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La società mista come modello di gestione dei servizi pubblici locali

V. SOCIETA’ IN HOUSE E SOCIETA’ MISTE NEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI

5.5. Il ruolo delle società miste

5.5.2. La società mista come modello di gestione dei servizi pubblici locali

Una ricostruzione completa dello stato dell’arte in materia, con l’individuazione di alcuni punti fermi in tema di società miste pubblico-privato per la gestione dei servizi pubblici locali è stata svolta dal Consiglio di Stato in un parere314 e da una successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria315.

Il tema è complesso e forse il modo migliore per inquadrarlo consiste nell’individuare anzitutto i soggetti che sono in grado di plasmare e condizionare «lo spazio regolatorio» entro il quale operano i gestori dei servizi pubblici locali.

Protagonisti indiscussi sono il legislatore e la giurisprudenza comunitaria e nazionale, ma attori comprimari sono stati in questi anni anche la Commissione Ue (in particolare il cosiddetto Libro Verde sulla collaborazione tra pubblico e privato (PPP) del 15 novembre 2005, COM (2005), il quale precisa, tra l’altro, che la partnership pubblico-privato va senz’altro favorita ma essa non può rappresentare un modo per eludere la disciplina della concorrenza), l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha emanato in questi anni numerose segnalazioni (per esempio, il parere del 6 settembre 2005 il quale invita i regolatori e la giurisprudenza a promuovere l’affidamento dei servizi pubblici locali all’esterno tramite procedure competitive) e la stessa Corte Costituzionale (in particolare con la sentenza n. 272/2004 che ha valorizzato la clausola della tutela della concorrenza per fondare una competenza legislativa statale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali).

Il legislatore nazionale ha proceduto in modo incerto e oscillante. L’apertura a forme di collaborazione tra pubblico e privato in materia di gestione dei servizi pubblici privati risale alla riforma delle autonomie locali dell’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142). Ma si trattava di un’apertura cauta che imponeva la prevalenza del capitale pubblico locale rispetto al capitale privato.

Da quel momento, fino a oggi, un punto di equilibrio definitivo non è stato ancora raggiunto.

314Cons. Stato, sez. II, 18 aprile 2007, n. 456.

I nodi cruciali sono stati essenzialmente due: se il socio privato deve essere scelto attraverso una procedura a evidenza pubblica; se l’affidamento del servizio richiede a sua volta l’espletamento di una procedura competitiva.

Il primo quesito è stato risolto in senso positivo sia dall’art. 113, comma 5, lett. b) del Testo unico degli enti locali, sia in via ancor più generale dal Codice dei contratti pubblici il quale pone il principio che nel caso in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste, la scelta del socio privato avviene con procedure a evidenza pubblica (art. 1, comma, 2 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163).

Quanto al secondo quesito, il quadro legislativo è stato meno chiaro e il problema si intreccia in qualche modo con quello dei limiti dell’affidamento in house previsto del legislatore, sulla falsa riga della definizione contenuta nella ormai celebre sentenza della Corte di Giustizia Ue nel caso Teckal316, dall’art. 113, comma 5, lett. c) del Testo unico degli enti locali.

Aver previsto l’affidamento diretto a società in house come modalità ordinaria di gestione dei servizi pubblici locali equiparata alle altre, e in particolare alle procedure competitive secondo la logica della concorrenza “per il mercato”, era stata interpretata all’epoca, di fatto, come un passo indietro rispetto alla preferenza accordata in precedenza a quest’ultime.

Inoltre, aver legiferato la formula contenuta nella sentenza Teckal per la definizione dell’affidamento in house, da un lato, costituiva un modo formalmente ineccepibile per conformare il sistema normativo nazionale al modello comunitario; dall’altro lato, però, rimetteva agli orientamenti giurisprudenziali comunitari l’individuazione in concreto dei limiti di una nozione (quella di in house) che era e resta in qualche misura ambigua.

Da questo punto di vista, si può anzi sostenere che l’ascesa e la crisi del modello della società mista pubblico e privato è stato il riflesso dell’evoluzione giurisprudenziale della nozione di affidamento diretto o in house.

