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V. SOCIETA’ IN HOUSE E SOCIETA’ MISTE NEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI

5.1. La nozione

finire dell’800. Da un lato, l’urbanizzazione creava nuovi bisogni di infrastrutture e di servizi che, nella percezione comune, non erano adeguatamente soddisfatti dalle imprese private (talvolta concessionarie degli stessi comuni). Dall’altro lato, le finanze delle amministrazioni comunali erano spesso in condizioni di difficoltà. La gestione dei servizi locali, taluni dei quali con una naturale vocazione monopolistica, rappresentava una soluzione semplice per incamerare le relative rendite nelle casse comunali.

I tentativi di disciplinare in modo organico la materia furono vari. Tra questi, fu il progetto di legge “Giolitti” che – sostenuto da uno schieramento politico ampio – riuscì a giungere sino alla promulgazione, avvenuta con la l. 29 marzo 1903, n. 103. La legge venne preceduta da un dibattito alquanto approfondito, in cui confluirono le esperienze di altri Stati europei279.

Il problema dei servizi locali fu dunque affrontato con spirito pragmatico e informato. Gli obiettivi che il legislatore perseguiva erano “progressivi”, di crescita del benessere per l’utenza. La gestione municipale dei servizi era vista, anzitutto, come una forma di supplenza e di integrazione dei poteri pubblici all’erogazione da parte di privati di servizi ai cittadini. Da questo punto di vista, l’assunzione dell’impresa di servizi pubblico locale aveva in sé una funzione – accrescere la qualità e la disponibilità del servizio – che oggi attribuiremmo alla regolazione e che, nel disegno originario, si confondeva con la gestione del servizio. I poteri pubblici locali, inoltre, potevano trovare nei servizi locali una fonte di finanziamento diversa dall’imposizione fiscale. Per questi aspetti, le finalità delle municipalizzazione non erano dissimili da quelle che oggi sono attribuite ai processi, speculari, di privatizzazione e liberalizzazione.

5.1.2. La legge n. 103/1903 evocava la nozione di “pubblico servizio” e con essa anticipava una serie di problemi teorici – di ricostruzione sistematica dei caratteri comuni alle figure tipiche del servizio pubblico – e pratici. La natura di pubblico servizio, difatti, definiva il perimetro delle possibili assunzioni comunali. Il servizio pubblico, inoltre, avrebbe acquistato una crescente specialità sul piano del regime giuridico. Gli stessi problemi si sarebbero ripresentati con la Costituzione repubblicana, che all’art. 43 consente la collettivizzazione di una serie di attività, tra le quali i “servizi pubblici essenziali”.

Le soluzioni avanzate sulla nozione di servizio pubblico sono ricostruibili, grosso modo, intorno a due orientamenti: quello “soggettivo”, per il quale sono di servizio pubblico le attività non autorative che pertengono ai poteri pubblici; quello “oggettivo”, oggi più diffuso, che ha cercato di definire la nozione in relazione ai caratteri o ai fini dell’attività esercitata. Il secondo orientamento ha visto delle sottodistinzioni a seconda che l’enfasi fosse posta sulla produzione di beni o servizi “indispensabili” per le collettività, sul perseguimento di fini sociali o sul regime giuridico dell’attività (quando, ad esempio, vi siano obblighi di universalità, continuità e non discriminazione). I riflessi di tali ricostruzione di vedono anche nelle norme primarie che contengono la disciplina generale – ancorché parziale e lacunosa – della materia. La legge n. 142/1990 – con una formula poi trasposta nel T.U.E.L. (Testo Unico degli Enti Locali), d.lgs n. 267/2000 e tuttora vigente – prevede che i servizi pubblici locali abbiano per oggetto “la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”280.

Nessuna di tali soluzioni, in realtà, è interamente soddisfacente. Il carattere indispensabile del bene o del servizio è incerto e mutevole nel tempo e spesso non ricorre nei servizi pubblici tipici (e, d’altra parte, vi sono attività indispensabili non gestite dai poteri pubblici)281. I fini sociali ricorrono in pressoché ogni attività dei pubblici poteri e possono risolversi nel fatto dell’assunzione in quanto tale. Se poi si rende il criterio più stringente – riferendolo all’imposizione di specifici obiettivi sociali che vadano al di là della gestione del servizio – esso dimostra lo stesso limite delle nozioni basate sul regime delle attività: può seguire a una disciplina di servizio pubblico ma non può giustificare la scelta di attrarre un’attività in tale disciplina.

