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IL NEMICO INTERNO Malati di fantasia

Nel documento Creatività e culture giovanili a Napoli (pagine 37-40)

Tutti i napoletani sono saliti più volte a San Martino, dove il castello, il museo, il panorama della città intera concorrono a formare una sintesi della loro natura e della loro cultura. Entrando nel castello si può leggere con emozione una lapide che il Municipio vi pose nel 1871 e che dice: “Ai popolani di Napoli – che nelle tre oneste giornate di luglio MDXLVII – maceri male armati e soli d’Italia – francamente pugnando nelle vie dalle case – contra le migliori bande d’Europa – tennero da se lontano l’obbrobrio – della inquisizione spagnola – imposta da un imperadore fiammingo e da un papa italiano – e provarono anche una volta – che il servaggio è male volontario di popolo – ed è colpa de’ servi più che de’ padroni”.

Questo i napoletani fecero ieri, cacciando il nemico che veniva dall’esterno. Cosa potrebbero fare oggi, di fronte alla schiacciante supremazia del “nemico interno”, che li prevarica con la violenza dei suoi rifiuti e della sua camorra? E, ancora più interno, il nemico che cresce dentro di loro: il senso di impotenza, di colpa e di ram- marico, lo scuorno, come titola un libro di Francesco Durante, il virus corrosivo e mortificante che li incalza con l’implacabile computo dei loro errori, delle loro complicità, delle loro ingiustificabili pigrizie?

Un sistema è marcio quando dispone di risorse abbon- danti ma non riesce a metabolizzarle. Ieri Napoli non

è riuscita a metabolizzare il proto-industrialismo di Ferdinando II e l’industrialismo di Francesco Saverio Nitti; oggi non riesce a metabolizzare la genialità este- tica dei suoi artisti e la valenza turistica delle sue bel- lezze. Non riesce a produrre ciò che saprebbe vende- re e non riesce a vendere ciò che saprebbe produrre. Persino le sue canzoni, che agli inizi del Novecento subito diventavano best seller mondiali, oggi non rie- scono a varcare i confini nazionali.

La stessa cosa avviene a Teheran, a Bahia o a Caracas perché Napoli non è solo una città specifica ma anche un modello di sottosviluppo, uno dei tanti casi mondia- li di decrescita non pianificata ma subìta.

I napoletani, i campani e i loro intellettuali non sono riusciti neppure a spiegare a se stessi chi sono, dove debbono andare e come. Per decifrare la stravaganza napoletana, non gli è stata di aiuto né la linea della palma teorizzata da Leonardo Sciascia in Sicilia, né il pensiero meridiano teorizzato da Franco Cassano in Puglia. Appena sposano un’idea, si affrettano a la- sciarla con la scusa che non fa figli: così hanno fatto con il cattolicesimo e il marxismo, con il laurismo e il bassolinismo, senza riuscire a spiegare la loro anoma- lia e senza impedire che le loro ideologie degradassero in stereotipi e le loro fedi degradassero in superstizio- ni. I media locali ignorano le idee valide elaborate dai migliori artisti, intellettuali, imprenditori, e si esalta- no di fronte ai piccoli espedienti con cui il sottobosco faccendiero, credendosi intelligente, all’intelligenza antepone la furbizia. Malati di fantasia, i napoletani, i campani e i loro intellettuali non riescono a dare corpo

