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L’identità con sé dell’essere ne importa la sua immobilità, perciò “prescindendo dal pensiero” l’immutabile “non è più tale”: ma il “tauton” parmenideo che è necessità dell’identificazione di essere e pensare, escludente che il pensare stesso possa in alcun modo perturbare l’essere e non rende ancora possibile l’identità con sé dell’essere; se il “non mutare è essere identico”21 e l’identità “importa A=A”, l’immutabilità deve attendere il concetto socratico per essere vera immutabilità ossia essa deve accadere nel pensiero, luogo in cui si acquieta il divenire. Solo nel pensiero si può scorgere quel senso (il concetto!) dell’immutabilità che verrà attribuito ad ogni risposta alla domanda “ti estin?”; quel senso del determinato ed dell’esser identico a sé che il concetto attribuisce ad ogni suo contenuto. Il pensiero, volendo testimoniare l’immutabilità dell’essere, deve farsi mediazione (A=A) dell’immediatezza del reale,

20 Ivi, p.159.

costretto poi, sotto il segno dell’unificazione a render ragione, simul, non solo dell’unità e universalità che egli stesso contempla fin dall’inizio, ma anche della stessa molteplicità che si dipana all’interno dell’esperienza – molteplicità ed unità destinate a rappresentare il dualismo che divarica pensiero e realtà.

La dialettica di condizione e condizionato è costituita appunto da quest’originario sdoppiamento, governato però, da dietro le quinte, dal senso dell’identità (e quindi dell’immutabilità) scaturito per sempre dall’immediatezza dell’essere parmenideo. E del senso di questa immutabilità non può che soffrirne anche quel “reale, antecedente della stessa immediata esperienza” che “è il fatto” il quale – dice Gentile – “legato alla ferrea legge del passato” è “appunto quell’assoluta identità dell’essere con se stesso, che esclude dall’essere anche la possibilità di riflettersi su se medesimo e affermare la propria identità. Identità naturale, bruta.”22.

Questa è la necessità che compete propriamente al fatto, “l’estremo opposto della libertà” che rispecchiando l’inerzia dell’immutabile e predeterminando la forma di ciò che accade costringe, nella fattispecie, anche quel fatto – ritenuto - contingente a fare le veci dell’assoluta necessità. Questa contingenza è tale in forza del differire dell’effetto dalla sua causa, differire che, condotto fino al suo estremo, porta ad identificare il molteplice con un’assoluta irrelatività di elementi, poiché solo qualcosa di assolutamente irrelato e quindi svincolato da ogni suo legame spazio-temporale, può dirsi realmente contingente e quindi veramente libero.

Gentile sa che l’esperienza del contingentismo di Boutroux si fonda su di un rinnovato senso della “metafisica leibniziana”23, senso attraverso cui il filosofo francese, con il suo breve saggio sulla contingenza24, ha cercato di mettere in luce “che la vita del pensiero” è propriamente “una continua novità”25 ed essa non può perciò arrendersi a predeterminazioni meccaniche che intendano spiegare “il nuovo” con “il vecchio”, perché il nuovo porta con sé quel qualche cosa in più che non trova alcuna corrispondenza con ciò che è vecchio.

22 Op. cit., p. 172.

23 BOUTROUX E., Dell’idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea, Vallecchi Editore, Firenze, 1931, p. 10.

24 Il saggio a cui Gentile si riferisce è la tesi di dottorato di Boutroux dal titolo “Della

contingenza delle leggi di natura” (1874).

Per questo motivo nel mondo dei fatti non si può pervenire ad un’“identità uniforme”, ma solo una “varietà infinita” pertanto esso non è ciò che è in quanto esso “poteva essere” in tal modo: le configurazioni dei possibili – “come aveva insegnato Leibniz” – sono infinite, il reale è unico e irripetibile e il reale stesso suppone “quell’atto per cui tra tanti possibili se ne realizza uno”. Schierandosi perciò contro la deterministica meccanizzazione del mondo imposta dall’empirismo che tende a ridurre ogni forma di rapporto a mera relazione quantitativa, il contingentismo26, sulla scia della metafisica

leibniziana, sebbene neghi “l’unità o identità a cui mette capo l’empirismo”27 , esso non si disfa affatto del concetto di molteplicità che dovrebbe appunto essere “empiricamente data”.

