Fabio Corigliano
1. Premessa
Da molto tempo, ormai, l’immagine che più di ogni altra vuol de- scrivere l’approccio delle istituzioni al tema della (loro stessa) traspa- renza, cioè in una parola il modo attraverso il quale le istituzioni rap-
presentano sé stesse, è quello della casa di vetro. La casa di vetro è
l’emblema di un’amministrazione – ma al limite: di uno Stato – che si rende visibile, simbolo di un nuovo rapporto tra cittadini e istituzioni, grazie al quale, asseritamente, i cittadini possono accedere in piena li- bertà agli atti e alle procedure amministrative, in modo tale da farsi pro- tagonisti dell’azione pubblica.
Il sito della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, costituita presso il Governo italiano, e dedicato per l’appunto al tema della trasparenza amministrativa, riporta emblematicamente un passag- gio che dev’essere brevemente commentato e che ci aiuterà nel percor- so che qui si vuol intraprendere:
La trasparenza dell’azione amministrativa rappresenta un’esigenza as- solutamente fondamentale degli ordinamenti democratici, costituendo uno strumento indispensabile a realizzare un effettivo rapporto tra go- vernanti e governati, consentendo a questi ultimi una consapevole par- tecipazione all’esercizio del potere pubblico. Questa nozione di traspa- renza evoca la nota immagine, cara a Filippo Turati, della Pubblica Amministrazione “casa di vetro”, all’interno della quale, cioè, tutto è sempre e costantemente visibile; questa piena visibilità tende infatti a promuovere un controllo dell’attività amministrativa capillare dal bas- so, in modo da garantire il massimo grado di correttezza e di imparziali- tà1. La nozione di trasparenza, spiega il Governo, attraverso la Commis- sione, evoca l’immagine di un edificio, la casa di vetro, «all’interno del- la quale, cioè, tutto è sempre e costantemente visibile», in cui è assicu-
rata, cioè, a chi vi si accosti dall’esterno, la piena visibilità. Perché in fin dei conti il verbo che più di ogni altro delinea la qualità della casa di vetro è proprio il vedere, o meglio l’esser visibile di ciò che sta al suo interno.
Dunque, quando, stando alle cronache parlamentari, nel 1908, Filip- po Turati ebbe a sostenere che «la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro», senza saperlo dava avvio a una secolare riflessione sul tema della trasparenza (e della visibilità dei processi attraverso i quali si articola il potere), che non ha smesso di esercitare il suo fascino e che continua a essere il mito di riferimento di tante analisi politiche e giuri- diche.
Ma perché proprio una casa di vetro? Qual è il senso, l’origine e il destino-destinazione di questa fortunata immagine? Per quale motivo questa immagine si è fatta mito, o al contrario, perché il mito si è fatto immagine, e quali ne sono le conseguenze?
È proprio dall’architettura che dovrà partire questo discorso, se vuol individuare l’ascendente storico, simbolico e funzionale della ammini- strazione/casa di vetro, interrogando il mito della casa di vetro e la sua genealogia e quindi il mito del luogo in quanto veicolo, vettore, indica- tore del suo significato più profondo2.
2 Era certo un sogno romantico l’autosufficienza della riflessione filosofica – l’idea
cioè che la filosofia potesse riflettere su se stessa occupandosi di se stessa. Un sogno prefigurato da Kant che per ciò aveva istituito il tribunale della Ragione, affinché fosse la ragione (attraverso la filosofia) a indagare se stessa e i suoi propri limiti e portato a termine da Hegel con il suo disegno dialettico al vertice del quale stava proprio la filo- sofia come idea che torna in sé e riflette su di sé. In quell’immagine il punto più alto di un sistema era costituito proprio dalla capacità di quel sistema di tornare in se stesso senza uscirne, se non nel corso del processo stesso. Ma la sua nobiltà stava nella capaci- tà di fare ritorno a sé, quindi alla filosofia, quasi a purificare l’intero circolo della Ra- gione. Quel sogno romantico, il sogno cioè di una filosofia autosufficiente, pura – adia- fora – che puntasse alla sua stessa purificazione attraverso il ritorno a sé (la sintesi) e ai suoi metodi, alle sue leggi, confliggeva in realtà con lo statuto classico della filosofia, che assegnava alla stessa il compito di amare (philein) il sapere. Tutto il sapere, o me- glio, il sapere per il sapere. Amore per il sapere significa infatti capacità di uscire dai limiti della riflessione sul metodo di quel sapere per inserirsi nell’ambito del reale, per insinuarsi in ogni ambito del reale, perché il reale deve essere studiato e interpretato dalla filosofia. Per questo motivo, si potrebbe dire, semplificando, la curiosità che su-
Come accade emblematicamente nel regime di fabbrica, dove il dispoti- smo dell’organizzazione produttiva non dipende dall’impiego di forme dirette di assoggettamento, ma è conseguenza di un piano oggettivo e indipendente dalla volontà dei singoli, allo stesso modo in ogni altra si- tuazione analoga, dagli ospedali alle scuole e alle prigioni, è il luogo stesso – un luogo appositamente qualificato – ad agire come veicolo di trasmissione dell’autorità3.