Infatti, dalle aperture iniziali, soprattutto della giurisprudenza amministrativa nazionale, che ha interpretato estensivamente il concetto di società in house fino a includervi molte fattispecie di società miste a partecipazione pubblica maggioritaria317, con conseguente esclusione della necessità di procedere

316 Sentenza del 18 novembre 1999 in causa C-107/98

all’affidamento del servizio tramite procedure a evidenza pubblica, si è passati progressivamente a un’interpretazione della nozione sempre più ristretta, prima da parte della giurisprudenza comunitaria seguita a ruota da quella nazionale.

Se infatti, a livello comunitario, il coinvolgimento nella gestione dei servizi pubblici locali di soggetti privati è visto con favore perché essi possono apportare agli enti locali know how aggiuntivi e contribuire a una gestione più manageriale delle aziende, nella pratica lo strumento della società mista si può prestare ad abusi. Questo modello ha costituito spesso, in Italia ma anche in altri Stati membri, un espediente per aggirare le regola dell’affidamento dei servizi locali in base a una procedura competitiva318. Infatti, a ben considerare, la gara per la scelta del socio privato della società mista al quale poi affidare direttamente il servizio rischia di essere una finzione perché non è facile prefigurare criteri oggettivi, soprattutto se la costituzione della società mista avviene in una fase nella quale non è ancora chiarito quali saranno i servizi che le verranno affidati in gestione.

In ogni caso, soprattutto a partire dal 2005, definito da taluni critici del nuovo indirizzo interpretativo come «annus horribilis»319, la Corte di Giustizia (in particolare, la sentenza Stadt Halle320), seguita via via dalla giurisprudenza amministrativa nazionale321,ha chiarito che la presenza di un socio privato esclude che il servizio possa essere affidato «in house», cioè senza procedura competitiva. Del resto anche la partecipazione totalitaria dell’ente locale in una società che gestisce un servizio pubblico locale, ma il cui statuto consente la cessione di partecipazioni a soggetti privati, costituisce, secondo la giurisprudenza più recente, un indizio volto a escludere la possibilità di considerare «in house» l’affidamento del servizio322.

A questo punto, qualche commentatore ha intonato il «de profundis» delle

a capitale pubblico maggioritario costituisce un modello alternativo alle aziende speciali e pertanto l’affidamento del servizio può avvenire senza esperimento di una procedura di gara.

318

la fioritura delle società miste ha avuto, secondo i critici, anche la finalità di ampliare «in misura rilevante le potenzialità di uso clientelare del potere politico, ovviamente senza alcun vantaggio per la migliore realizzazione dell’interesse pubblico»: cfr. C. SALVI – M. VILLONE, Il costo della

democrazia, Milano, 2005, p. 107.

319

Cfr. C. IAIONE, Le società in house degli enti locali, Roma, 2006, p. 53.

320 Sentenza 11 gennaio 2005, in causa C-26/03 seguita a ruota da altre sentenze: 11 gennaio 2005,

causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau; 21 luglio 2005, causa C 231/03 – Corame; 13 ottobre 2005, causa C 458/03 – Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C-410/04

321 cfr. da ultimo Cons. Stato, VI Sez., n. 1514/2007

società miste323.

La giurisprudenza nazionale si è spinta poi sino al punto di affermare, con un’operazione interpretativa non condivisa, come si vedrà, dal parere del Consiglio di Stato sopra citato, che anche se il socio privato è stato scelto con gara, l’amministrazione deve comunque affidare il servizio con procedura a evidenza pubblica324. In realtà, anche questa procedura competitiva è anomala perché è esposta al rischio di un conflitto di interesse.

Infatti lo stesso ente locale, da un lato, disciplina e gestisce la procedura per l’affidamento del servizio; dall’altro partecipa alla gara come socio della società mista. Ciò di per sé può costituire un disincentivo a un’ampia partecipazione alla procedura competitiva perché può esserci la percezione che la «par condicio» non sia garantita sul piano sostanziale oltre che su quello formale.

5.5.3. La soluzione prospettata nel parere del Consiglio di Stato (Cons.