personale una dinami-ca piuttosto frequente rispetto al ruolo della tecnologia nel più ampio contesto sociale: un processo di appropriazione e ri-connotazione (o ri-semantizzazione) della tecnica, un caso di ermeneutica della tecnologia1, laddove alcune forze so-ciali assumono un qualche controllo sulle tecnologie per orientarne il funziona-mento e gli scopi verso un orizzonte cognitivo del tutto diverso da quello inscrit-to inizialmente nel disegno tecnologico. È ovvio: se da una parte nessun mezzo è neutrale rispetto ai fini, dall’altra nessuno sviluppo tecnologico è una neces-sità deterministica esterna alle dinamiche sociali, e dipende invece da un gioco di fattori (anche e spesso soprattutto extra-tecnici) che lo interpretano e lo con-notano. La storia della musica, e in particolare quella della musica elettronica, è ricca di esempi che riflettono una dinamica del genere2.

In effetti, un modo di leggere la storia dell’arte di tutti i tempi e di tutti luoghi permette di dire: si fa arte innanzitutto elaborando i mezzi del fare arte, cioè si agisce creativamente solo inventando tecniche nuove o inusitate, distorcendo e mettendo in crisi (perché c’è crisi in ogni creazione) i mezzi esistenti3. I capola-vori della composizione elettronica e informatica sono stati realizzati prima che i mezzi della loro realizzazione fossero ingegneristicamente maturi. In generale, nessuna opera d’arte è un fine oggettivo in sé, essendo invece sempre traccia di un modo di operare che almeno in parte è stato escogitato apposta per realizzar-la (e che poi, talvolta, diventa esemprealizzar-lare e condiviso).

Ma torniamo al 1984. Il personal computer era allora un calcolatore di tipo piut-tosto recente e nuovo. Per alcuni, rappresentava uno sviluppo tecnologico conno-tato da idealità valide oltre il momento individuale: circolazione diffusa e demo-cratica del know how informatico, proliferazione e condivisione della conoscenza fuori dai laboratori universitari dotati di potenti computer mainframe, cioè fuo-ri dai «centfuo-ri di calcolo» (eponimi, nell’era dell’informatizzazione planetafuo-ria, dei

«centri di potere»). Le possibilità dell’home computing erano tattiche, cioè valeva-no per chi le praticava su scala individuale; ma eravaleva-no anche strategiche, nel

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4. All’epoca non era strano acquistare un kit di costruzione del proprio computer. Questa atten-zione per l’hardware è oggi di nuovo in auge, soprattutto per la disponibilità di micro-controllori programmabili (per esempio, il sistema Arduino). In alcuni ambienti si pratica il circuit-bending, o altri approcci basati sul riciclo creativo di apparecchiature elettroniche commerciali, con cui vengono costruiti strumenti musicali nuovi e particolari, magari effimeri. Cfr. Collins 2006.

5. Tra questi anche l’allora mio docente di Musica Elettronica al Conservatorio di L’Aquila, Mi-chelangelo Lupone. Sulla storia dei mezzi di computazione, cfr. Ceruzzi, 1998. Si osservi che le connotazioni «progressiste» del personal computer, da fine anni Settanta a metà anni Ottanta, non sono poi molto diverse dal potenziale democratizzante attribuito in questi ultimi dieci anni a Internet. Oggi come allora, tuttavia, le questioni non sono affatto aproblematiche.

6. Flichy 1996.

dro sociale più ampio. In questa direzione lavoravano già allora vari musicisti e ricercatori, alcuni dei quali capaci perfino di costruirsi l’hardware necessario5. Per me, intanto, dopo il Lemon II vennero i processori IBM 8088 e successivi, con sistema operativo DOS (schermo nero e prompt in attesa di comandi da ta-stiera). Poi i computer dotati di sistema operativo multitasking e interfaccia gra-fica (che in verità ho rifiutato di adoperare per vari anni, trovandoli assai meno friendly di quanto volevano far credere le multinazionali da cui erano prodotti: il tentativo di risultare simpatici a tutti i costi è spesso molto antipatico). Mentre programmavo l’assembler di queste macchine, imparavo anche che la computer music – cioè l’informatica musicale (disciplina di ricerca applicata alla musica) e la musica informatica (la composizione ed esecuzione musicale che si avvale di computer e altri mezzi digitali) – esisteva da almeno venticinque anni. Per capi-re meglio, dal 1987 al 1992 fcapi-requentai il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, dove realizzai alcuni lavori mediante linguaggi di pro-grammazione audio allora diffusi nel mondo accademico, come Music5, Mu-sic360, Csound alcuni dei quali giravano sia su mainframe sia su personal com-puter (Csound è ancora oggi un progetto di sviluppo software a modello «par-tecipativo», sebbene spesso limitato in area accademica). Inoltre, studiai con at-tenzione alcuni capolavori di inventiva sonora e informatica, come Gendy3 di Iannis Xenakis, brano del 1991 in cui l’ormai anziano maestro greco-francese manifestava la lucidità costruttiva e l’esuberanza fonica di una personalità visio-naria e decisamente giovane.

