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Tipologie, temi e caratteri dei racconti di Moravia 1 Il “sistema” dei racconti: un’arte di repertorio?

2. Tendenze generali dei racconti moraviani: moralismo, ironia, “orgoglio”.

2.1 Il narratore ironico

«Chiunque pretenda di poter presentare una documentazione integrale e

probante su un fenomeno ironico è o un imbroglione o un mentecatto. E spesso tutti e due»105

Dopo aver passato in rassegna i più interessanti tentativi di interpretazione generale del corpus dei racconti di Moravia, ci permettiamo di proporre il nostro punto di vista. Considerando nel loro insieme le centinaia di testi che compongono tale corpus, magmatico policentrico e seriale, abbiamo infatti rilevato alcune peculiarità che al tempo stesso li accomunano e li distinguono nettamente dai romanzi.

Il primo rilievo riguarda l’atteggiamento del narratore rispetto alla materia narrata, un atteggiamento che è riconoscibile nei racconti ma non è rilevabile in alcun modo nei romanzi. L’atteggiamento a cui ci riferiamo potrebbe essere denominato ironia.

La portata di una simile considerazione non è certo da sottovalutare. Pensare a Moravia come ad un narratore ironico potrebbe equivalere infatti a stravolgerne la fama di implacabile realista.

Eppure, per dirla con l’autore del più affascinante studio sull’ironia di cui si disponga, solo un lettore “onesto, codardo e conformista”106 può rinvenire nei racconti di Moravia lo scrittore realista dei romanzi. Ed è anzi possibile ipotizzare che proprio “per difendersi dal lettore conformista”, lo scrittore abbia intenzionalmente esasperato il proprio “anticonformismo, imbrogliando le carte, slittando di genere in genere, turlupinando il lettore e se stesso, sviando e depistando i critici, invitando i lettori a una partita di poker mentre lui ha preparato le carte per il bridge”107.

Prima di argomentare questa tesi è bene però innanzitutto chiarire cosa si intenda per “ironia”. Potremmo proporre per prima la definizione, di tipo “classico”, di Massimo Bontempelli:

104

E. SANGUINETI, I moralisti moderni, ora in ID., Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961

105 G. A

LMANSI, Amica ironia, Milano, Garzanti, 1984, p. 104.

106 Ivi, p. 69. 107 Ivi. 76.

«L’ironia è la forma artistica del pudore al cospetto dei nostri sentimenti, è un modo di allontanarci dal contingente, di liberarci da un’aderenza troppo minuta con le superfici delle cose. E’ l’avviamento a una lucidità superiore, una legittima transizione dalla concezione dell’opera d’arte come soggetto a quella dell’opera d’arte come oggetto»108

In quanto forma artistica del “pudore” l’ironia è la modalità della distanza tra il narratore da una parte e i propri sentimenti e la materia narrata dall’altra.

E’ vero però che, seppur parzialmente condivisibile, questa definizione non è l’unica. L’ironia ha attratto infatti l’attenzione di alcuni illustri studiosi da Wayne Booth a Guido Guglielmi e, appunto, a Guido Almansi. Ribadiamo che è stato senza dubbio quest’ultimo ad aver prodotto, con il suo Amica ironia, il più interessante studio su questo argomento. Qualora si intendesse però reperirvi una definizione precisa e funzionale del concetto di ironia, si rimarrebbe senz’altro delusi. Si legga infatti il seguente brano:

