La forma del racconto Storia e teorie 1 Novella e racconto: due diverse tendenze critiche
4. La teoria del racconto moderno
4.1 Teoria e prassi della scrittura breve: alcuni scrittori-teoric
La nostra incursione nella storia delle teorie del racconto moderno dovrà necessariamente partire dalle formulazioni realizzate non da teorici “di professione”, bensì da riconosciuti maestri del racconto. La selezione degli scrittori-teorici sarà compiuta all’insegna del pluralismo geografico e cronologico; quella delle formulazioni teoriche si baserà invece sull’inerenza della trattazione non già alle questioni dello stile e della poetica, ma a quella delle leggi compositive e della struttura del racconto come genere letterario. Un simile criterio ci impone naturalmente di escludere prefazioni e saggi sul racconto di per sé interessanti, come, ad esempio, la lettera al Farina che apre L’amante di
Gramigna del Verga.
Riteniamo opportuno seguire nella nostra rassegna un ordine rigorosamente cronologico ed iniziare perciò con lo scrittore che già dai contemporanei era considerato il fondatore della teoria oltre che della tradizione del racconto moderno. Ci riferiamo com’è ovvio ad Edgar Allan Poe. Numerosi, diversificati e celebri sono infatti gli scritti che egli ha dedicato a tale forma letteraria. Si tratta in alcuni casi di recensioni a raccolte di racconti di scrittori contemporanei; in altri di saggi autonomi. Quasi tutti, così come i circa settanta racconti del bostoniano, vedono la luce sulle varie riviste a cui si lega il suo nome (sul «Curier» e sul «Southern Literary Messanger» pubblicherà i suoi primi racconti, dirigerà poi il «Graham’s Magazine», diverrà proprietario dal 1845 per un certo periodo del
«Broadway Journal»). Difatti, dando vita alla tradizione del racconto moderno, Poe ne formalizza al contempo lo stretto legame con le riviste.
Citate dalla maggior parte degli studiosi inglesi e americani di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo, le due recensioni di Poe alla raccolta di racconti del contemporaneo e connazionale Nathaniel Hawthorne, Twice Told Tales (“Racconti detti due volte”), furono pubblicate a distanza di appena un mese l’una dall’altra sulla rivista che egli si trovava a dirigere in quegli anni. Nella prima delle due recensioni è contenuta un’osservazione che appare forse paradossale agli occhi di uno studioso del nostro tempo. Poe lamenta infatti la debolezza della tradizione statunitense del racconto («With rare exception –[Irving] – we have no American tales of high merit») rispetto alla short story e al saggio matrice inglese. Tale recensione va però soprattutto ricordata per l’esaltazione ivi contenuta della superiorità della forma racconto rispetto al romanzo, al saggio e alla poesia. Che il racconto sia visto come l’immediato mezzo di espressione del più alto talento118 è poi assai significativo poiché equivale ad un radicale stravolgimento della centenaria gerarchia dei generi letterari – una gerarchia di ascendenza aristotelica – che riservava il primo posto alla poesia, collocata a grande distanza dal romanzo, e a maggior ragione dal racconto.
È comunque nella prima parte della recensione successiva che lo scrittore svela le ragioni della superiorità del prose tale sulle altre forme letterarie. Dopo aver dato sulle prime l’impressione di credere all’esistenza di principi compositivi generali validi per tutte le forme, egli giunge ad enunciare tutte in una volta ed in poche righe le leggi fondamentali del racconto, e solo del racconto, leggi che saranno riconosciute a lungo come valide dai critici:
«The tale proper, in our opinion, affords unquestionably the fairest field for the excercise of the loftiest talent, which can be afforded by the wide domains of mere prose. Were we bidden to say how the highest genius could be most advantageously employed for the best display of its own powers, we should answer, without esistation – in the composition of a rhymed poem, not to exceed in length what might be perused in an hour. [...] We need only here to say, upon this topic, that, in almost all classes of composition, the unity of effect or impression is a point of
118 E. A
LLAN POE, Review ofN. HAWTHORNE, Twice Told Tales, «Graham’s Magazine», April 1842: «We have always regarded the Tale (using this word in its popular acception) as affording the best prose opportunity for display of the highest talent. It has peculiar advantages which the novel does not admit. It is, of course, a far finer field than the essay. It has even points of superiority over the poem» [trad. Abbiamo sempre visto il racconto (e usiamo questa parola nella sua accezione popolare) come in grado di offrire la miglior opportunità alla prosa per mostrare il più alto talento. Esso possiede vantaggi particolari che il romanzo non concede. È, certamente, un ambito molto più raffinato di quello del saggio. E ha elementi di superiorità persino rispetto alla poesia.].