In queste righe di chiara ispirazione foucaultiana scritte da Umberto Curi si ritrovano condensate tutte le domande appresso analizzate: può un luogo esercitare una funzione-finzione4 lato sensu politica? In che modo? Attraverso quali modalità un luogo può venire ad essenza in quanto strumento del potere? Quali suggestioni possono essere ricavate da un luogo, addirittura da una casa, a proposito del principio di traspa- renza? E infine qual è lo sguardo con il quale l’uomo si approssima a un luogo e ne coglie le fattezze, onde ricavarne un senso?Si anticipa che il termine luogo verrà utilizzato in questo contesto nel senso hei- deggeriano, nel senso cioè di ciò che fa venire ad essenza uno spazio5 – un’opera architettonica, insomma, un edificio in cui l’uomo prende di- mora, che l’uomo abita6
, per tornare alla metafora dell’amministrazio- ne/casa di vetro: il luogo in quanto dimora.
Inoltre, occorre specificare, a titolo di premessa, che l’avvio di que- ste analisi è costituito da un termine, affermazione, che pare possedere un’estensione semantica e un magnetismo tale da consentire riflessioni (sicuramente ardite) sul rapporto tra luoghi e spazi con un’inclinazione di sicuro interesse per la filosofia del diritto, per il diritto amministrati- vo in senso lato, e per la teoria della trasparenza.
scitano ad oggi le analisi filosofiche che si azzardano a entrare in ambiti sino al secolo scorso quasi interdetti alla ricerca filosofica, quasi vi fosse un’inibizione, una richiesta di silenzio: silete philosophos in munera alieno, parrebbe del tutto ingiustificata di fron- te allo statuto classico della filosofia.
3 Curi, U. (2015). La forza dello sguardo. Torino: Bollati Boringhieri, 225-6. 4 Ci si serve della suggestiva formula che si trova in Donati R. (2016). Critica della
trasparenza. Letteratura e mito architettonico. Torino: Rosenberg&Seller.
5 Heidegger, M. (1976). Costruire abitare pensare. In Id. Saggi e discorsi, Milano:
Mursia, 103 (Pubblicato originariamente nel 1951).
2. Affermazione di distanze siderali
Corrisponde certo al vero l’asserzione per cui «architettura e filoso- fia sono pratiche di pensiero, ovvero discipline nelle quali fare e pensa- re sono due lati della stessa medaglia», stante la definizione per cui
le pratiche di pensiero, per loro natura, resistono ad ogni loro codifica- zione in procedure consolidate e stabilite una volta per tutte, e lo fanno attraverso un inesauribile processo di affermazione: affermazione di un al di là rispetto al già pensato, al modello, alla regola, che apre, a nostro avviso, un importante spazio di libertà al di là di ogni determinismo scientifico-tecnico7.