«Ebbene, noi sappiamo che cosa è l’ironia purché nessuno ce lo chieda. E allora cosa rimane da fare al critico di mestiere il quale non può ignorare l’ironia se legge libri vede quadri ascolta musica? Deve rinunciare alla sua professione? No: lasciatelo divertire. Il critico onestamente avvertito della disonestà della ogni scrittura (compresa la sua) potrà esplorare fra i possibili significati secondi di un discorso; usmare [sic.] le tracce di un odore alieno in una pista semantica; seguire la parabola di una curvatura sospetta in un giro di frase; registrare le sottili varianti (di stile, di lessico, di rima, di metrica, di umore, di soggetto, di tematica, di tono, di ideologia, di simbolo) che sembrano spingere il significato globale di una pagina o di un capitolo in una direzione diversa da quella che emerge da una lettura letterale; […] ascoltare la voce che c’è dietro la voce, drizzare le orecchie al suono coperto da un altro suono, scrutare il segno nascosto dal segno»109

Almansi propone una soluzione a dir poco “perturbante”; ma dotata di assoluta ragionevolezza. Sarebbe ingiusto infatti illudersi che l’ironia sia un modo d’essere univoco e ben riconoscibile. Non basta infatti distinguere tra “enunciato storico”110, in cui la lingua dello scrittore è centrata direttamente sui significati ed è dunque “parola oggettivata” (in termini bachtiniani), e “stilizzazione” (“che potrebbe includere oltre alle forme di manierismo, anche alcune forme del discorso indiretto libero e quello della parodia che è particolarmente importante, in cui la parola dello scrittore vive del rimando esplicito alla parola altrui”111). Prosegue infatti Almansi che ogni scrittore ed ogni scrittura appaiono dotati di una propria maniera autonoma e risultano dunque in certa misura imperscrutabili a causa dell’intentionalist fallacy (impossibilità di stabilire con criteri scientifici l’intenzione autoriale). Tanto più, allora, una scrittura percepita come ironica andrà

108

M. BONTEMPELLI, Fondamenti, in L’avventura novecentista, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 15.

109 G. A

LMANSI, Amica ironia, cit., p. 104.

110 G. G

UGLIELMI, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 7.

soggetta all’ Ironic fallacy (“impossibilità di stabilire con criteri scientifici la ironicità di un testo”112).

Quello che Almansi sostiene con fermezza è in pratica l’inadeguatezza “di un approccio stilistico o retorico in questioni di ironia”. Egli è convinto infatti che “nonostante il titolo promettente del libro di Wayne Booth (o forse proprio per l’assurdità delle premesse contenute nel titolo), una retorica dell’ironia non potrà mai esistere”113.

La più autentica forma di ironia è, secondo Almansi, quella che si avvale, in senso lato, dell’espediente della tongue-in cheek. La formula, intraducibile, secondo lo studioso, indica una particolare modalità espressiva propria del popolo inglese e consiste sostanzialmente nell’understatement. Agli antipodi di un simile atteggiamento ironico, raffinato e poco esplicito, si pone invece quel tipo di ironia che, per così dire, si “autodenuncia” tramite segnali inequivocabili. Laddove questi segnali sono reperibili, l’ironia, indicando la sua “competence”, finisce inevitabilmente per cancellare la sua “performance”114; essa si avvicina dunque all’antifrasi (la quale ha la funzione di confermare ciò che il lettore aveva già indovinato). Almansi ritiene quest’ultima “la specie più bassa e volgare del genus ironico”115. Egli è convinto infatti che l’ironia, per essere veramente tale, debba possedere un irrinunciabile margine di ambiguità.

A questo punto verrà spontaneo domandarsi che tipo di ironia sia mai quella di Moravia. Non intendiamo additare rigidamente alcuni racconti come dotati di caratteristiche ironiche, anche perché crediamo che in questo specifico settore della narrativa moraviana l’ironia sia un atteggiamento diffuso. Ma neppure crediamo possibile indagare l’opera di uno scrittore come Moravia, che presenta talvolta delle rigidezze, con la totale asistematicità auspicata dall’autore di Amica ironia.