the greatest importance. It is clear, moreover, that this unity cannot be throughly preserved in productions whose perusal cannot be completed at one sitting»119.
L’enunciazione della reciproca rispondenza di unità di impressione e seduta unica di
lettura è una delle più efficaci e significative della teoria della letteratura, vista nel suo
sviluppo diacronico.
Il concetto di seduta unica informa la definizione stessa di prose tale. Tale definizione (per cui la «short prose narrative [requires] from a half an hour to one or two hours in its persual») verrà discussa spesso da teorici e scrittori di epoche successive, perché giudicata troppo rigida. Noi dobbiamo comunque riconoscere che essa rappresenta uno dei rarissimi tentativi di definizione “scientifica” e oggettiva della forma racconto, tanto più meritevole in rapporto al diffuso atteggiamento elusivo degli studiosi. L’inferiorità del romanzo è giustificata ricorrendo a questa stessa argomentazione. Esso infatti «as it cannot be read at one sitting, it deprives itself, of course, of the immence force derivable from totality».
Poco più avanti Poe motiva poi la sua idea del racconto come forma di espressione privilegiata del genio narrativo: «during the hour of perusal the soul of the reader is at the writer’s control. There are no external or extrinsic influences – resulting from weariness or interruption». Il racconto è dunque uno strumento di cui lo scrittore è in possesso per rapire e ammaliare il lettore. Ma, sia bene inteso, l’intenzione da parte dell’artista di garantire l’unità d’effetto deve essere integrale, e addirittura il presupposto stesso della scrittura («If his very initial sentence tend not to the outbringing of this effect, then he has failed in his first step»).
In termini più espliciti, è la lunghezza ad essere additata come un pericolo per la qualità del testo: «Undue brevity is just as exceptionable here as in the poem; but undue length is yet more to be avoided». Come vedremo ripetute volte, tutti i teorici contemporanei del racconto prenderanno la distanza da quest’ultima affermazione e appariranno concordi nel negare che la brevità sia condizione necessaria e sufficiente del racconto. Perché un testo possa essere considerato un racconto, diranno, non basta che sia breve; o, viceversa, non è
119 [trad. Il racconto propriamente detto, a nostro modo di vedere, offre senza dubbio il miglior terreno per
l’esercizio del più elevato talento, che possa essere offerto dai vasti domini della mera prosa. Eravamo stati invitati a spiegare come il più alto genio possa essere vantaggiosamente impiegato per la migliore esibizione delle sue potenzialità; potremmo rispondere, senza esitazione – nella composizione della poesia in rima non superare la lunghezza di ciò che può essere letto in un’ora. […] Non abbiamo solo bisogno qui di precisare, riguardo questo argomento, che, in quasi tutte le categorie di composizione, l’unità di effetto o di impressione è un elemento della maggior importanza. È chiaro, inoltre, che questa unità non può essere pienamente conservata in opere la cui lettura non può essere completata in una sola seduta]: E. ALLAN POE, Review ofN. HAWTHORNE, Twice Told Tales, «Graham’s Magazine», May 1842. In verità il concetto di unità dell’effetto era stato già espresso nella recensione a Watkins Tottle, and other Sketches di Dickens («Graham’s Magazine», giugno 1836).
detto che un testo lungo non possa andare sotto il nome di racconto. Come negare che questi critici abbiano ragione? E come non ammettere d’altro canto che le formulazioni di Poe rivelano un carattere in certo modo pionieristico? Eppure il pensiero dell’autore di
Tales of the Grotesque and Arabesque sovrasta i limiti della fase protostorica in cui viene
elaborato e finisce per costituire un inevitabile punto di riferimento per tutti coloro che verranno.