La giurisprudenza, da parte sua, non ha contribuito a fare chiarezza sul tema, combinando i vari spunti ricavabili dalle norme e dalla dottrina secondo logiche di ordine processuale, legate al riparto di giurisdizione. Il giudice civile tende a circoscrivere la nozione di servizio pubblico alle prestazioni erogate alla generalità dell’utenza282, quando sottoposte a un regime particolare di controlli e, eventualmente, conformazioni, o quando rivolte alla soddisfazione di bisogni

280

Si trattava dell’art. 22, comma 1, della l. n. 142/1990, oggi l’art. 112, del d.lgs. n. 267/2000.

281 Cfr. M.S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995, 142.

fondamentali283. Il giudice amministrativo comprende nella nozione anche i servizi prestati alle amministrazioni, purché a beneficio indiretto della collettività (ad esempio, i servizi di riscaldamento degli immobili pubblici aperti al pubblico284). In questo modo, i pubblici servizi vengono in parte sovrapposti ai contratti di appalto di servizi.

5.1.3. Il terreno di confronto per giungere a una nozione praticabile di servizio pubblico può oggi essere trovato con una lettura sistematica dei principi di concorrenza e di sussidiarietà – anche orizzontale – e dell’istituto del servizio universale, introdotto dal diritto comunitario.

La considerazione di partenza è che il regime di servizio pubblico comporta rinunce – di entità variabile, ma comunque apprezzabili – al sistema di concorrenza non falsata che il Trattato Ce ha previsto285 e che oggi anche la Costituzione include tra gli obiettivi “trasversali” della legislazione statale286. La rinuncia al mercato può assumere la forma estrema della “privativa” – ormai da circoscrivere ai casi direttamente previsti dalla legge287 – o dipendere da quel complesso di ausili pubblici e regole di privilegio che spesso ha portato i servizi pubblici locali a essere erogati in condizioni di monopolio di fatto. In entrambi i casi, il servizio pubblico implica una deroga al regime ordinario delle attività economiche – che è quello di concorrenza – e deve dunque essere adeguatamente giustificata.

Questo schema di analisi del problema, in verità, non può essere considerato del tutto nuovo. L’idea che l’intervento pubblico fosse un rimedio alle insufficienze del mercato – e che dunque andasse dispiegato in questi limiti – era in qualche modo già presente nel dibattito che poi culminò nella l. n. 103/1903 (v. supra). Oggi, nondimeno, si può osservare una differenza di approccio.

La lunga esperienza acquisita con le municipalizzazione ha indicato che alcuni limiti del meccanismo concorrenziale non vengono corretti con l’intervento pubblico diretto, che anzi può aggiungere inefficienza e disordine. L’azione dei poteri pubblici

283 Trib. Roma, 8 maggio 2000, in Urbanistica e appalti, 2001, 395. Va detto che “Non ogni attività privata, pur soggetta a controllo, vigilanza o autorizzazione da parte di una pubblica amministrazione, costituisce, pertanto, un pubblico servizio, perché così inteso, il servizio pubblico finirebbe col coincidere con ogni attività privata rilevante per il diritto amministrativo”, Cass. n. 7461/2004, cit..

284 Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2001, 2605, in Cons. Stato, 2001, I, 1117; Tar Campania, sez. I, 1 aprile 2003, n. 3122, in Trib. amm. reg., 2003, I, 594.

285 V. l’art. 3, par. 1, lett. g), del Trattato.

286

V. l’art. 117, comma 1, lett. e), Cost., come interpretato da Corte Cost., 13 gennaio 2004, in Foro it., 2006, I, 37, e 27 luglio 2004, n. 272, in Foro it., 2005, I, 2648.

va perciò sottoposta a una verifica stringente di adeguatezza e proporzionalità, verifica che, a sua volta, influisce sul contenuto che è possibile dare alla nozione di servizio pubblico. Rispetto al passato, inoltre, vi è una conoscenza più analitica degli strumenti di intervento a disposizione, dei loro impieghi e dei loro effetti.