Procederemo dunque mantenendo un comportamento intermedio tra la ricerca, a tutti i costi, di “una componente specifica pertinente al mondo dell’ironia la cui presenza od assenza renda tale e tal lavoro ironico o non ironico”116 (pretendendo “di normalizzare e controllare il rapporto fra testo e lettore” e distruggendo così “l’elemento di sorpresa e di sconcerto che è parte integrante dell’esperienza ironica”117) e un atteggiamento puramente (e paradossalmente) critico-ironico.

112 G. A

LMANSI, Amica ironia, cit., p. 99.

113 Ivi, p. 101. 114 Ivi, p. 99. 115 Ivi, p. 17. 116 Ivi, p. 103. 117 Ivi, p. 101.

Ci sarà senza dubbio utilissima la fondamentale (ed ironica) classificazione dell’ironia che Almansi stabilisce “lungo le coordinate” di un “noto detto partenopeo”, riecheggiando la distinzione fatta da D. C. Muecke118 tra Open Irony, Covert Irony e Private Irony, ma sostituendo quest’ultima con una sorta di “Total Irony” (ironia che coinvolge tutti, lettori ed autore): “la prima ironia”, dice Almansi, “è quella dell’ ‘Accà nisciuno è fesso’; la seconda quella dell’ ‘Accà nisciuno è fesso’ tranne il lettore; la terza quella dell’ ‘Accà tutti sono fessi’”119.

Le ultime due tipologie corrispondono in modo più o meno preciso rispettivamente all’ironia di Jane Austen e George Eliot e all’ironia offensiva nei confronti del lettore espressa da Johnatan Swift in The Tale of a Tub.

Ma la tipologia che ci interessa per il momento è la prima, ossia “quella nazionale, italica”120 il cui esponente più rappresentativo è Alessandro Manzoni, “maestro di un’ironia bonaria e tollerante secondo la concezione ginnasiale della cultura”. Si tratta di un’ironia che non si presta ad alcun margine di equivoco, concepita perciò “per un pubblico mentalmente pigro”121. L’ipotesi più immediata sarebbe quella di vedere in Moravia il continuatore di quest’ultima linea ironica (soprattutto alla luce del fatto che Manzoni è uno dei suoi maestri, secondo forse solo a Dostoevskij). E del resto ogni dubbio sarebbe fugato se si tenesse conto della recisa precisazione di Almansi, secondo cui in Italia Svevo, forse grazie alle influenze straniere che ha subito, è stato l’unico maestro della tongue in cheek. Noi siamo convinti però, che, nonostante tutto, dovremo rivedere questa nostra prima ipotesi.

Per il momento non possiamo esimerci dal constatare come spesso quella di Moravia si configuri come un’ironia che si autodenuncia, segnalata e sottolineata da precisi segnali verbali, da precise “smorfie significanti” che rendono il messaggio “esplicitamente ed inequivocabilmente duplice”122.

Vediamo ad esempio il già citato racconto Buone notizie, da Romildo. Come abbiamo precisato, esso offre un saggio dell’espediente dell’ “amico ritrovato”: il narratore incontra un vecchio amico dopo tanti anni e si mette a discorrere con lui. Questo racconto ci interessa per una duplice ragione. La prima è che l’espediente dell’ “amico ritrovato” è soprattutto un espediente funzionale alla rappresentazione ironica di un carattere. Esso è

118 D. C. M

UECKE, Irony, London, Methuen, 1970.

119

G. ALMANSI, Amica ironia, cit., p. 81.

120 Ibid. 121 Ibid. 122 Ivi, p. 18.

dunque riconducibile alla tipologia ironica “alla Stan Laurel e Oliver Hardy”, che si fonda su una “situazione comica codificata nel teatro da tempi immemorabili”123:

«L’attore che interpreta il ruolo del partner intelligente, ‘sfortunatamente’ appaiato col partner stupido, userà probabilmente una forma di antifrasi – procedimento retorico che ci permette di dire il contrario di ciò che pensiamo, o che fingiamo di pensare; o che crediamo essere vero; o che ci conviene comunicare»124.

