• Non ci sono risultati.

Nonostante le teorie poc’anzi illustrate abbiano rappresentato un importante spunto di riflessione per una compiuta trattazione del consenso informato, in realtà, la mancanza

dell’assenso del paziente al trattamento proposto ha avuto rilevanza soltanto nei casi in cui

era ravvisabile una condotta gravemente colposa del medico, dalla quale derivava altresì una

considerevole lesione a danno del paziente. Inoltre, ad impedire l’instaurarsi di un

conten-zioso significativo tra i medici e i loro assistiti, contribuivano l’ancora vigente convinzione

37 Così, GRISPIGNI, La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico «arbitrario», in La scuola positiva, 1914, 684. Come noto, Filippo Grispigni (Viterbo 1884 - Roma 1955), fu professore ordinario di diritto pena-le presso numerose università italiane; inoltre, ricoprì il ruolo di Segretario generapena-le della commissione che preparò il progetto del codice penale Ferri, nel quale era stato inserito un titolo di reato concernente l’arbitrario trattamento medico. Fu tra i dirigenti della Scuola Positiva criminologica italiana.

dell’intoccabilità del terapeuta, nonché difficoltà di ordine processuale, poiché il

danneggia-to, non solo doveva dimostrare di non avere prestato il proprio consenso, ma doveva

addi-rittura fornire la prova del fatto che, qualora gli fosse stato esplicitamente richiesto, avrebbe

senza dubbio rifiutato di sottoporsi al trattamento propostogli. Il requisito del consenso,

pur essendo ritenuto in astratto imprescindibile, nella pratica clinica era spesso presunto o

considerato implicito nella stessa richiesta di cura e, ad ogni modo, riservato alla sfera della

deontologia professionale: infatti, sino a pochi decenni fa, non era dato riscontrare

prece-denti giurisprudenziali nei quali il tema del consenso venisse trattato in maniera autonoma

al fine di legittimare l’irrogazione di sanzioni a carico del medico che avesse agito in modo

arbitrario

39

. Ciononostante, non può non rilevarsi come anche in Italia, al pari che negli

Sta-ti UniSta-ti, il contributo più efficace all’introduzione e all’affermazione del consenso informato

nella prassi della medicina moderna è stato dato proprio dall’opera della giurisprudenza. In

particolare, fra le prime (sporadiche) pronunce che hanno affrontato la questione, se ne

se-gnalano due emanate dalla III sezione civile della Corte di Cassazione nel 1967 e nel 1968.

Nella prima, la n. 1950 del 25 luglio 1967, il Supremo Collegio ha proclamato che, tranne

nel caso di situazioni estreme nelle quali l’intervento del sanitario, qualunque possa esserne

l’esito, si palesi necessario ed urgente e il paziente non si trovi neppure in grado di

esprime-re una volontà (cosciente) favoesprime-revole o contraria, il medico, il quale intenda eseguiesprime-re sul

corpo del malato un intervento rischioso, tale da porne in serio pericolo la vita o

l’incolumità fisica, ha il dovere professionale di renderlo di ciò edotto, affinché questi possa

validamente, cioè consapevolmente, prestare consenso al trattamento prospettatogli

40

.

Ap-pare evidente come la Suprema Corte non abbia voluto formulare un principio generale

circa la necessarietà del consenso all’intervento sanitario; ma, al contrario, sembra che la

stessa abbia voluto limitarne l’ambito di operatività. Infatti, dopo avere ritenuto superflua la

prestazione del consenso nei casi di necessità ed urgenza, poiché in tali circostanze

l’intervento del medico, indipendentemente dall’esito, è reso obbligatorio dalla norma che

