• Non ci sono risultati.

Una “normale” procedura di guerra: la centralità del momento resistenziale e la

I. Il contesto storiografico: avvio e sviluppo di una storiografia ai margini

2. Una “normale” procedura di guerra: la centralità del momento resistenziale e la

Oltre che nel complesso e articolato sviluppo della memoria e dello studio del fascismo, le cause del ritardo storiografico che ha caratterizzato lo studio dell’internamento civile durante la Seconda guerra mondiale, possono essere individuate anche nel peculiare indirizzo assunto dalle tendenze storiografiche nel particolare clima politico e culturale del dopoguerra, quando lo sviluppo di quella che Vittorio Vidotto ha definito «storiografia delle appartenenze» , in cui 169

storici militanti si sono dedicati alla storia dei rispettivi partiti e, almeno fino agli anni Sessanta, l’identità ideologica ha determinato precisi percorsi di militanza storiografica legati al protagonismo dei partiti e al loro ruolo nel processo di trasformazione democratica del paese, ha fatto sì che la storiografia contemporanea in Italia per molto tempo si sia occupata della guerra solo marginalmente.

Come hanno sottolineato Maria Teresa Giusti ed Elena Aga Rossi, in un panorama storiografico che tendeva a sminuire il peso del fascismo nella società italiana e a negare il consenso che lo aveva sostenuto, la partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale è stata a lungo considerata niente più che il tragico epilogo del fascismo, una storia “altra” rispetto alla storia

Winterhalter, Raccontare e inventare. Storia, memoria e trasmissione storica delle Resistenza armata in Italia,

168

cit., pp. 293-298. Ci si limita qui a citare e segnalare a titolo di esempio, gli episodi recenti di manipolazione e falsificazione del materiale fotografico che testimonia i crimini di guerra fascisti e nazisti in Jugoslavia spacciato ripetutamente e insistentemente – in particolare durante le commemorazioni del Giorno del ricordo – come documentazione riguardante le vittime delle foibe. Un esempio significativo è l’immagine che ritrae uno scheletrito internato sloveno nel campo di concentramento italiano di Arbe che si può vedere in copertina del libro Lager Italiani di Alessandra Kersevan o ne I campi del duce di Carlo Spartaco Capogreco – già erroneamente identificata come immagine di un internato ad Auschwitz –, associato nel 2008 a una manifestazione viterbese per la commemorazione dei martiri delle foibe. Un altro esempio altrettanto eloquente è l’immagine della fucilazione di cinque ostaggi civili sloveni nei pressi del villaggio di Dane il 31 luglio 1942 da parte delle truppe italiane, pubblicata nel 1946 a Lubiana in un libro sull’occupazione italiana della provincia di Lubiana di Giuseppe Piemontese e negli ultimi anni spacciata ripetutamente, anche nella puntata del 13 febbraio 2012 del programma televisivo “Porta a porta” condotto da Bruno Vespa, come l’immagine della fucilazione di cinque italiani da parte dei partigiani titini. Sulla questione si faccia riferimento a P. Purini, Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe, in «Giap», 11 marzo 2015, all’indirizzo [http:// www.wumingfoundation.com/giap/?p=20649] e in particolare sulla prima foto si veda Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), cit., p. 7 e immagine n. 12, sulla seconda immagine si vedano G. Piemontese, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti, Lubiana 1946, M. Smargiassi, Non dire falsa testimonianza, in [http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ 2012/03/23/non-dire-falsa-testimonianza/] e Sul web fioccano le bufale, in «l’Espresso», 12 marzo 2015, p. 129.

Vidotto, Guida allo studio della storia contemporanea, cit., pp. 18-19.

italiana, un’epoca sulla quale si preferiva non indagare e soprattutto uno iato tra la storia dell’antifascismo e quella della Resistenza di cui si voleva affermare invece la forte continuità, dando profondità al movimento resistenziale e ipotizzando una sua lontana incubazione che in realtà nulla ha aggiunto alla sua importanza storica cruciale : «così è stato possibile scrivere 170

una storia d’Italia in cui si passava direttamente dalla storia dell’opposizione al fascismo nel ventennio alla storia della resistenza» . 171

Si tratta a giudizio di Giorgio Rochat di un disinteresse persistente quello nei confronti della guerra dell’Italia fascista, che si è protratto fino ai nostri giorni – e, sostiene, dovuto ormai, più che a ragioni politiche, a un ritardo culturale che vede la storiografia italiana poco interessata a guerre ed eserciti, relegati ai margini anche delle storie del regime fascista più aggiornate – e che solo di recente ha cominciato a segnalare un’inversione di tendenza . 172