La questione della contingenza, come tentativo di sfuggire dalla morsa del meccanismo imposto dalla legge naturale, che vorrebbe ristabilire la libertà del fatto contro la necessità impostagli dalla logica dell’empirismo, ricade invece nella stessa determinatezza e fissità che è propria dell’essere identico a sé: se ciò che sta dinnanzi a noi è “posto innanzi a noi”28, è quindi, come l’aristotelica κατάφασις, affermazione di pensiero, allora questo qualcosa non sarà posto “da noi”, ma sarà altro da noi e perciò “indipendente da noi”: anche questo nostro stare innanzi al fatto contingente testimonia il permanere di quest’ultimo al di là – al di fuori - della coscienza; posizione teoretica che non distanzia minimamente il contingentismo dall’empirismo, ma anzi li trattiene entrambi entro la necessità del fatto, nella sua stessa immutabilità. Gentile giunge a costatare nientemeno che il contingentismo è in realtà affetto, sino alle sue fondamenta, dall’empirismo: il contingentismo ammette che l’unica proposizione veramente necessaria in sé è la formula A=A, l’identità con sé di ogni determinazione, tutte le altre proposizioni in cui il soggetto differisce dal predicato,

26 Scrive De Ruggiero nella sua Storia della filosofia: “Così l’interesse del pensiero tedesco dell’ottocento per il Leibniz non si è mai più eclissato. Ma anche a quei paesi, come la Francia, a cui la filosofia kantiana e postkantiana è stata sempre, in qualche modo, estranea, il Leibniz ha potuto offrire, nella forma più accessibile di una sintesi psicologico-metafisica, un analogo indirizzo speculativo. Non è un’esagerazione il dire che tutta la filosofia francese dell’Ottocento, dal Maine de Brian al Ravaisson e alle scuole spiritualistiche, che da lui si ramificano, è attraversata e permeata da una viva corrente di leibnizianismo.” (DE RUGGIERO

G.,La filosofia moderna, II, L’età dell’illuminismo, vol. II, Laterza, Bari 1950, p. 19)

27 Op. cit., p. 164. 28 Ivi, p. 174.

devono configurarsi come proposizioni sintetiche. Il contingentismo si preoccupa, mantenendo in luce la realtà delle differenze, di salvare la molteplicità della realtà radicalizzando l’assunto per il quale non esiste necessità alcuna tra un termine e l’altro del rapporto causale, ovvero, tra un termine e l’altro del rapporto causale “non c’è equivalenza” – non c’è quindi alcun nesso necessario che li leghi. Tale nesso causale – ad esempio b = a – non esprimerebbe, di conseguenza, alcun rapporto analitico tant’è vero che, non riuscendo a tenersi ferma l’identità che pure dovrebbe sottendere a tale rapporto affinché si realizzi una relazione di causalità, esso non fa che esplicitare la pura contingenza dei suoi termini, necessari pertanto solo rispetto a loro stessi (a = a). Questo escludere ogni forma di necessità a discapito della contingenza dei singoli termini, fondandosi a sua volta sulla presupposizione della necessità degli stessi termini29, non permette in alcun modo di distinguere il contingentismo dall’empirismo meccanicista, entrambi esigono che il fatto, come ciò che è identico a se stesso (A=A), sia il presupposto che deve dominare la realtà, sia essa deterministicamente considerata sia essa in balia del contingente.

L’immobilità a cui la logica dell’astratto ha destinato il pensiero ritorna a farsi valere e si presenta ancora una volta come “limite al pensiero”30 e quindi limitandolo – o presumendo di limitarlo – gli toglie respiro costringendolo ad una falsa libertà, quella stessa che il contingentismo, tentando di emanciparsi dalla gabbia del determinismo meccanicista – e perciò positivista - vorrebbe riconquistare proponendo l’abolizione della meccanica necessità naturale: questo discorso filosofico muove però le sue critiche senza tuttavia riconoscere che la natura (che è il fatto) a cui esso mira è solo astrattamente natura, in concreto, essa è “il pensiero nella sua interna mediazione”; ed anche quella legge che il contingentismo vuole far presiedere al singolo fatto contingente, la legge della necessità A=A, si riconferma ancora una volta “legge dell’errore”. Di conseguenza lo sfondo su cui si staglia la critica gentiliana è, ancora una volta, il rilevamento della permanenza del presupposto naturalistico, presupposto che si appoggia sulle considerazioni empiriste o metafisico-razionaliste, ma che comunque, in quanto antefatto logico, ha la pretesa di condizionare e quindi di

29 Boutroux ammette che l’unica necessità che si possa affermare è A=A. 30 Adp, p. 77.

fondare il discorso filosofico31: ma è possibile il darsi di un’a„t…a, di una condizione

di ciò che in realtà è un fatto spirituale? È possibile rinvenire, in un sistema intellettualistico dove la condizione è nell’oggetto pensato, la condizione del tutto e dell’essere? Non si rischia forse di lasciar sempre al di fuori di questo rapporto il soggetto abbandonando così la dialettica di condizione e condizionato ad una realtà priva di vitalità soggettiva? E, infine, non è forse proprio questa assenza del soggetto dallo scenario filosofico a causare queste “difficoltà insormontabili” che apparentemente “sorgono dai concetti di condizione e condizionato” 32?