Gentile introduce alla questione del libero arbitrio rilevando la scaturigine della sua genesi argomentativa nell’antico argomento boeziano successivamente ripreso da Lorenzo Valla nel suo dialogo De libero arbitrio41, lo stesso dialogo a cui Leibniz fa
41 Gentile, nella Teoria generale dello spirito come atto puro, riporta una breve passo del dialogo di Lorenzo Valla. Di seguito ne riportiamo la traduzione: “ Non vedo ancora perché a te sembri che dalla prescienza di Dio derivi la necessità delle nostre volizioni e delle nostre azioni. Se il prevedere che qualche cosa accadrà fa che tale cosa accada, certamente anche il sapere che una cosa è fa che tale cosa sia. Ma se conosco bene il tuo pensiero, tu non diresti che una cosa è per il fatto di sapere che essa sia. Tu sai, ad esempio, che adesso è giorno: è giorno per il fatto che tu lo sai, o, al contrario, perché è giorno, tu sai che è giorno? [...] Lo stesso criterio vale per il passato. So che otto ore fa è stata notte, però la mia conoscenza non fa che ciò sia stato; ma piuttosto io so che la notte è stata, perché la notte è stata. E, per venire più vicino, prevedo che tra otto ore sarà notte; sarà per questo? Affatto, ma perché sarà io lo prevedo: e se la previsione dell’uomo non è causa che qualcosa sia, nemmeno la prescienza di Dio lo è”. Antonio l’interlocutore di Lorenzo risponde: “Questo paragone, credimi, ci inganna: altro è conoscere il presente e il passato, altro è conoscere il futuro. Poiché, quando so che qualche cosa è, questa non può mutare: come il giorno che adesso è, non può darsi che non sia. Anche il passato non ha niente di diverso dal presente: poiché noi non lo abbiamo conosciuto già fatto, bensì mentre accadeva ed era presente, come io ho appreso che la notte è stata non ora che è passata ma mentre era. E così in questo caso, concedo che qualche cosa è stata od è non perché io so che è così, ma che io la so proprio perché è o è stata. Altro, invece, è il criterio del futuro, che è variabile e non può essere conosciuto con certezza poiché è incerto. Quindi per non togliere a Dio la prescienza, riconosciamo che il futuro è certo, e perciò necessario, ossia che egli toglie la libertà dell’arbitrio. Né puoi dire ciò che hai detto or ora, che non perché Dio ha preveduto il futuro così accadrà, ma perché così accadrà Dio l’ha preveduto. In tal modo faresti a Dio l’offesa di pensare che sia necessario in lui la previsione del futuro.” Ribatte allora Lorenzo: “Sei sceso in battaglia ben armato e protetto; ma vediamo chi di noi due s’inganni, se io o tu. Comunque prima risponderò brevemente all’ultima frase: tu dici che, se Dio prevede gli avvenimenti futuri perché debbono accadere, egli è sottoposto alla necessità, in quanto gli è necessario prevedere il futuro. Questo, però, non va attribuito alla necessità, ma alla natura, ma alla volontà, ma alla potenza: a meno che, per avventura, il fatto che Dio non possa peccare, non possa morire, non possa perdere la sua sapienza, sia effetto di debolezza e non piuttosto di potenza e di divinità [...].” Lorenzo replica che il futuro, anche quello delle cose fortuite, per non fare torto a Dio, deve esser per lui prevedibile, ma Antonio gli risponde che ciò non può concernere gli atti volontari, bensì solo i fatti fortuiti (da notare che qui Gentile
riferimento nelle ultime pagine della sua Teodicea. Leibniz non è soddisfatto della soluzione di Lorenzo Valla, decide di procedere innanzi con il racconto fingendo una prosecuzione del dialogo tra Antonio e Lorenzo ideando così una venuta di Sesto a Dodona alla presenza di Giove42.
Sesto, abbandona Delfi, si reca da Giove a Dodona chiedendo il perché del suo empio carattere e della sua infelicità. Giove gli risponde che il destino cambierà se rinuncerà a Roma. Chiaramente Sesto non vuole rinunciare alla corona e insiste nel voler mantenere la sua posizione, ma Giove consapevole della propria onniscienza cerca di dissuaderlo a rientrare a Roma. Il dialogo, in seguito, volta pagina e vede come protagonista Teodoro, “il gran sacrificatore, che aveva assistito al dialogo tra il dio e Sesto”. Qui le affermazioni di Teodoro fanno presagire l’andamento successivo del discorso, andrà a parare, infatti, su dei luoghi fondamentali della Teodicea: “la tua saggezza – dice Teodoro a Giove – è adorabile, gran signore degli dèi. Tu hai persuaso quest’uomo del suo torto; bisogna che fin da adesso imputi la propria infelicità alla sua cattiva volontà, non ha nulla da ridire. Ma i tuoi fedeli adoratori sono stupiti: si augurerebbero di ammirare la tua bontà, non meno che la tua grandezza: dipendeva da te dargli una volontà diversa”. Teodoro quindi vuole capire perché Giove non abbia potuto assegnare a Sesto una volontà differente da quella che gli è stata assegnata in quanto re di Roma.