A questo riguardo, in un saggio dedicato al rapporto tra memoria e storia per il caso specifico della deportazione, Anna Rossi Doria, nel paragrafo dal titolo eloquente La latitanza degli

storici, ha elaborato una riflessione che, pur focalizzata sull’esperienza della deportazione nei

lager, è per molti aspetti applicabile all’intera categoria dell’internamento, anche quello non connesso con la deportazione . 173

Denunciando il fatto che pochissimi tra i maggiori storici italiani dell’età contemporanea si sono interessati di deportazione e internamento, Rossi Doria ha sottolineato come la storiografia contemporanea in Italia sia stata per lungo tempo esclusivamente politica e marcatamente

Si veda Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le

170

origini dell'Italia contemporanea, cit., pp. 741-743.

M.T. Giusti, E. Aga Rossi, Le vicende dei militari italiani nei balcani nel periodo 1943-195 tra memoria e

171

rimozione, in P. Craveri, G. Quagliariello, La seconda guerra mondiale e la sua memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 105. Si veda inoltre M.T. Giusti, E. Aga Rossi, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, il Mulino, Bologna 2011.

Si veda G. Rochat, La guerra di Mussolini 1940-43, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal

172

Risorgimento ai nostri giorni, vol. IV, tomo 2, Il Ventennio fascista: la seconda guerra mondiale, a cura di M. Isnenghi e G. Albanese, UTET, Torino 2008, p. 49. Per un punto sullo stato degli studi si faccia riferimento a G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005, dove l’autore sintetizza così il suo giudizio sulla storiografia dedicata alle guerre dell’Italia fascista: «queste guerre sono state in gran parte dimenticate. Per molti decenni dopo il 1945 sono stati rimossi gli aspetti peggiori del regime e quelli più imbarazzanti, come l’Impero e le sconfitte del 1940-1943. Una volta gli agiografi di Mussolini lo esaltavano come un grande statista fino al 1939, oggi il termine è stato riportato alle leggi antisemite del 1938, come se la guerra mondiale fosse una sciagura sostanzialmente estranea alla politica mussoliniana, di cui il regime rimane vittima, tanto che la disastrosa sconfitta militare non sembra infirmare il bilancio positivo dei quasi vent'anni precedenti. Il successivo sviluppo degli studi sul fascismo, di critica articolata come di parziale ricupero (fino al superficiale “revisionismo” mediatico degli ultimi anni), non si è esteso alle sue guerre, salvo che per la ricostruzione parziale delle operazioni. Il quadro internazionale è stato studiato adeguatamente, gran parte del resto è stato dimenticato, tra le decisioni di Hitler e Mussolini e la condotta delle operazioni è rimasto da colmare un vuoto». Ibidem, pp. XIII- XIV.

A. Rossi Doria, Memoria e storia. Il caso della deportazione, prefazione di P. Jedlowski, Rubbettino, Soveria

173

politicizzata; in questo contesto i deportati che avevano «anzitutto il torto di non rientrare in nessuno schieramento politico, se non per esserne qualche volta strumentalizzati» risentirono 174

di un clima di indifferenza e diffidenza nei confronti di sopravvissuti e reduci che furono marginalizzati e silenziati con il contentino di blande formule assistenziali, fatta eccezione, in un primo momento per i reduci di Russia, inizialmente strumentalizzati in funzione anticomunista e poi dimenticati come tutti gli altri . 175

In una storia incentrata sul fenomeno resistenziale, trovava posto solo chi aveva combattuto, non certo gli internati e i deportati che, estranei alla battaglia, sfuggono alla logica della contrapposizione armata tra due blocchi monolitici fascismo-antifascismo e non trovano collocazione né tra i vincitori né tra i vinti, sfuggendo ai tentativi di comprensione per semplificazione che riducono la complessità a schematici dualismi di elementi contrapposti. Questo discorso vale soprattutto per i deportati politici e militari, a partire da quanti hanno rifiutato l’arruolamento nelle file della Rsi , che hanno visto il proprio ruolo offuscato dalla 176

figura del partigiano, nonostante avrebbero potuto rivendicare il carattere propriamente resistenziale delle proprie esperienze, intese come momenti di “resistenza civile” sulla categoria elaborata da Jacques Sémelin e introdotta nel dibattito storiografico sulla resistenza in Italia, – insieme ad altri innovativi concetti come quello di maternage di massa – da Anna Bravo che ha “complicato” la definizione di resistente, estendendone i confini oltre la netta e semplicistica separazione combattente-non combattente . 177

Ibidem, p. 58.