D’altra parte bisogna ammettere che una certa rigidità rivela anche l’assunto della superiorità del racconto rispetto alla poesia, basato sulla contrapposizione di verità e bellezza; se quest’ultima costituisce l’obiettivo della poesia, «truth is often, and in very great degree, the aim of the tale». Ma l’idea della razionalità intrinseca che regolerebbe il racconto è senza dubbio condivisibile:
«Some of the finest tale are tales of ratiocination. […] The writer of the prose tale, in short, may bring to his theme a vast variety of modes or inflections of thought and expression – (the ratiocinative, for example, the sarcastic or the humorous) which are not only antagonistical to the nature of the poem, but absolutely forbidden by one of its most peculiar and indispensable adjuncts; we allude of course to rythm. It may be added, here, par parenthese, that the author who aims at the purely beautiful in a prose tale is laboring at great disadvantage»120.
Molti di questi concetti verranno ribaditi dallo scrittore statunitense nel famoso saggio
Filosofia della composizione (uscito ancora sul «Graham’s Magazine» nell’aprile del
1846), benché esso tratti di poesia, ed in particolare del processo compositivo e dei principi su cui si basa il celebre poemetto The Raven. Sembra anzi quasi che Poe, pur parlando di poesia, vada col pensiero ancora al racconto, specialmente quando affronta il problema della lunghezza e dell’unità dell’effetto, qui ulteriormente messo a punto:
«Il primo oggetto della mia riflessione è stata la Lunghezza. Se un’opera letteraria di qualunque tipo è troppo lunga perché la si legga in una seduta sola, dobbiamo rassegnarci a fare a meno dell’effetto, di enorme importanza, legato all’Unità d’Impressione […]. Ogni eccitamento intenso è, per necessità psichica, di breve durata. […] Se occorrono due sedute, fra l’una e l’altra si frappongono le vicende del mondo, e ogni parvenza di totalità ne viene immediatamente distrutta»121.
120 E. A
LLAN POE, Review ofN. HAWTHORNE, Twice Told Tales, «Graham’s Magazine», May 1842 [trad. Alcuni dei migliori racconti sono racconti di ragionamento. […] Lo scrittore di racconti, in breve, può far convergere sul suo tema una vasta varietà di modi ed inflessioni di pensiero ed espressione –(quello raziocinante, ad esempio, quello sarcastico, o umoristico) che non sono solo antagonistici rispetto alla natura della poesia, ma assolutamente concessi da uno dei suoi più caratteristici e indispensabili attributi; alludiamo certamente al ritmo. Può essere qui aggiunto, tra parentesi, che l’autore che punta alla bellezza pura in un racconto lavora in posizione di svantaggio].
121 Di Filosofia della composizione e altri saggi leggiamo un’ottima traduzione italiana (Napoli, Guida
Simili caratteristiche strutturali sono proprie solo del racconto e non di ogni forma letteraria e costituiscono dunque un elemento di superiorità122, benché poi Tzvetan Todorov sostenga che la «teoria dell’intreccio nel racconto fantastico è in realtà derivata da quella che Poe aveva proposto per la novella in generale»123. Noi diremo invece che
Filosofia della composizione è da considerare per certi versi un atto di nascita della stessa
teoria della letteratura. Dice infatti Poe:
«Mi è capitato spesso di pensare quanto sarebbe interessante il saggio di uno scrittore che volesse (che sapesse, cioè) raccontare nei particolari, passo per passo, i processi attraverso i quali ha portato a termine un suo testo qualsiasi. Perché nessuno abbia mai dato alla luce un saggio del genere non riesco a capirlo. Probabilmente di questa omissione è responsabile, più di qualsiasi altra ragione, la vanità d’autore»124.