Il ruolo di partner intelligente spetta qui, naturalmente, al personaggio-narratore, e ad essere smascherato è invece proprio l’ “amico ritrovato”. Il personaggio intelligente non ha altra scelta che quella di assecondare antifrasticamente lo stupido nell’esercizio della sua ottusità. Ma, allo stesso tempo (ed è questa la seconda ragione di interesse del saggio che esaminiamo), il personaggio intelligente denuncerà la propria ironia, privando dunque la situazione di ogni ambiguità.

Il “vizio” in cui l’amico ritrovato sembra qui incallirsi è quello di un patologico ottimismo; egli prende infatti ad enumerare tutti gli accadimenti positivi che hanno deliziato i suoi ultimi anni di vita, opprimendo con questo racconto l’interlocutore. Ecco dunque che quest’ultimo (che è anche il narratore della storia) non riesce a trattenersi dal comportarsi nel modo che segue:

«‘Dico che è un’ottima notizia… Mi fa piacere, bravo’. Egli tacque un momento, compiaciuto. Io insistei: ‘E hai altre buone notizie?’ ‘No, questo è tutto’, rispose, senza notare l’ironia»125

Come si vede, l’ironia è qui doppiamente denunciata, sia attraverso la replica antifrastica sia attraverso l’ esplicita menzione della propria intenzionale ironia. Un simile atteggiamento risultava peraltro intuibile sin dalle prime righe:

«Allora lo riconobbi: Prospero. Era parecchio tempo che non lo vedevo ma non lo trovai cambiato. […] Provai irresistibile il bisogno di dirgli una vieta spiritosaggine, di quelle che piacciono alle persone come lui: ‘Fai onore al tuo nome… Sei sempre più prospero’. Egli ebbe un riso secco e cordiale, un po’ simile al verso di una gallina”126.

Vi sono altri casi in cui Moravia ripropone questo schema, apportando solo qualche minima modifica. L’incontro tra due vecchi amici è sostituito ad esempio dal semplice

123 Ivi, p. 15. 124 Ibid. 125

A. MORAVIA, Buone notizie, in ID., Romildo, cit., p. 144.

126 Ivi, p. 143. Lo stesso gioco di parole in Il punto d’onore (Dispersi 1928-1951, cit., p. 325): “Dopo molto

tempo andai a trovare il mio amico Prospero. Ahimè, quel suo nome fortunato non trovava più rispondenza, come un tempo nella sua vita”.

incontro tra due sconosciuti in Scambio di idee, dai Dispersi. Ma la procedura è la stessa: l’intelligente finge di assecondare lo stupido nel suo vizio:

«Invece di annunziarmi, come credevo, lo scopo della sua visita, Moroni cominciò a parlarmi di sé”127. “Egli parlava e io lo ascoltavo. Rimase così ancora un pezzo, sempre discorrendo di sé. Mentre parlava, riflettevo e mi dicevo: ‘Costui non è né un pazzo, né uno stupido, né un indiscreto, né un ambizioso, sebbene sembri tutte insieme queste cose… è soltanto un uomo che pensa esclusivamente a se stesso… a tal punto di illudersi che anche gli altri non debbano fare altro che occuparsi di lui…»128

In questo caso però, la denuncia antifrastica non viene pronunciata dall’intelligente, bensì, quasi masochisticamente, dallo stupido: “‘Allora aspetto i vostri libri’ mi disse sulla soglia ‘mi ha fatto piacere di avere avuto con voi questo scambio di idee… telefonatemi… teniamoci in contatto”129.

Esempi come questi ci mostrano in modo evidente quanto siamo distanti dalla modalità inglese del tongue in cheek, che Almansi indica come l’unica autenticamente ironica; qui Moravia sembra superare di gran lunga persino la “brutale immediatezza dell’ironia manzoniana”130. Ma Moravia, come del resto Manzoni, non è uno scrittore ingenuo. Viene pertanto da chiedersi se per caso egli non sia ironico nel voler sembrare ironico e se, nel momento in cui nomina l’ironia, non intenda in fondo rinunciare ad essa. Ma per il momento ci fa comodo che questo dubbio resti.