osserva come l’idea di accadimento fortuito equivalga nello specifico al contingente dei
contingentisti); come esempio egli dirà a Lorenzo: “indovina quale piede muoverò per primo:
qualunque tu dica, dirai il falso, poiché io muoverò l’altro”. Nonostante tutto Lorenzo ritiene che Dio possa prevedere qualsiasi cosa accada e l’uomo non può perciò sottrarsi al fato. La questione si risolve quindi, secondo Gentile, nell’idea che la provvidenza (che ha come contenuto il fatto necessario) va riferita totalmente alla volontà divina. Lorenzo che ha inscenato il mito di Sesto, fa dire ad Apollo: “La cosa sta così, o Sesto. Giove, come ha creato rapace il lupo, timida la lepre, coraggioso il leone, stupido l’asino, rabbioso il cane, mite la pecora, così ad un uomo ha formato un animo duro, ad un altro tenero; ha generato l’uno più propenso alle scelleratezze, l’altro alla virtù. Ancora, ha dato a qualcuno il carattere facile a correggersi, a qualche altro uno incorreggibile. A te ha dato un animo malvagio e non emendabile, con nessuna fatica. Anche tu, quindi, secondo la tua natura, agirai malvagiamente, e Giove, per ciò che farai ed opererai, ti punirà, ed ha giurato per la palude Stigia che così sarà” (VALLA L.,Scritti filosofici e religiosi, Sansoni, Firenze 1953, pp. 260-272).
Giove consiglia Teodoro di recarsi dalla Pallade Atena colei che potrà svelargli il perché del suo comportamento nei confronti di Sesto.
Atena quindi mostra a Teodoro il Palazzo dei destini, quel luogo che contiene un’infinità di appartamenti ognuno dei quali rappresenta un mondo possibile. In ciascuno di questi appartamenti/mondo egli ritrova Sesto declinato all’interno di una sempre diversa configurazione di accadimenti e di stati. Man mano che Atena conduce Teodoro verso la punta del Palazzo (che è una piramide di cui non si vede il fondo, ossia che traduce l’affermazione che i mondi possibili sono infiniti) i mondi “diventano sempre più belli”43 sino a che non si giunge all’ultimo appartamento, la punta della piramide, che è il mondo reale – il migliore dei mondi possibili. In questo mondo si può vedere la sciagurata essenza attuale di Sesto; e dice la Pallade Atena: “se Giove avesse messo qui un Sesto felice a Corinto, o re in Tracia, questo mondo non sarebbe più questo mondo. E intanto egli non poteva scegliere questo mondo, che sorpassa in perfezione tutti gli altri, ed è la cima della piramide: altrimenti Giove avrebbe rinunziato alla sua saggezza. Vedi bene che mio padre non ha fatto Sesto cattivo; cattivo egli era da tutta l’eternità, e sempre liberamente non ha fatto che accordargli l’esistenza, che la sua saggezza non poteva negare al mondo in cui egli è compreso: egli l’ha fatto passare dalla regione dei possibili a quella degli esseri attuali.”44
Il senso di questa citazione leibniziana risulta chiaro quando si tiene presente l’argomentazione che abbiamo presa in considerazione nei paragrafi precedenti, e che Gentile traduce in questi termini:
“E la conclusione che interessa pel nostro argomento è, che la conoscenza del reale empiricamente supposto preesistente (realmente o idealmente, è lo stesso) allo spirito, non conosce se non fatti; e quando si atteggia a prescienza, non conosce se non fati che sono fatti: sistemi di realtà interamente realizzati nella loro conoscibilità”45
43 Teoria generale, p. 180. 44 Ibid.
E quindi – riprendendo le fila dell’argomentazione precedente - il futuro profetizzato è tanto quanto il “futuro dell’astronomo”46 un vero e proprio passato, un’ipostasi invalicabile, una determinazione presupposta che è già decisa e che vincola la volontà, lo spirito. Giove sceglie il “migliore dei mondi possibili”, e in questa scelta dimostra la permanenza dell’aporetica cui va incontro la libertà della volontà, sia essa divina che umana. Anche volendo identificare la scelta della volontà umana a quella divina si otterrà sempre la stessa situazione logica che compete alla dimensione dell’astratto: nulla si realizza perché tutto47 è già realizzato, e solo quando un qualche cosa è già realizzato lo si può conoscere e in via definitiva, sceglierlo. Anche quando quel mondo che Giove determina quale migliore dei mondi possibili – la cima della piramide – è messo in atto, codesto mondo non farà altro che mostrarsi come “incapace di sviluppo e incremento”48, proprio perché esso era già prima che Giove stesso lo scegliesse. Se v’è prescienza divina questa renderà impossibile ogni forma di libertà per l’uomo, ma, allo stesso tempo, essa, mantenendo innanzi a sé il presupposto del fatto compiuto e impedendo il libero scaturirsi dell’evento, eliminerà definitivamente ogni singolo residuo della stessa libertà creativa di Dio.
Anche in questo capitolo della Teoria generale dello spirito come atto puro cui fa riferimento l’intera discussione sul tentativo leibniziano, viene proposto il confronto, sempre sulle battute finali dell’argomentazione, con il filosofo di Lipsia. E il luogo speculativo in cui tale confronto avviene non sembra affatto casuale, anzi, esso insiste con forza sulla questione, qui già trattata, della dialettica di condizione e del
condizionato, dialettica che non chiama in causa solo l’incondizionatezza dello spirito
e dell’atto, ma richiama in causa proprio il senso della ragion sufficiente quale condizione logica del darsi del condizionato. L’argomentazione di Valla che non soddisfa un Leibniz tutto intento a conciliare la prescienza divina con la libertà umana, tuttavia precorre involontariamente la critica gentiliana ed esplicita con efficacia la tesi secondo la quale il futuro, sotto le vesti del quale si nasconde un’immutabilità che non concede respiro a nessuna forma di libertà, in quanto contenuto della prescienza, ha la stessa consistenza necessaria del passato.
46 Ivi, p. 181.
47 Un tutto che all’interno del logo astratto è in realtà il concetto. 48 Ivi, p. 182.