174

In proposito si vedano G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, in N. Della Santa (a cura di), I

175

militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e 15 novembre 1985 dall’Associazione nazionale ex internati, Giunti, Firenze 1986 e C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il sud. 1943-1945, prefazione di G. Quazza, introduzione di E. Forcella, FrancoAngeli, Milano 1985, pp. 89-106.

Per i reduci dell'esercito, l’esperienza di IMI fu inizialmente vissuta come un’umiliazione e la scelta fu a lungo

176

guardata con diffidenza anche dall’esercito; solo nell'ultimo trentennio ha cominciato a essere rivendicata con onore e riconosciuta appieno come scelta di resistenza. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, cit., pp. 450-451.

Si faccia riferimento a J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La resistenza civile in Europa. 1939-1943,

177

traduzione di C. Vuadens, Sonda, Torino 1993, (edizione originale, Sans armes face à Hitler. La résistance civile en Europe. 1939-1943, Payot, Paris 1989) e A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 2000 (1ª edizione, 1995). Si vedano inoltre A. Bravo, La Resistenza civile, in R. Guerri (a cura di), La Resistenza in Europa. Le radici di una coscienza comune, Skira, Milano 2005, pp. 9-13, A. Bravo, La Resistenza civile, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I. Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 268-282, A. Bravo, Resistenza civile, resistenza delle donne, in «Storia e problemi contemporanei», n. 24, 1999, pp. 130-144, M. De Keizer, La “resistenza civile”. Note su donne e seconda guerra mondiale, in «Italia contemporanea», n. 200, 1995, pp. 469-476, A. Bravo, La resistenza civile, in L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996 pp. 144-162, A. Bravo, La resistenza civile fra storia e memoria, in A.L. Carlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, prefazione di F. Della Peruta, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 283-301, A. Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991.

Lo stesso discorso vale a maggior ragione per gli internati pericolosi nelle contingenze belliche: massa eterogenea all’interno della quale le motivazioni dell'internamento sono sfumate, le categorie si sovrappongono e l’antifascismo si mescola alle diverse gradazioni di ribellismo e di emarginazione, nell’ampio ventaglio di fattispecie che il fascismo considerava pericolose nello stato di guerra.

Prendendo a prestito le parole di Brecht, messe in bocca al suo Galileo, l’Italia «sventurata» che aveva conosciuto il fascismo aveva «bisogno di eroi» e la ricerca storica si indirizzò quindi 178

inizialmente verso l’esaltazione dei “benemeriti”, ansiosa di separare e distinguere i “politici”, cui soli dedicare studi e ricerche, dalla massa di quanti erano finiti nelle maglie del sistema repressivo fascista per motivi meno nobili, così secondo il giudizio di Umberto Terracini – primo presidente dell’Anppia, arrestato nel 1926 e tornato in libertà solo nel 1943 – la ricostruzione di Ghini e Dal Pont dedicata al confino fascista doveva costituire un «albo d’onore […]; un albo di benemeriti della nostra democrazia repubblicana» ; analogamente Simonetta Carolini 179

affrontando la classificazione degli internati e il complesso lavoro di stralciatura realizzato per individuare i fascicoli degli internati strettamente politici da includere nel suo lavoro di analisi, parlò dei confinati trattenuti in internamento a fine pena come di «categoria della gloria, i cui componenti fanno parte dell’albo d’oro dell’antifascismo, con intere esistenze votate alla lotta per la libertà» . 180

Queste valutazioni dettate dall’esigenza di ricostruire le vicende di quanti si erano fieramente e meritoriamente opposti al fascismo ed erano stati per questo puniti dal regime, hanno indirizzato i lavori di ricerca verso scremature e distinguo che hanno contribuito a ritardare un’analisi del fenomeno nella sua complessità, tralasciando ampie categorie di internati.

Alla centralità del momento resistenziale si lega un altro significativo fattore di ritardo nello sviluppo degli studi e dell’interesse nei confronti dell’internamento e, per quanto riguarda in particolare i campi gestiti dal ministero dell’Interno, può essere individuato nella confusione che per lungo tempo ha impedito di distinguere chiaramente le differenze tra la pratica dell’internamento dei cittadini pericolosi nelle contingenze belliche e quella del confino di

«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». B. Brecht, Vita di Galileo, traduzione di E. Castellani, in Id., I

178

capolavori. Vol. II, Enaudi, Torino 2007 (ed. originale, Leben des Galilei, Suhrkamp Verlag, Berlin 1955), pp. 104-105.