L’affermazione è cioè un elemento nodale che si situa all’interno di una grammatica del senso che naturalmente coinvolge gli aspetti più vari dell’esistenza, ma che nel caso dell’architettura, nel caso cioè degli spazi che si fanno luoghi, che pro-ducono luoghi, contiene un invito al sovvertimento dei protocolli di pensiero che si fanno regole precise nei linguaggi tecnico-scientifici. Motivo per il quale, come si dirà tra poco, l’architettura, in quanto affermazione di un’eccedenza (un di-più rispet- to a sé stessa, naturalmente), può essere utilizzata come modello, anche rifuggendo dalle sue regole tecniche, anche evitando il discorso specia- listico, anche allontanandosi dall’elemento tecnico-architettonico stes- so, per arrivare al cuore dell’architettura come essenza, al cuore del luogo come dimora, cioè, alla sua vera e propria affermazione. All’af- fermazione dell’architettura, quindi.
Seppur questo approccio intellettualistico appaia ampiamente in grado di avvicinare due pratiche di pensiero come architettura e filoso- fia, ci si può chiedere, a ragione, quante pratiche di pensiero possano essere incluse e quante invece escluse dall’eventuale parallelismo con la filosofia, e addirittura quante attività umane riescano veramente a sfuggire alla loro definizione in quanto pratiche di pensiero – dalle più banali e insulse, alle più alte e raffinate, come l’architettura la poesia il cinema. Di questo passo, cioè, il giuoco di associare qualsivoglia prati-
7 Cantone, D., Taddio, L. (2011). L’affermazione dell’architettura. Una riflessione
ca di pensiero alla filosofia non fa che condurre l’interprete a quello che è il significato originario di filosofia, amore per il sapere, amore in gra- do di comprehendere, di abbracciare, di fagocitare ogni sapere in quan- to pratica di pensiero8.
È questo il motivo per il quale non può stupire una riflessione filoso- fica che abbia come punti di riferimento alcuni termini e contesti tratti proprio dalla storia dell’architettura.
Sarebbe da notare, invero, che spesso la questione dell’incompeten-
za di cui parla Derrida9 potrebbe costituire veramente un ostacolo, an- che se tale timore nonché l’approccio metodologico derridiano potreb- bero essere molto più conferenti nel caso di veri e propri accostamenti; in questo caso, in queste pagine, nell’ambito di queste riflessioni che coinvolgono lo sguardo, il senso e la direzione dello sguardo, l’aspetto dell’incompetenza potrebbe passare in un secondo piano perché l’inter- rogazione che si propone verte più precisamente sul senso di un luogo attraverso la sua descrizione. Non meno importante del primo piano, perché comunque lo sconfinamento c’è stato e ci sarà: ma quale sareb- be, oggi, quella disciplina dotata di uno statuto epistemologico assoluto, in grado di rifuggire cioè da qualsivoglia sconfinamento concettuale? Se anche lo fosse nelle intenzioni dei suoi estensori non potrebbe certo continuare a esserlo a contatto con la multiforme realtà.
È tuttavia da considerare che «proprio per il suo alto valore espositi- vo, un’opera architettonica, in un certo senso, non può rimanere mu- ta»10, ma anzi, secondo una suggestione che conduce direttamente alla relativa nozione benjaminiana, l’opera afferma per lo stesso fatto di esistere, secondo moduli comunicativi che da Benjamin innanzi sono stati molto studiati nel corso del Novecento e oltre, sino alla conclusio-
8 È il caso di riaffermare proprio in questa sede che non è l’essere pratiche di pen-
siero che consente alle discipline di essere studiate congiuntamente, come se il legame tra statuti scientifici fosse dato unicamente dal dato ontologico del loro essere statuti: si prendano il diritto e la letteratura, ad esempio, e le loro molteplici relazioni, da anni al- l’ordine del giorno, dal punto di vista del metodo e dal punto di vista dei contenuti, di codesta Società Italiana di Diritto e Letteratura.
9 Derrida, J. (1986). Point de folie - Maintenant l’architecture. In Tschumi, B.
(1986). La case Vide: La Villette 1985. Architectural Association: Londres.
ne eclettica per cui «non è per la sua natura di oggetto che ci interes- siamo all’architettura, quanto per la sua capacità di fare segno, ovvero di veicolare un significato che le è immanente e la supera al tempo stes- so»11.
Fare segno e veicolare un significato sono aspetti che portano diritti
alla questione dell’architettura in quanto codice, in quanto legge. L’ar- chitettura in quanto legge fa segno, interviene cioè nella vita dell’uomo e la altera attraverso regole e codici (linguistici?) con i quali sono stabi- liti, per così dire dei protocolli che determinano nella loro concretezza la vita del consorzio umano, nel suo complesso. Fa segno: cioè, segna e determina uno spazio; trasforma/deforma uno spazio rendendolo luogo, conferendogli una regola, cioè.