Un’ultima osservazione: recensendo Master Humphrey’s Clock di Dickens («Graham’s Magazine», Maggio 1841), Poe pone anche la questione della discordanza tra titolo di un racconto (o di una raccolta) ed effettivi contenuti, una questione che per chi analizzi le raccolte novecentesche, ed in particolare quelle moraviane, mostrerà una certa rilevanza.
È ovvio che proseguendo il nostro percorso, seppur breve, tra alcune delle più significative teorie del racconto non potremo a nessun patto tralasciare uno scrittore Anton Cechov.
Cechov è riconosciuto e menzionato anche in ambito italiano come uno dei primi e indiscussi maestri del racconto. Tale è la considerazione che ne ha pure Moravia. In Italia però si è finora tenuto conto quasi esclusivamente della sua produzione letteraria e poca attenzione è stata riservata alle idee espresse riguardo all’arte del racconto. Questo fatto ha una precisa ragione, in quanto la traduzione italiana del cospicuo corpus delle lettere cecoviane, che costituisce una testimonianza preziosissima, è praticamente irreperibile. A noi è stato invece possibile disporre della traduzione in lingua inglese, di cui qui proponiamo qualche stralcio.
Addentrandosi nella lettura di questi testi privati, rivolti per lo più a Souvorin, redattore del quotidiano «Novo é Vremya» a cui lo scrittore russo affidava i suoi racconti, si scopre con un certo stupore un Cechov molto preoccupato, quasi angosciato, dall’assolvimento degli impegni presi con l’editore, ossessionato dalla carenza di denaro e dalle coazione alla
122 «Quello che chiamiamo un poema lungo non è infatti che una successione di poemetti brevi: e quindi, di
brevi effetti poetici», Ivi, p. 20. «Ora, il fine della Verità, la soddisfazione dell’intelletto, e il fine della Passione, l’eccitazione del cuore, sono, benché raggiungibili fino a un certo punto in poesia, raggiunti assai più facilmente in prosa», Ivi, p. 21.
123 T. T
ODOROV, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 2000, p. 90.
brevità125. Percepiamo quindi come la short story sia soggetta, fin dalle sue più illustri origini, ad un destino di consumo che limita la libertà dell’artista. E come questo destino ne condizioni senz’altro le tecniche narrative. Ma ciò che sorprende ancora di più è quanto il maestro indiscusso della narrazione breve si mostrasse in realtà insofferente nei confronti di questa brevità imposta, e come egli associasse la sua più vera ed autentica inclinazione artistica alle forme più lunghe:
«I am in a hurry to start on something short, but I long for some large work. Oh, if you only knew what a plot for a novel I have in my mind! [...] my tale is not for the super-censored magazines. I am greedy; I like to have crowds in my works, and that is why my tale is going to be long»126.
Non solo le forme “lunghe” sono percepite da Cechov come più congeniali; egli ritiene addirittura che sia «more tedious and more difficult to write a long work than a short one»127. Come vediamo, la posizione è nettamente antitetica a quella di Poe, che considerava invece il racconto la più alta prova per uno scrittore.
È interessante notare come il grande scrittore russo, nell’indicare la tecnica di stesura di un racconto, riprenda il criterio costruttivo che Auerbach e Guglielminetti ritengono essere alla base della novella e dunque di tutte le forme brevi, ossia il criterio della selezione:
«And so in planning a story one is bound to think first about its framework: from a crowd of leading or subordinate characters one selects one person only [...]; one puts him on the canvas and paints him alone, making him prominent, while the others one scatters over the canvas like small coin, and the result is something like the vault of heaven: one big moon and a number of very small stars around it. But the moon is not a success, because it can only be understood if the stars too are intelligible»128. «Before starting on a tale one must accostum one’s hand to transfer an idea easily in narrative form»129.