39 MONTI, op. cit., 215.

40 Cass. civ., sez. III, 25.7.1967, n. 1950, in Giust. civ., 1967, I, 1772. Nel caso di specie, è stata accertata la responsabilità di un istituto ospedaliero, il cui sanitario aveva eseguito, per accertamento diagnostico, senza il previo consenso del paziente, un’angiografia cerebrale, dalla quale era residuata al paziente la totale cecità dell’occhio sinistro. Nello stesso senso, Cass. civ., sez. III, 18.6.1975, n. 2439, in Giust. civ., 1975, I, 1389.

punisce l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), la Cassazione sostiene che l’assenso del

ma-lato è effettivamente necessario esclusivamente nelle ipotesi di intervento rischioso per la

vita o per l’incolumità fisica dell’assistito, lasciando peraltro alla volontà del paziente uno

spazio decisamente ridotto per potersi esprimere

41

. In una pronuncia di poco successiva, la

n. 3906 del 6 dicembre 1968, la Suprema Corte afferma che, con riferimento alla tutela della

personalità umana predisposta dall’art. 5 cod. civ., anche il trattamento medico chirurgico,

sebbene diretto al miglioramento fisico del paziente, postula la necessità del consenso di

costui. Tale consenso, per avere rilevanza giuridica, deve non solo essere prestato

dall’“avente diritto” - ove questi ne abbia la capacità giuridica e sia in grado di fornirlo per

le sue condizioni di salute - ma deve altresì estrinsecarsi nei confronti del sanitario

attraver-so una manifestazione di volontà. Tuttavia, la relativa dichiarazione, non essendo

condizio-nata ad un determinato requisito di forma, può essere espressa o anche soltanto tacita, cioè

posta in essere mediante un comportamento del paziente che riveli, in maniera precisa e

inequivocabile, il suo proposito di sottoporsi all’atto operatorio. Ne consegue che, in

rela-zione ad ogni singolo caso concreto, l’accertamento della prestarela-zione del consenso è una

«quaestio voluntatis che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito»

42

. Sembrerebbe

che i Giudici della Cassazione considerino il consenso essenzialmente implicito nella

richie-sta stessa di cure, sulla base di una valutazione complessiva del comportamento del singolo

paziente riservata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Per quanto concerne la

delicata questione dell’ambito di operatività del consenso informato, nonché del dovere

d’informazione, la Suprema Corte rileva che il dovere del medico di rendere edotto il

pro-prio assistito dell’effettiva natura della malattia e dei pericoli che l’operazione comporta è

necessariamente correlato al diritto del malato di conoscere la verità circa le sue condizioni

41 Come osserva MONTI, op. cit., 216, poiché veniva affidato alla deontologia medica ogni controllo rela-tivo alla reale osservanza del dovere di informare il paziente, le principali garanzie per la sua effettiva applica-zione risiedevano nella sola coscienza del medico, rimanendo pertanto estranee a qualsiasi sindacato dell’assistito e costituendo, di conseguenza, una forma di tutela del tutto insufficiente. Invero, pare difficile ipotizzare che, su queste basi, il consenso al trattamento sanitario potesse effettivamente essere inteso come obbligo giuridico per il medico e come correlato diritto soggettivo del paziente.

42 Cass. civ., sez. III, 6.12.1968, n. 3906, in Resp. civ. e prev., 1970, 389. Nel caso di specie, la ricorrente la-mentava, oltre che la mancata richiesta di un suo esplicito consenso, anche l’omessa informazione, da parte del sanitario, dell’effettiva entità della malattia e delle possibili conseguenze dannose collegate ad un eventuale insuccesso del trattamento chirurgico.

di salute, per cui il consenso prestato senza siffatti chiarimenti risulterebbe viziato. Tuttavia,

la stessa Corte osserva che l’obbligo anzidetto, non sanzionato da alcuna norma di legge,

deve attingere le sue direttive dai principi deontologici, poiché si tratta di una materia

estremamente delicata, nella quale l’opportunità di rivelare al paziente la verità sul proprio

stato patologico e di informarlo diffusamente delle modalità del trattamento è rimessa alla

valutazione discrezionale del sanitario, il quale adeguerà il proprio comportamento alla

na-tura e all’urgenza dell’intervento, alle condizioni psichiche del paziente, al suo grado di

cul-tura e ad ogni altro “fattore suggerito dalle circostanze”. Alla luce di siffatte considerazioni,

il Supremo Collegio si limita ad affermare che non è possibile fissare a priori delle regole che

siano valide «sempre ed in ogni caso, ben potendo essere talora sufficiente una vaga e

gene-rica spiegazione dell’intervento operatorio, specie quando si presenta come un estremo

ri-medio ad un male non altrimenti curabile»

43

.