U. Terracini, Prefazione, in C. Ghini, A. Dal Pont, Antifascisti al confino. 1926-1943, Editori Riuniti, Roma

179

1971.

S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”. Gli internati dal 1940 al 1943, introduzione di A.

180

Bonelli, prefazione di M. Venanzi, Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, Roma 1987, p. 18.

polizia che traeva origine dalla più nota, antica e consolidata pratica del domicilio coatto di età liberale, consistendo sostanzialmente nell’estensione anche agli oppositori politici di una misura prima prevalentemente «destinata a un’area di emarginazione sociale oscillante tra la delinquenza comune e il ribellismo generico» . Il carattere più marcatamente “politico” di un 181

provvedimento che colpiva antifascisti e oppositori, ha attirato l’attenzione della ricerca e così la memoria delle colonie di confino ha dunque fagocitato quella delle strutture e delle località di internamento, attive del resto per periodi di tempo più brevi e, in alcuni casi, sorte negli stessi luoghi che assolsero nel tempo le due funzioni, come Lipari o Ponza, oppure in strutture prima adibite al ruolo di campi per prigionieri di guerra gestiti dall’Esercito e poi, in particolare dopo l’armistizio, riconvertite all’uso civile.

Questo processo di stratificazione e la rapida riconversione delle strutture – più o meno piccole, disseminate per i luoghi più remoti della penisola e ricavate sfruttando per lo più strutture già esistenti, quindi già ben integrate nei propri contesti geografici e urbanistici; una costruzione ad

hoc avrebbe costituito forse una frattura più evidente e lasciato un segno più duraturo – alla fine

del conflitto, non hanno peraltro consentito una loro corretta sedimentazione e identificazione come “luoghi della memoria” , cosicché le vicende di quegli edifici sono state rapidamente 182

dimenticate e “sovrascritte” da nuove destinazioni d’uso , cancellando rapidamente le tracce 183

del passato nell’ovvia necessità della ricostruzione . 184

Chi le mura dei campi le aveva viste da dentro ne conservava certamente un ricordo più vivido ma, nella maggior parte dei casi, chi vi era stato internato vi aveva trascorso brevi periodi di tempo e, proprio per il principio dell’allontanamento dal milieu d’origine, veniva da lontano, molti erano stranieri e, non avendo alcun legame con quei luoghi, alla fine della guerra se ne

L. Musci, Il confino fascista di polizia. L’apparato statale di fronte al dissenso politico e sociale, in A. Dal Pont,

181

S. Carolini, L’Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, vol. I, La Pietra, Milano 1983, pp. XXI-XXII, cit. in Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), cit., p. 15.

Per la Toscana Valeria Galimi ha rilevato nel 2001 come «nessuno di questi edifici è oggi un luogo della

182

memoria: non vi è nessuna lapide o cippo che ne descriva l’uso che è stato fatto durante la guerra», in V. Galimi, I campi di concentramento in toscana fra storia e memoria, in Di Sante, I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), cit., p. 227.

Si veda ad esempio il caso del campo di Fossoli, per il quale si rimanda a C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il

183

Campo di Fossoli e i «centri raccolta profughi» in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011, o il caso pugliese in V.A. Leuzzi, Usi e riusi: campi profughi in Puglia nel secondo dopoguerra, in E. Gobetti (a cura di), 1943-1945. La lunga liberazione, atti del convegno “1943-1945. La lunga liberazione. L’Italia nel contesto internazionale” (Torino, 12-13 maggio 2005), FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 257-263.

Si veda il resoconto di viaggio di Fabio Galluccio tra i luoghi di internamento, concentramento e deportazione

184

italiani in F. Galluccio, I lager in Italia. La memoria sepolta nei duecento luoghi della deportazione fascisti, seconda edizione aggiornata, prefazione di C.S. Capogreco, Nonluoghi, Civezzano 2003, (1ª edizione, 2002) e si confronti con Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), cit., pp. 10-11.

sono allontanati, portando con sé le proprie testimonianze. Chi invece vi era entrato perché coinvolto nella struttura gestionale o di vigilanza o ancora degli appalti e dei servizi legati ai campi ed era certamente più integrato nelle comunità locali non aveva certo alcun interesse a raccontarlo in giro e a farsi custode della memoria di quelle strutture . 185