125 «I begin a story on September 10th with the though that I must finish it by October 5th at the latest; if I
don’t I shall fail the editor and be left without money. I let myself go at the beginning and write with an easy mind; but by the time I get to the middle I begin to grow timid and to fear that my story will be to much long: I have to remember that the Sieverny Viestnik has not much money, and that I am one of the their expensive contributors. This is why the beginning of my stories is always very promising and looks as though I were starting on a novel, the middle is huddled and timid, and the end is, as in a short sketch, like fireworks»; «Subjects for five stories and two novels are languishing in my head» (To A. S. Souvorin, Moscow, October 27, 1888, in A. CHEKHOV, Letters on the Short Story, the Drama, and other Literary Topics, selected and edited by L. S. Friedland, New York, Dover Publications, inc., 1966, pp. 11-12).
126 To A. N. Pleshcheyev, Moscow, Feb. 9, 1888, in A. C
HEKHOV, Letters on the Short Story, the Drama, and
other Literary Topics, p. 26.
127 Letter to A. N. Pleshcheyev, Moscow, Jan. 19, 1888, in A. C
HEKHOV, Letters on the Short Story, the
Drama, and other Literary Topics, cit., p. 4. 128
To A. S. Souvorin, Moscow, October 27, 1888, in Letters on the Short Story, the Drama, and other
Literary Topics, cit., pp. 11-12.
129 To A. S. Souvorin, Moscow, Novmber 28, 1888, in Letters on the Short Story, the Drama, and other Literary Topics, cit., p. 13 .
Abbandonato un Cechov in veste così inedita, vorremmo richiamare l’attenzione su Henry James. Può apparire senza dubbio singolare chiamare in causa uno scrittore e critico che si è sempre mostrato convinto della superiorità della forma romanzo, e che tale forma narrativa ha assiduamente difeso ed esaltato. Tuttavia, quando ha speso qualche parola sulla forma racconto, James lo ha fatto con grande incisività, e del resto, se è ricordato per la sua opera di romanziere, egli è anche autore un centinaio di racconti di varia misura.
Oltre che nei suoi introvabili Notebooks e nelle sue Prefazioni, James espone le sue idee sul racconto in alcuni memorabili saggi contenuti nell’Arte del romanzo, che leggiamo nella classica edizione italiana curata da Agostino Lombardo.
Tra tutti gli scrittori-teorici che ci troviamo qui a menzionare, di certo James è quello che stenta maggiormente ad indagare la struttura della short story. Parlando ad esempio di Turgenev e Maupassant egli si preoccupa infatti di delinearne più il profilo umano e intellettuale che quello strettamente tecnico-artistico. Tuttavia a Turgenev, in cui l’istanza descrittiva prevale sui valori di trama, James non si perita di rimproverare la mancanza di architettura, e dunque di composizione:
«Il germe di una storia, per lui, non era mai una questione di trama […] ma era la rappresentazione di certe persone. La prima forma in cui un racconto gli appariva era dunque come la figura di un individuo, o la combinazione di individui, che egli desiderava vedere in azione […]»130.
È innanzitutto interessante notare come la posizione assunta da James a proposito del rapporto tra teoria e prassi artistica sia di segno completamente opposto a quella di Poe:
«I più grandi artisti in ogni campo non sono certo quelli che hanno più spesso sulle labbra le idee generali intorno alla loro arte –quelli che maggiormente abbondano in precetti, apologie, formule […]. Di solito, invece, li riconosciamo dalla loro pratica vigorosa»131.
James formula questa riflessione in rapporto a Guy de Maupassant, il quale, egli afferma, si è avventurato con scarso successo «nell’indistinto deserto della teoria»; ma noi potremmo trarne uno spunto utile per quanto riguarda Alberto Moravia, il quale proprio come l’autore di Boule de Suif ha prodotto una grande messe di racconti, lasciandoci però un unico, eppure fondamentale, scritto teorico sul racconto. Ed ecco che allora è altrettanto significativa per quanto riguarda Moravia la successiva epigrammatica affermazione di James: «le spiegazioni più concise delle opere di genio sono le migliori»132.
130 H. J
AMES, Ivan Turgenév, in L’arte del romanzo, Milano, Lerici editore, 1959, p. 116.