43 Cass. civ., sez. III, 6.12.1968, n. 3906, cit.

Nello stesso arco temporale, sui limiti del consenso del paziente all’intervento chirurgico, si vedano inoltre Cass. civ., sez. III, 18.4.1966, n. 972, in Resp. civ. e prev., 1966, 228, nella quale si afferma che per interventi chi-rurgici implicanti l’impiego di normali mezzi di struttura, come il catgutt, non è necessario richiedere all’assistito uno specifico assenso oltre a quello implicito nel fatto stesso di sottoporsi all’operazione (nel caso di specie, quattro persone, sottoposte in un medesimo giorno nello stesso ospedale ad operazione di appendi-cectomia, dopo qualche giorno erano decedute per sopraggiunta infezione tetanica dovuta alla presenza di spore catgutt impiegato nella sutura delle ferite operatorie). Nella motivazione di Cass. civ., sez. un., 9.3.1965, n. 375, in Resp. civ. e prev., 1965, 249, si legge che il fatto che i giudici di merito abbiano accertato, sia pure in base ad elementi presuntivi, la prestazione del consenso, da parte di chi, nella specie, era legittimato a darlo (cioè da parte della madre di un paziente psichicamente incapace), e che abbiano escluso ogni elemento di colpa, sia nell’elezione del sistema terapeutico, sia nella concreta applicazione di esso, rende superflua ogni discussione circa la necessità del consenso, in relazione alla natura della cura adottata, la quale implicherebbe, secondo il ricorrente, notevoli rischi e la soluzione di problemi di particolare difficoltà. Altrettanto interessan-ti sono le considerazioni formulate in App. Milano, 16.10.1964, in Foro it., 1965, I, 1083, nella quale si procla-ma che «per sottoporre ad intervento chirurgico un soggetto che non sia legalmente o naturalmente incapace è necessario che questi vi consenta, ma, se in casi particolarmente gravi il medico ritenga opportuno tacere al paziente la gravità della situazione, sono sufficienti il consenso dei familiari del malato e la non opposizione di quest’ultimo» (in particolare, la Corte sostiene che il concetto affermato dal tribunale secondo cui il chirurgo avrebbe dovuto spiegare alla paziente che essa era in pericolo di vita, che sulla sua malattia pendevano sospet-ti di cancro e che l’operazione avrebbe potuto pregiudicare le sue funzioni sfinteriche, attendendo che fosse lei a decidere di correre quel rischio, oppure di lasciarsi morire, è contrario alla consuetudine ed alla ragione-volezza). In Trib. Milano, 17.4.1961, in Rep. Foro it., 1961, voce «Professioni intellettuali», nn. 58-62, si legge che il consenso necessario e sufficiente a rendere lecita l’attività del sanitario in ordine alle cure ed agli inter-venti da lui praticati è solo quello del paziente, quando questo sia maggiorenne, non interdetto e neppure in stato di temporanea incapacità naturale. Inoltre, nel caso di interventi chirurgici di particolare gravità,

spe-Al giorno d’oggi, una serie di fattori, quali la risposta concreta data dalla

giurispru-denza a questioni prima esclusivamente teorizzate, la c.d. demitizzazione della figura del

te-rapeuta, la valorizzazione e la crescente consapevolezza del “diritto alla salute”, ha

compor-tato una conflittualità sempre più accentuata tra medici e pazienti. In questo mucompor-tato