Un’altra forma abbastanza “open”, esplicita, dell’ironia moraviana consiste nell’impiego dell’espediente dello straniamento. Si tratta dunque, in questo caso, di un’ironia più verbale che narrativa, ed essa corrisponde sostanzialmente al classico caso del narratore inattendibile.

Non intendiamo però riferirci, è bene precisarlo, allo straniamento di cui parla Piero Cudini, quello cioè che si inserisce sottoforma di dilatazione onirica o psicologica del particolare sul realismo “primario”. Ci riferiamo ad una forma ben più macroscopica della tecnica teorizzata da Sklovskij.

Prendiamo ad esempio Primo rapporto sulla Terra dell’ “inviato speciale” della Luna (da L’epidemia. Racconti surrealisti e satirici):

«Strano paese. E’ abitato da due razze ben distinte, sia moralmente, sia, fino ad un certo punto, fisicamente: la razza degli uomini chiamati ricchi e quella degli uomini chiamati poveri. Il significato di queste due parole, ricchi e poveri, è oscuro e la nostra imperfetta conoscenza

127

ID., Scambio di idee, in ID., Dispersi 1928-1951, cit., p. 187.

128 Ivi, p. 189. 129 Ivi, p. 190. 130 G. A

della lingua del paese non ci ha permesso di accertarlo. Ma le nostre informazioni vengono in grandissima parte dai ricchi, assai più dei poveri abbordabili, ciarlieri, ospitali. […] I poveri, prima di tutto, non amano la pulizia e la bellezza. I loro vestiti sono sudici e rattoppati, le loro case squallide, le loro masserizie logore e brutte. Ma per una strana perversione del gusto essi sembrano preferire gli stracci ai panni nuovi, le case popolari alle ville e ai palazzi, le seggiole e i tavoli rotti ai mobili di marca»131

L’incipit ci dà la misura del tono complessivo della narrazione. Il narratore risulta talmente inconsapevole da designare i ricchi e i poveri con l’appellativo di “razze”. Del resto non ci si può stupire: egli proviene dalla Luna. E’ ovvio che l’assurdità stessa delle affermazioni dell’“inviato speciale” denunciano l’ironia dell’autore. Se però ci si pone dal punto di vista del locutore “lunare”, nelle sue parole non si può scoprire alcuna intenzione ironica, ed esse sono anzi pronunciate in maniera così convinta da diventare paradossalmente convincenti anche per il lettore “terrestre”. O, se non convincenti, perlomeno disorientanti. Lo stesso tipo di narrazione e lo stesso tipo di spaesamento si ricavano anche da un racconto di Edgar Allan Poe, uno scrittore che, come sappiamo, è uno dei modelli dichiarati di Moravia e soprattutto del Moravia dell’Epidemia. Il racconto a cui ci riferiamo è Never bet the Devil your head (Non scommettere mai la testa col

diavolo, 1841) .

Presentando lo sventurato Toby Dammit, vero protagonista della storia, il personaggio narratore dice:

«Il fatto è che la sua precocità nel vizio era terribile. A cinque mesi, era preso da tali parossismi di collera che non riusciva più ad articolare parola. A sei mesi, lo sorpresi a masticare un mazzo di carte. A sette mesi, aveva l’abitudine di agguantare e baciare le bambine della sua età. A otto mesi, rifiutò perentoriamente di apporre la sua firma alla promessa di Temperanza. Andò così crescendo in nequizia, mese dopo mese finché, allo scadere del primo anno di età, non solo si incaponì a portare i baffi, ma aveva contratto un’inclinazione a imprecare e bestemmiare, e a sostenere le proprie affermazioni con una scommessa»132

Ed aggiunge, si noti la coincidenza, “un altro vizio che la strana anomalia fisica di sua madre aveva lasciato in eredità al figlio era la povertà”. Anche in questo caso, come nel racconto moraviano, il lettore non sa se prendere le distanze dal narratore moralisticamente polemico, oppure se accettare l’assurdo patto narrativo, visto il contesto completamente “fuori di chiave”.