Dall’altro lato, è altresì da rammentare che l’affermazione dell’ar- chitettura, il suo parlare, la sua connessione con il mondo degli uomini ha delle implicazioni di carattere politico e giuridico che hanno sempre a che fare con la questione dello spazio (o forse, meglio, del luogo) e della sua interpretazione da parte dell’uomo medesimo – e qui si torna al luogo che caratterizza politicamente lo spazio.
Cioè, per riassumere, la questione del rapporto tra architettura, dirit- to e filosofia, per quanto attiene queste analisi, non si pone solamente dal lato dell’affermazione dell’opera architettonica, del suo parlare – e quindi dell’eccedere dell’opera –, ma anche dal lato del suo essere guardata e interpretata in quanto luogo, cioè politicamente e giuridica- mente.
Ed è qui che entra in gioco tutto il discorso foucaultiano sull’archi- tettura che agisce sugli individui12, che in questo momento possiamo solo guardare in lontananza, quasi a percepirne i contorni, ma sul quale dovremo tornare in un secondo momento. Quel che interessa ora, è la vicinanza siderale tra diversi tipi di linguaggio (quello giuridico, quello politico, quello filosofico, quello architettonico), che può ben essere compresa attraverso l’immagine dell’affermazione dell’architettura, di ciò che l’architettura segna e afferma in quanto legge e in quanto luogo.
11 Cantone, D., Taddio, L. (2011). L’affermazione dell’architettura. Cit., 26-8. 12 Foucault, M. (2014). Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Ei-
3. L’affermazione del vetro
C’è un bel passaggio, nella versione a stampa dei seminari su Plato- ne e l’Europa, in cui Jan Patočka afferma risolutamente che «il senti- mento globale della situazione, il sentimento generale dell’epoca» cor- risponde all’autocoscienza dell’epoca stessa – autocoscienza che si esprime ad esempio attraverso l’affermazione dell’arte: «l’arte è l’espressione del sentimento della vita di una data epoca»13. L’artista
sente, legge lo scarto, il messaggio di novitas dell’epoca, percepisce ciò che è realmente nuovo nel sentimento globale dell’epoca, e tra-duce questo scarto in opere.
Attraverso l’affermazione delle opere.
L’artista, in un certo senso, percepisce chiaramente l’affermazione dell’epoca, ciò che va al di là dell’epoca, il che ci consente di tracciare un parallelo tra l’artista come immaginato da Patočka e l’architetto so- cratico di memoria valeryana, come ce lo possiamo figurare in queste pagine.
In questo senso, nel senso cioè di trovare un luogo in cui situare la riflessione sul carattere dell’architettura in quanto affermazione, si può pensare di affiancare a questa immagine di Patočka, il confronto tra Heidegger e Ortega y Gasset nell’ambito dei colloqui di Darmstadt del 1951. Si potrebbe infatti ricostruire l’idea della affermazione dell’archi- tettura proprio attraverso l’incrocio di questi contributi di Ortega y Gas- set, di Heidegger e quello di Patočka testé citato, riferendo preliminar- mente i loro punti di vista. Tale idea di affermazione è assolutamente propedeutica alla spiegazione dell’affermazione del vetro in architettu- ra, per comprendere, quindi, ciò che afferma il vetro – su cui sofferme- remo l’attenzione nella seconda parte di questo paragrafo.
Brevemente, il confronto, se così si può definire, tra Heidegger e Or- tega y Gasset, invitati entrambi a prendere parte a un colloquio sul tema “Uomo e spazio”, svoltosi a Darmstadt nel 1951, può essere concentra- ta sul diverso ruolo attribuito all’architetto in quanto artista.