Naturalmente tutti questi sistemi agivano in «tempo differito»: prima il compu-ter faceva tutti i calcoli, poi i numeri risultanti diventavano suono andando a pi-lotare la membrana di un altoparlante (senza adeguati mezzi elettroacustici ana-logici, il digitale non serve a nulla: lo sviluppo tecnologico avviene sempre per stratificazione, non per superamenti6). Presto, però, misi le mani su processori economici ma abbastanza rapidi per elaborare il segnale audio in «tempo reale»

(cioè senza ritardi tra risultati numerici e loro conversione acustica). Tra questi il FLY (sistema basato su processore Texas Instruments 32010 e successivi, costrui-to da amici e colleghi della SIM di Roma) e più tardi il KYMA (sistema

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Piccola etica della musica:

la sola armonia che conta, la sola consonanza da perseguire, sta nell’equilibrio fra mezzi e fini

7. Di Scipio 2008. In questo approccio, «comporre» è una prassi che si serve più di criteri (bio) cibernetici e relativi al pensiero sistemico/ecologico, di quanto non si serva di tastiere, programmi di notazione musicale, «librerie di suoni», ecc.

8. Di Scipio 2002; cfr. anche Di Scipio 2005.

9. Cfr. Berra, Meo 2001.

processore basato su Motorola 56008 e successivi, costruito da una microazien-da familiare a Champaign, Illinois). Talvolta ebbi occasione di contribuire al sof-tware di questi sistemi, collaborando coi loro progettisti (essi stessi musicisti vo-tati alla sperimentazione e alla ricerca).

Dal 1995 in poi, quasi tutto il mio lavoro compositivo verte non solo su proces-si di elaborazione audio digitale «dal vivo», cioè attivi nel corso della performan-ce musicale, ma più in generale sull’ideazione e la sperimentazione di infrastrut-ture all’interno delle quali il computer è solo una delle componenti tecnologi-che; non la meno importante, ma insufficiente senza interazione con altri mez-zi e perfino con lo spamez-zio sonoro circostante. Comporre significa oggi, per me, mettere insieme diverse competenze tecniche e umane secondo regole di intera-zione che ritengo desiderabili (per esempio, nei lavori del ciclo Ecosistemico Udi-bile, 2002-2005, vi sono tre livelli paralleli di interazione: uomo-macchina, uo-mo-ambiente, macchina-ambiente). E significa sperimentare le proprietà musi-cali emergenti dalla rete di interazioni così messa in azione7. Nelle composizio-ni con strumenti acustici e live electrocomposizio-nics (come Texture Multiple, del 1993, per ensemble da camera ed elaborazione del suono dipendente dall’acustica della sa-la) viene tematizzato l’incontro (o lo scontro) tra la tecnologia meccanica degli strumenti musicali di tradizione artigianale, quella elettronico-analogica dei si-stemi di trasduzione (ripresa e diffusione del suono) e quella elettronico-digita-le del software di elaborazione del suono. Mondi diversi, razionalità diverse del suono e della musica, ma insieme operanti in vista di un obiettivo musicalmente decisivo: trovare il necessario equilibrio fra mezzi e fini, fra possibilità costrutti-ve e proprietà formali degli esiti musicali.

Piccola etica della musica: la sola armonia che conta, la sola consonanza da per-seguire, sta nell’equilibrio fra mezzi e fini. Equilibrio fertile anche in un mondo come questo, che per altri versi non può non presentarsi come incessantemente instabile, come rumore e caos8.

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Appropriazione e reinvenzione competente dei mezzi tecnologici assumono nel tempo modalità diverse. Per esempio, oggi suggeriscono di promuovere e mi-gliorare il software open source (privo di copyright, modificabile 9), di prediligere progetti a sviluppo «partecipativo» piuttosto che «proprietario» – come nel caso dei linguaggi di programmazione audio Pure Data e Supercollider (e il già citato

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Informatica e telematica rappresentano stratificazioni tecnologiche ubique e pervasive ormai vissute come vero e proprio orizzonte di esistenza, come ambiente di vita

10. Heidegger 1988; Schürmann 1985.

11. C’è «immediatezza» solo quando il flusso comunicativo è unidirezionale e, in fondo, «impe-rativo»: il paradigma della comunicazione immediata sarebbe quindi il comando, l’ordine mili-tare che dispone subito la propria realizzazione effettiva.

Csound). O ancora, di far circolare i propri lavori con accordi di condivisione legalmente riconosciuti ma non tesi a sfruttamento commerciale (copyleft) – co-me con le norco-me Creative Commons. Questi e molti altri aspetti stabiliscono un legame concreto con questioni più ampie sul piano socio-culturale e politico. Ma ciò che davvero conta, è che questi aspetti hanno poco o nulla a che fare con que-stioni di «linguaggio» e di «genere» musicale, o con opzioni relative a «nicchie di mercato», a «stili di consumo». Perché, infatti, la maggiore o minore consapevo-lezza dei mezzi del proprio agire creativo è questione che viene prima delle pro-prietà estetiche dei risultati, e certo prima di categorie sociologiche e merceolo-giche. Questa consapevolezza riguarda l’esistenza stessa del suono e della musica, ma anche le possibilità di esistenza e sopravvivenza di coloro che agiscono come generatori di «suono organizzato» (con la famosa definizione di Edgar Varèse), o semplicemente come agitatori delle orecchie di chi è disposto all’ascolto.