alle idee con una solida concretezza. Hanno smantella- to acciaierie, porti e raffinerie impiegando più tempo di quanto era stato necessario per costruirle e senza sape- re con che cosa sostituirle. Hanno devastato la reggia di Carditello, hanno bruciato la Città della Scienza”, non hanno bisogno di bruciare o devastare San Leucio perché gli basta lasciarla squallidamente vuota. Sia nel campo dei beni materiali, sia nel campo delle idee, Napoli consuma più di quanto produce. Tutto – compresa la cultura – viene da fuori, dal resto del mon- do: non solo le materie prime che le fabbriche napoleta- ne trasformano, ma anche le tecnologie che usano, i cibi che i cittadini mangiano, i farmaci che ingeriscono, le informazioni che elaborano, gli spettacoli cui assistono. Se, disoccupati, cercano un lavoro; se, professionisti, aspirano a una specializzazione; se, fiduciosi nella loro intelligenza, vogliono metterla a frutto; se, consapevoli dei loro meriti, vogliono fare carriera; se, colpiti da una malattia, hanno bisogno di curarsi; se, desiderosi di se- renità, cercano sicurezza per loro, per i loro figli, per i loro affari: tutto sono costretti a pitoccare altrove, come cittadini del Terzo Mondo, come extra-comunitari della modernità. La loro bilancia dei pagamenti economica, sociale, morale, culturale è scandalosamente passiva. In Campania centinaia di migliaia di studenti, di profes- sori e di professionisti, convivono disinvoltamente con le masse semianalfabete. Una folla sconfinata di intel- lettuali – l’eterna, piccola borghesia intellettuale di cui parlava Salvemini già nel 1911 – continua a tirarsi fur- bescamente fuori dalla storia, delegando la rivoluzione e il cambiamento a chi le sta sopra o a chi le sta sotto: al

ceto politico, carnefice e vittima dell’attuale collasso; o a ciò che essi intellettuali chiamano “plebe”, e che non hanno mai contribuito a trasformare in proletariato.

Infantilismo perpetuo

In un popolo infantile o infantilizzato, chi si scopre adulto se ne scappa. Lo propose anche Eduardo. Così avviene a Napoli e in Campania fin dall’Unificazione del 1860. Ogni anno chi ha studiato meglio degli altri, chi è cresciuto intellettualmente più degli altri, chi ha più coraggio degli altri, sale su un treno e cerca la fortuna altrove, nel Nord o all’estero, alimentando quel darwini- smo alla rovescia che porta alla selezione negativa della specie, alla moneta cattiva che scaccia quella buona. Mentre il sistema economico campano, improntato all’improvvisazione, inclina verso il fallimento, il si- stema psichico dei campani, e dei napoletani in specie, sottomesso all’emotività, inclina verso l’infantilismo. Tutto essi pensano e decidono sotto il capriccioso impulso della ripicca, della camarilla, del dispetto, dell’alleanza fugace, dell’uovo oggi, senza un progetto e una strategia condivisa, in base a una filosofia d’ac- catto che sfacciatamente pretende di sdoganare come inezie veniali o addirittura come virtù i peccati mortali del pressappochismo, dell’imperfezione, dell’incom- piuto, del provvisorio, del tiriamo a campare.

Questo infantilismo protratto si manifesta attraverso la continua ricerca di un capro espiatorio, attraverso il pa- ternalismo e il clientelismo, attraverso una testarda re-

sistenza ai cambiamenti. I napoletani, i campani si rifiu- tano di crescere e, come i Tuareg evocati da Pier Paolo Pasolini, preferiscono morire piuttosto che cambiare. Inchiodati, dopo l’Unificazione, all’economia pre- industriale, sono approdati recentemente alla società postindustriale senza passare attraverso un’esperienza industriale fatta di severa disciplina, di rigida raziona- lità, di culto dell’efficienza, di rispetto della gerarchia e delle competenze. Amputati della modernità, tentano di governare il post-moderno applicando i canoni del pre-moderno. Il risultato è un crescente gap culturale che li allontana dall’Italia, dall’Europa, dal mondo. La mancanza di un’esperienza industriale è causa ed effetto dell’incapacità organizzativa. In teoria i napo- letani scelgono méte eccellenti e strategie originali; in pratica non riescono a organizzare le risorse in modo da trasformare i desideri in progetti e i progetti in ope- re concrete. Così Napoli e la Campania sono diventa- te un grande repertorio, una summa e un estuario di tutte le patologie postindustriali: la sovrappopolazione, il consumismo insostenibile, il disastro ambientale, l’impotenza di fronte alla complessità, la resa di fronte alla criminalità. Molte intelligenze sono lucide e colte: dunque pienamente consapevoli di questo fallimento totale, che le getta in uno stato d’insopportabile pro- strazione, in una sensazione di crisi irreversibile. Il senso di crisi, a sua volta, ha un effetto paralizzante che impedisce di progettare il futuro della città se non in termini velleitari. E quando una società non riesce a progettare il proprio futuro, qualche altro, dall’esterno, gli impone un futuro estraneo e ostile.