Fino ad ora abbiamo assunto “ironicamente” per buona l’idea dell’ironia moraviana come ironia grossolana. Già questi pochi esempi di ironia tutto sommato esplicita ci hanno

131

A. MORAVIA, Primo rapporto sulla Terra dell’ “inviato speciale” della Luna (da L’epidemia. Racconti

surrealisti e satirici, 1956, ora in ID., Opere/3, vol. II, cit., p. 1104; col titolo di Strano paese, in Romildo,

cit., p. 145).

132 E. A. P

però convinti del fatto che il Moravia scrittore di racconti offre in verità un realtà ben più complessa. E ci sembra dunque che sia venuto il momento di svelare la nostra vera opinione, ossia che l’ironia moraviana non è affatto univoca e monocorde, bensì multiforme. E’ possibile infatti rinvenire nelle varie manifestazioni ironiche offerte dai racconti una gradazione che va dall’ Open irony alla Cover irony alla Total Irony. A partire dalla tipologia più esplicita dell’ironia moraviana, che è quella dei due racconti riconducibili all’espediente “dell’amico ritrovato”, si passa infatti a manifestazioni ironiche ben più sottili. Abbiamo appena esaminato, ad esempio, quella che si realizza per mezzo della strategia narrativa dello straniamento. Vediamo ora quale peso possieda lo stile

indiretto libero nel dettato ironico moraviano.

L’ironia di Moravia coincide solo raramente con quella evidenziata da Guglielmi quando dice che in Manzoni la costruzione dei personaggi “è sempre strutturalmente ironica, cioè sempre in rapporto con altro da sé, anche dove non si lascia scorgere immediatamente”133 e che lo scrittore realizza la

«sincronizzazione indiretta, in cui il linguaggio del personaggio o anche la parola mortificata e sintatticamente inarticolata del contadino, viene citata ironicamente o con un effetto di distanziamento, per cui tutto un complesso di livelli diacronici converge nel linguaggio dello scrittore, definito all’interno della lingua pratica, comune-borghese»134.

In Moravia questo avviene forse, almeno sul piano esteriore, nella produzione cosiddetta “neorealista”, benché poi (basti pensare al caso de La romana) lo scrittore preferisca di solito avvicinare i propri popolani a sé, dotandoli di una cultura che il “patto” realistico non consentirebbe.

La descrizione di Tarcisio, l’avaro dell’omonimo racconto (Racconti), offre senza dubbio un esempio apparente di ironia manzoniana (nel senso in cui la intende Guglielmi) ed un esempio effettivo di ironia tongue in cheek. Essa comincia infatti in modo apparentemente referenziale e si carica progressivamente di un’ambigua ironia, dovuta agli accenti di fittizia compassione dalla voce narrante:

«Veramente, c’era stato un tempo, una diecina di anni addietro, quando Tullio aveva vent’anni, in cui si era appassionato all’arte teatrale fino al punto di domandarsi se non sarebbe preferibile smettere di fare l’avvocato e scrivere commedie. […] Un tempo, finalmente, in cui aveva speso senza parsimonia per sé e per gli altri. Ma di quel tempo e del Tullio di allora non era rimasta che l’apparenza. La sostanza, le radici di quella prima e sola fioritura della sua vita, senza che egli se ne accorgesse, anno per anno, gliel’aveva rose l’avarizia. […] In principio è verosimile che tentasse di contrastare questa passione, poi, non resistendo al dolcissimo e invincibile

133 G. G

UGLIELMI, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 32.