Sappiamo che informatica e telematica rappresentano stratificazioni tecnologi-che ubique e pervasive (invasive, antecnologi-che), ormai vissute come vero e proprio oriz-zonte di esistenza, come ambiente di vita: sul piano filosofico, esse sono la razio-nalità tecno-scientifica che si fa storia10. La sfera delle interazioni umane è (qua-si) interamente mediata da reti di reti di interconnessioni. Nessuna comunica-zione artistica è davvero «immediata», tanto meno può esserlo se ha luogo in un contesto simile (e tuttavia vige ancora il velenoso luogo comune secondo cui «la musica» – quale esattamente? – sarebbe un linguaggio «universale» che parla «a tutti» con «immediatezza»)11. Come potremmo – spinti come siamo ad ascolta-re cascolta-reativamente, a produrascolta-re tracce udibili della nostra pascolta-resenza da condivide-re – non occuparci delle mediazioni che intervengono sul e nel nostro stesso fa-re cfa-reativo? Come potfa-remmo delegafa-re le condizioni di questa capacità ideativa e costruttiva ad altri, non farle proprie almeno fin dov’è possibile? L’esperienza della computer music è stata, non senza problemi e contraddizioni, un esempio emblematico nella storia della musica recente: una figura del «doversi occupare dei mezzi tecnologici» come impeto molto umano a conquistare margini di li-bertà d’espressione e di pensiero, in forma sonora. Quel tentativo è sempre vivo quando la musica davvero parla, quando la sua comunicazione davvero mette in comune, quando l’ascolto accoglie e si mette in azione.

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di Elio

Martusciello Si potrebbe definire la «musica concreta» una «macchina del desiderio»? Ogni

volta che apriamo un qualsiasi testo che abbia come tema o obiettivo d’indagi-ne la musica, la sua storia totale o parziale, essa ci appare costellata di «eventi», fratture, soglie, marcatori, che sembrano ora illuminare, ora adombrare zone ed episodi tali da formare un contorno irregolare, una «geografia eccentrica» di ciò che è accaduto o che ancora accade. In realtà si tratta di un modo utile (che com-porta però anche molti rischi, spesso di natura demagogica e spettacolare) per sviluppare sempre nuovi sguardi, senza alcuna pretesa veritativa, su ciò che è in-vece fondamentalmente un processo di «trasformazione silenziosa» inafferrabile per il logos. Un processo che apre orizzonti d’indicibilità, un dispiegamento qua-litativo inadatto allo «schema chiuso» e solidificante della parola ma, una volta trasformato in una catena di eventi, che solitamente chiamiamo storia (le con-figurazioni che ci rappresentiamo del tempo), esso finalmente diviene materia-le docimateria-le per il nostro pensiero. Nominare significa tenere a distanza materia-le cose, una distanza salutare per poterle maneggiare senza ferirsi.

All’interno di questa prospettiva utilitaristica, sapendo bene di abitare la pro-fonda contraddizione dell’essere e del linguaggio, si potrebbe dimostrare che, se esiste un’evoluzione dell’arte del suono, allora la sua pietra angolare, il suo cul-mine, sarebbe molto probabilmente da situarsi nel bel mezzo del XX secolo. Un punto di svolta senza precedenti, probabilmente senza possibilità di essere su-perato e la cui portata è ancora solo parzialmente compresa, da datare con pre-cisione nel 1948. Si tratta della data di fondazione, da parte di Pierre Schaeffer, della «musica concreta». Un evento creativo che si incunea perfettamente nel bel centro della grande questione, che caratterizza la contemporaneità, «dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», del rapporto tra arte e tecno-logie. Tecnologie che hanno consentito una profonda mutazione del paesaggio sonoro contemporaneo in cui tutti noi siamo immersi. Transiti tra culture mu-sicali e linguaggi artistici come mai prima – «il peso del suono» nella comunica-zione multimediale attuale è incontestabile – un «oceano di suono» ci sommer-ge. Lo statuto del suono come contenuto «spettro-morfologico» effimero e sfug-gente diviene qui consistente, oggettivo, si potrebbe dire addirittura che diviene qui «carne», materia concreta catturata, afferrata, fagocitata una volta e per sem-pre dalle tecnologie elettro-elettroniche. Tutte le forme d’arte sonora sembrano però utilizzare questo contemporaneo e immersivo dispositivo di memorizza-zione, riprodumemorizza-zione, indagine ed esperienza del suono come una semplice e ba-nale opportunità per esistere. Dislocate nei loro territori d’appartenenza (come da sempre nella tradizione), risulterebbero estremamente localizzate,

Nel documento Musica e tecnologia nella scuola italiana (pagine 179-185)