13 Patočka, J. (1977). Platone e l’Europa. Milano: Vita e Pensiero, 34. (Pubblicato
Mentre in Heidegger l’uomo trasforma lo spazio in luoghi (con Cac- ciari, dà-luogo, fa-luogo)14 in modo tale da prendersi cura della terra cui è indissolubilmente collegato per dar luogo, analogamente, alle oppor- tune relazioni con gli altri soggetti della Geviert, della Quadratura, e quello stesso uomo-architetto concreta ogni volta di nuovo con la sua opera l’aver cura, attraverso una “nuova” idea dell’abitare, in Ortega y Gasset, l’uomo che vive male la terra in quanto inospitale (natura ma- trigna, “nemica scoperta degli uomini” aveva scritto Leopardi nel Dia-
logo della Natura e di un Islandese)15 e subordina l’architettura alle esigenze del bene vivere, quello stesso architetto-uomo deve esercitare la sua propria professione al servizio della società in cui vive – quella società con quei bisogni cui l’architetto-uomo deve adeguarsi, quasi, si direbbe, in antitesi all’idea di ornamento che secondo Adolf Loos carat- terizza certo modo di intendere il rapporto tra uomo e architettura16. Per Ortega, quindi, «gli edifici sono un immenso gesto sociale. L’intero popolo si dice in essi. È una confessione generale della cosiddetta “anima collettiva”»17
.
È qui che si innesta, quasi a unire le due riflessioni sopraesposte, che almeno nelle intenzioni di Ortega non potevano collimare nell’imme- diatezza del tempo storico in cui si trovavano a vivere18, quanto afferma
14 Cacciari, M. (1978). Eupalinos o l’architettura. Nuova Corrente, 76/77.
15 Sarebbe interessante affrontare in parallelo gli elementi del pessimismo cosmico
leopardiano e del discorso orteghiano sull’uomo che deve difendersi dalla natura. Sul conflitto uomo/natura, pur da un’altra prospettiva, la rilettura starobinskiana di Rous- seau, che pare ricollegarsi a quanto affermato a proposito di trasparenza: Starobinski, J. (1982). Jean Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo. Bologna: Il Mulino, 54. (Pubblicato originariamente nel 1972).
16 Ci si riferisce alla teoresi di Adolf Loos. L’idea che l’ornamento sia un delitto
corrisponde alla considerazione dell’architettura al servizio dell’uomo e avversa il suo contrario, l’uomo al servizio dell’architettura. Non si può peraltro affermare che i due autori siano situati l’uno a difesa dell’architettura al servizio dell’uomo (Ortega) e l’altro dell’uomo al servizio dell’architettura (Heidegger). In entrambi, con buona pace di Ortega, vi è un approccio spirituale al tema.
17 Ora in Filipuzzi, F., Taddio, L. (Eds). (2010). Costruire Abitare Pensare. Milano-
Udine: Mimesis, 63.
18 Ortega sottolinea “salvo futuri ripensamenti” (in Filipuzzi, F., Taddio, L. (Eds).
Patočka sul pre-sentimento dell’epoca attraverso l’arte, e che risulta utile ai nostri fini, al fine cioè di percepire complessivamente il senso dell’affermazione dell’architettura, e che risulta necessario per com- prendere l’affermazione del vetro.
L’architettura sembrerebbe cioè affermare «il sentimento della vita di una data epoca»19 (affermare in quanto avvertire il di-più) proprio perché da un lato sussiste una circolarità tra le attività del pensiero, del- l’abitare e del costruire che si esprime nel dar-luogo che tras-forma la terra perché sia abitata e dall’altro ogni architettura è una «confessione generale della cosiddetta “anima collettiva”»20
.
Per questo motivo acquista un’importanza fondamentale quanto Paul Scheerbart viene affermando nella prima proposizione del suo ce- lebre Glasarchitektur, emblematicamente intitolata proprio “L’ambien- te e il suo influsso sull’evoluzione della civiltà”.
Conviene citarla per intero per comprenderne il senso.
Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con l’introduzione dell’architettura di vetro, che permette alla luce del sole, al chiarore del- la luna e delle stelle di penetrare nelle stanze non solo da un paio di fi- nestre, ma direttamente dalle pareti, possibilmente numerose, comple- tamente di vetro, anzi, di vetro colorato. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci ad una nuova civiltà21.
Possiamo facilmente isolare i punti (gli spunti) e le tematiche intro- dotte e determinate dall’architettura di vetro, come altrettante afferma- zioni di una nuova confessione dell’anima collettiva, di una sovversio-