Il resto lo hanno fatto il tempo, l’incuria o la cattiva gestione: molte strutture sono state abbandonate e lasciate in balia degli eventi a un lento logorio, altre rase al suolo e ricostruite, in alcuni casi anche in tempi molto recenti, come è avvenuto al campo di Senigallia . 186

I danni, spesso irreparabili, così inferti hanno fatto sì che la maggior parte di queste strutture si sia dovuta ascrivere al lungo elenco dei «non-luoghi della memoria» , salvo i rari casi in cui 187

l’impegno tenace di attori quali la Fondazione Ferramonti o l’Associazione Amici del Museo Monumento al Deportato, poi Fondazione Fossoli, è riuscito a vincere la pubblica indifferenza e a imporre la salvaguardia e la valorizzazione di ciò che resta di quei luoghi.

Inoltre, a differenza del confino, oggetto di copiosa produzione giurisprudenziale, lo stesso quadro normativo che ha regolato l’internamento è a lungo sfuggito ai tentativi di ricostruzione in quanto le sue disposizioni furono affidate a una miriade di note e circolari ministeriali – in assenza di una normativa codificata se non nelle sue linee generali e quindi prevalentemente legate all’internamento dei cittadini nemici nello stato di guerra – sfuggendo così ai radar della ricerca storica camuffato da normale e inevitabile procedura bellica . 188

J. Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del paese, traduzione di N.

185

Stabilini, Rizzoli, Milano 2009, (edizione originale, Italy’s divided memory, Palgrave MacMillan, New York 2009), p. 201.

Quanto al campo di Senigallia, alla fine del 2009, dopo accese proteste e pubblici dibattiti, l’edificio dell’ex

186

colonia marina dove sorgeva il campo provinciale di Senigallia è stato abbattuto per fare posto a un polo turistico- residenziale in nome della valorizzazione del lungomare di Levante con il nullaosta della Sovrintendenza per i Beni Architettonici. Non sono riusciti a salvare la struttura le ricerche effettuate presso il locale Archivio Comunale, il convegno organizzato a Senigallia il 30 luglio 2009 in cui storici e studiosi hanno sottolineato il valore storico della struttura, la strenua battaglia del Comitato Civico sorto per la salvaguardia del sito che è giunta a inviare una documentata istanza al Ministro dei Beni Culturali né la risonanza data alla vicenda dalla stampa locale e nazionale. Si vedano M. Fumagalli, Un polo turistico dove c’era il lager, in «Corriere della Sera», 6 luglio 2009, U. Veroli, Ex Enel, vi spiego perché bisogna fermare le ruspe, in «Il Messaggero-Ancona», 9 maggio 2009, G. Torbidoni, A Senigallia un altro modo di portare i turisti sui lager, in «Il Manifesto», 14 giugno 2009. Il convegno ha visto tra i relatori la partecipazione di Luciano Chiappa, Ettore Baldetti, Salvatore Santuccio, Costantino Di Sante, Carlo Saletti, Ettore Coen, Tarcisio Torregiani e Mario Gentili. Le riprese del convegno sono disponibili all’indirizzo: [http://www.genitor.it/video/]. Le slide dell’intervento di Santuccio sull’architettura razionalista sono disponibili all’indirizzo: [http://www.youtube.com/watch?v=nH0sqK2Y7xQ]. All’indirizzo [http://www.youtube.com/watch? v=nZQXBSRfloY&feature=related] è stata pubblicata una comunicazione di Roberto Mancini sul progetto di demolizione della struttura. La ripresa video della demolizione si può vedere all’indirizzo: [http:// www.youtube.com/watch?v=CFUS9_8OKrE].

C. Di Sante, I campi di concentramento in Abruzzo, in Id., I campi di concentramento in Italia.

187

Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), cit., p. 206.

Si veda S. Carolini, Gli antifascisti italiani dal confino all’internamento 1940-1943, in C. Di Sante (a cura di), I

188

campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), premessa di F. Mazzonis, introduzione di E. Collotti, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 114-115.

Per contro la disciplina del confino era diffusamente ed accuratamente regolata dal testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1926, poi da quello del 1931 e anche ulteriormente precisata dai relativi regolamenti d’esecuzione del 1929 e del 1940.

Le procedure dell’internamento e del confino, entrambe comunque sottoposte alla giurisdizione del ministero dell’Interno, coesistettero nel periodo bellico come connessi e osmotici elementi della macchina repressiva approntata dal regime nei confronti degli oppositori politici cosicché