Le strade invase dall’immondizia sono la rappresen- tazione plastica di questo capolavoro disorganizzato dove l’inestricabile circolarità delle colpe impedisce di trovare il bandolo della matassa.

A modo suo, in Campania l’unica organizzazione pro- fessionale e meritocratica – dunque efficiente – resta la camorra di cui già parlava Jessie White Mario, fatta sì da “bestioni antiqui tutto stupore e ferocia”, come direbbe Vico, ma da bestioni comunque capaci di unire una triviale produttività con una tentacolare globaliz- zazione, organizzati militarmente in branchi implaca- bili sia verso l’interno che verso l’esterno, fedeli a po- chissime regole istintuali, che ammettono l’omicidio. Ce li descrivono spietatamente, coraggiosamente i film di Garrone e Sorrentino, i libri di Barbagallo e Saviano. Fuori dal mondo criminale, soprattutto per il disfattismo di una burocrazia lenta e capziosa, è molto più facile im- pedire che realizzare, sicché qualsiasi impresa richiede sforzi così sovrumani da indurre alla resa prima ancora che essa sia compiuta. L’organizzazione di un cantiere, di una scuola, di un evento, in Campania richiede una fatica dieci volte maggiore che nel Nord. Perciò dieci volte maggiori sono le probabilità di rinunzia o di falli- mento. Ne è esempio la lunga corona di ricorsi, cause, sotterfugi con cui una parte di intellettuali e di politici campani, accecati dalla superbia e dalla paura del nuo- vo, seguiti da un gregge di elettori trascinati nell’igno- ranza, ha esercitato la propria intelligenza distorta sul tentativo di impedire la realizzazione dell’Auditorium progettato per Ravello da Oscar Niemeyer.

loro patrimonio storico e naturale, nonostante la loro posizione nel Mediterraneo, hanno un reddito pari alla metà di quello piemontese o lombardo e si offrono al mondo intero come un aggregato disarmonico, una spi- rale avvitata su se stessa, un corpo sociale sopraffatto dalle cellule cancerogene della criminalità e della di- sorganizzazione, un luogo scellerato dove i criminali seminano materiali velenosi in quelle stesse terre dove crescono essi stessi e i loro figli.

In Brasile si dice che a Bahia la gente non nasce: debut- ta. La stessa cosa si potrebbe dire dei napoletani e dei campani: quando vengono al mondo, salgono in palco- scenico e recitano la loro parte. Ma, prima o poi, dovran- no affrontare il test della dura realtà perché il loro sforzo per trasformare la miseria in risorsa e la vita in teatro non ha mai sortito i godibili effetti descritti da Goethe. Napoli è amabile come Bahia e come tutte le grandi città del mondo dove la società pre-industriale non ha ceduto il passo a quella industriale e ora rischia di per- dere anche le occasioni di quella postindustriale. Il sot- tosviluppo non è un’impresa semplice, ma quando rie- sce alla perfezione, come sta avvenendo in Campania, poi resta in perenne agguato tra le pieghe dell’apparen- te modernizzazione.

Anche l’amore più sviscerato per questa regione bella e sventurata, non può eludere il monito con cui Albert Camus conclude il suo capolavoro, avvertendo “che il bacillo della peste non muore né scompare mai… e che forse potrebbe venire giorno in cui, sventura e inse- gnamento agli uomini, la peste sveglierà nuovamente i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice”.

LO SCENARIO ATTUALE

Nel documento Creatività e culture giovanili a Napoli (pagine 37-40)