Da tutto ciò è possibile ricavare taluni criteri per intendere in modo attuale la nozione di servizio pubblico. Il primo di tali criteri riguarda gli interessi generali che il servizio pubblico vuole tutelare. La verifica che occorre compiere per definire il perimetro del servizio è se tali interessi non siano o non possano essere adeguatamente garantiti dall’azione concorrenziale dei privati. Il presupposto affinché ci sia il servizio pubblico, dunque, è l’assenza o l’insufficienza del mercato288. Tale presupposto è necessario ma non sufficiente, giacché occorre potere escludere che altre forme di regolazione delle attività private, meno invasive, non possano dare risultati soddisfacenti. Questa stessa linea di ragionamento porta a scomporre il servizio pubblico – come nozione unitaria, che mette insieme l’attività e il suo regime giuridico – in una pluralità di elementi, per ciascuno dei quali è possibile compiere la verifica di proporzionalità sopra descritta.

Una prima conclusione che dunque si può raggiungere, sia pure sommariamente, è che il servizio pubblico vada inteso come un concetto “plastico”, capace di adattamenti e funzionale al raggiungimento di scopi circoscritti di integrazione dei meccanismi di mercato.

5.1.4. La legislazione più recente ha introdotto un ulteriore fattore di complicazione della nozione di servizio pubblico. Dopo un’iniziale distinzione in base della “rilevanza industriale” dell’attività289, il testo attuale del d.lgs. n. 267/2000, art. 113-bis, differenzia il regime giuridico dei servizi pubblici locali a seconda che questi abbiano o meno “rilevanza economica”290. La norma – nella parte in cui introduceva una disciplina di dettaglio anche per i servizi privi di rilevanza economica – è stata dichiarata incostituzionale291. La distinzione in quanto tale, tuttavia, è restata e, almeno in negativo, porta con sé l’esigenza pratica di ritagliare, nell’ambito della

288

V. M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili

ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1998, 181, nonché M. DUGATO, I servizi pubblici locali, in Trattato dir. amm., (a cura di) S. Cassese, Milano, 2003, parte speciale, tomo IV, 2582.

289 Distinzione che, nel breve periodo di vigenza – tra la l. n. 448/2001 e il d.l. n 269/2003. – non aveva trovato un chiarimento affidabile. V. M. DUGATO, op. cit., pp. 2581-2583.

290 V. l’art. 113 del d.lgs. n. 267/2000.

nozione più ampia, i servizi privi di rilevanza economica.

Tale ultimo carattere può essere ricostruito tenendo conto che il servizio pubblico, per sua natura, dovrebbe implicare la produzione di beni o servizi. Ammettendo che questo aspetto vada conservato, occorre verificare in che modo esso sia conciliabile con la carenza di rilievo economico dell’attività.

Il problema è stato affrontato in ambito comunitario, rispetto alla nozione di “attività economiche” utile per l’applicazione delle regole di concorrenza, nozione a cui il legislatore nazionale sembra essersi intenzionalmente ispirato. Secondo la Corte di giustizia, un’attività che pur abbia a oggetto la produzione di beni e servizi perde il carattere “economico” quando le modalità con cui è esercitata non potrebbero essere, neppure in astratto, adottate da un’impresa. In questo senso, la Corte ha distinto i sistemi previdenziali e assistenziali basati sulla solidarietà tra i lavoratori, ritenuti a carattere “non economico”, da quelli fondati su meccanismi di capitalizzazione, che invece avrebbero tale carattere292. A livello locale, situazioni del genere possono ipotizzarsi per alcuni servizi assistenziali o culturali.

Il criterio indicato dalla Corte, nondimeno, attiene alle forme di esercizio e non all’essenza dell’attività. L’attrazione di un servizio nella categoria delle attività prive di rilevanza economica, pertanto, può perdere la sua ragion d’essere qualora mutino i modelli di gestione. L’ipotesi più frequente potrebbe essere quella della creazione di un mercato “a monte” attraverso l’esternalizzazione del servizio ad appaltatori privati, con il pagamento di corrispettivi che renderebbero l’attività coerente con il modello imprenditoriale293. Anche la nozione di servizi privi di rilevanza economica, dunque, va intesa in modo evolutivo e adattandola alle circostanze del caso294.

5.2. La disciplina: il criterio di riparto delle competenze tra Stato e