conte-sto il consenso informato occupa ormai un ruolo di primo piano: infatti, nell’attuale ottica

giurisprudenziale, la mancanza assoluta di assenso al trattamento sanitario giustifica

l’irrogazione di sanzioni a carico del medico che abbia agito in modo arbitrario,

indipen-dentemente dall’esito del suo intervento

44

. Infatti, nella pratica della medicina moderna non

cialmente se la necessità od opportunità di un determinato intervento chirurgico venga a concretarsi in epoca successiva alla stipulazione del contratto di cura, a seguito di una laboriosa indagine diagnostica, occorre la manifestazione di un nuovo consenso del paziente alla sottoposizione all’intervento chirurgico. Infine, si se-gnalano due precedenti risalenti agli anni Trenta: Pret. Savigliano, 13.6.1934, in Rep. Foro it., 1934, voce «Re-sponsabilità civile», nn. 114-115, e App. Milano, 18.4.1939, in Rep. Foro it., 1939, voce «Re«Re-sponsabilità civile», nn. 143-145, ove si afferma che il medico deve ottenere il consenso del paziente prima di iniziare ogni cura ed operazione: tale consenso normalmente è implicito nella richiesta dell’opera del sanitario, e questi è tenuto ad avvertire specificatamente il paziente di tutti i pericoli inerenti ad un trattamento terapeutico «e non può pro-cedervi senza un consenso esplicito e speciale solo quando tale cura od operazione importa il massimo di probabilità di morte».

44 Fra i primi contributi dottrinali che hanno affrontato la questione del consenso del malato al trattamen-to sanitario, intrattamen-torno alla metà del secolo scorso, si segnalano INTRONA, La responsabilità professionale

nell’esercizio delle arti sanitarie, Padova, 1955, 24 ss.; CATTANEO, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1957, 949 ss.; GUARINO, Il silenzio del medico, in Dir. e giur., 1957, 421 s., il

quale sostiene che «Vi sono casi, infatti, in cui il silenzio del medico nei riguardi dell’ammalato non solo è leci-to, ma è doveroso: doveroso perchè funzionale, perchè fa parte della cura […]. Ebbene, dal punto di vista strettamente giuridico […], io, personalmente, ritengo che il medico non possa celare all’ammalato la natura inguaribile del suo male, non possa celargli cioè la diagnosi e la prognosi: se tacesse, verserebbe in colpa per-chè non adempirebbe con la dovuta diligenza l’obbligazione assunta verso il malato, e verso lui soltanto, di curarlo. E aggiungo che il medico non soltanto manca del diritto di tacere, ma manca anche del diritto di ri-mettersi alle decisioni dei familiari del degente. Egli deve recarsi al letto del suo paziente e, ahimè, parlare». Si veda inoltre DE CUPIS, I diritti della personalità, nel Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messi-neo, IV, t. 1, Milano, 1959, 108 ss., il quale osserva che il consenso all’operazione chirurgica rientra nella ge-nerale figura del consenso dell’avente diritto, nella quale è riscontrabile l’atto dispositivo previsto e regolato dall’art. 5 cod. civ.: se trattasi di operazione chirurgica da cui non deriva una diminuzione permanente dell’integrità fisica, non si frappone nessun ostacolo alla validità del consenso, e quindi si può disporre effica-cemente della propria integrità fisica, consentendo all’operazione. Quando invece si tratta di un’operazione chirurgica capace di produrre una diminuzione permanente dell’integrità fisica (ipotesi tutt’altro che infre-quente), il semplice consenso del paziente non basta a determinare la liceità della stessa operazione: allora, tale consenso, rientra tra gli atti di disposizione del proprio corpo vietati dall’art. 5 cod. civ. ed è quindi invalido. Il medesimo argomento viene affrontato anche da PESANTE, voce «Corpo umano (Atti di disposizione)», in

sanita-è più possibile che il sanitario possa adottare autonomamente iniziative terapeutiche