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RIFLESSIONI DELEUZIANE SULLA SEMIOTICA FILOSOFICO-GIURIDICA

Alessandro Campo

1. Riflessioni deleuziane sulla semiotica

Con questo articolo si intende trattare la critica deleuziana dell’im- magine del pensiero e della conseguente semiotica filosofica, per poi provare a declinare il discorso in rapporto al campo del diritto, muo- vendo qualche passo in direzione di una possibile semiotica filosofico- giuridica.

La questione dell’immagine del pensiero à la Deleuze trova il suo naturale abbrivio nel problema trascendentale della stupidità.

Sul punto, sbagliava forse per difetto Forrest Gump quando ripeteva “Stupido è chi lo stupido fa”1

, sbagliava a storicizzare il problema Jean Cocteau, scrivendo “Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”2

, sbagliava più di tutti Paul Valery che voleva proprio sottrarsi dalla questione: “La stupidità non è affar mio”3

.

Piuttosto, in un’ottica deleuziana, coglie il punto Aldo Busi, che pu- re notoriamente non eccede in modestia, intuendo che “Per arrivare alla stupidità di un altro bisogna partire dalla propria”, anche se, e questo rappresenta una complicazione, “nessuno è disposto a considerarsi stu- pido”4

.

Quanto occorre, secondo la prospettiva qui seguita, non è dunque un affannoso tentativo di catalogare la stupidità umana che fa bella mostra

1 Mi riferisco naturalmente al protagonista del famosissimo omonimo film Forrest

Gump di Zemeckis, 1994.

2 Non riesco a scovare il libro o l’occasione in cui Cocteau pronunciò la nota frase. 3 Valery, P. (1988). Monsieur Teste. Milano: SE, p. 19.

di sé, magari sui vituperati social networks, sui quali, si noti per inciso, sempre più compaiono pagine dedicate all’abolizione del suffragio uni- versale perché la gente, considerata mediamente idiota, non sarebbe in grado di manifestare la propria volontà elettorale, salvo che non vi è una pagina in cui un utente includa nel girone degli idioti se medesimo.

La prospettiva qui seguita in sostanza non ha da fare con l’approccio sociologico tenuto da Umberto Eco5 nella sua prolusione, peraltro mai citata per esteso e spesso semplificata, in cui svolse le considerazioni divenute celeberrime su facebook, twitter e i cretini.

Tale prospettiva ha da fare, piuttosto, con quanto scriveva Flaubert commentando Bouvard e Pécuchet, opera sulla stupidità umana che sarebbe dovuta culminare in un esaustivo, ma impossibile elenco delle sciocchezze che gli uomini dicono e ridicono (questa specie di prebor- gesiana storia universale dell’infamia non fu infatti pubblicata): “Sono pieno a tal punto di Bouvard e Pécuchet da esser diventato loro! La loro stupidità è la mia, al punto di scoppiare!”6

.

Il punto di partenza insomma deve consistere proprio nell’ammette- re la stupidità propria e, con Deleuze, la sorgiva o, come si spiegherà, trascendentale valenza filosofica della stessa stupidità7.

La speranza, si può aggiungere tra il serio e il faceto, non è la con- quista di un’idiozia cristica del genere Principe Myskin, ma di quel- l’“intelligenza nella stupidità” di cui tanto si meravigliava Bernardo Soares, protagonista del Libro dell’Inquietudine di Fernando Pessoa (posto che dalla stupidità non si può tout court uscire).

Ebbene, per giungere alla questione trascendentale della stupidità, si può muovere da alcune considerazioni svolte da Derrida a proposito

5 Eco tenne il discorso citato il 10 giugno 2015, durante la cerimonia in cui ricevette

la Laurea Honoris Causa in Comunicazione e cultura dei media presso l’Università di Torino.

6 Cit. in Derrida, J. (2009). La Bestia e il Sovrano. (G. Carbonelli Trad.). Milano:

Jaca Book. (Opera originale pubblicata 2008). [Traduzione italiana di La bête et le sou- verain].

7 Si segnala che il rapporto tra stupidità e filosofia è affrontato in diversi testi tra cui

vanno segnalati Stiegler, B. (2013). Etats de choc. Bêtise et savoir au XXI° siècle. Paris: Milleunenu e Ronell, A. (2003). Stupidity. Chicago: UI.

della stupidità, che in francese è bétise, dunque sta etimologicamente in rapporto al tema dell’animalità o meglio della bestialità.

Derrida nel suo ultimo seminario La bestia e il Sovrano a lungo trat- ta la questione bétise e a lungo si occupa di Deleuze, notando molto precisamente come quest’ultimo suggerisca che “la stupidità stia al cen- tro della filosofia, il che la invita alla modestia, e dichiara soprattutto che la stupidità non è mai quella altrui, perché essa è sempre, la mia e la nostra, sempre”8

(Busi contra Valery, ritornando alle citazioni di poco sopra).

Oltre che “sempre, la mia e la nostra” madama stupidità va posta, secondo il Deleuze ben commentato da Derrida, al centro della filoso- fia, in antitesi a un atteggiamento che la considererebbe invece perti- nente solo ai limiti psicologici, sociologici etc. del pensatore.

La bétise, nota sempre Derrida, è per Deleuze sconosciuta agli ani- mali che, come da tradizione, vengono considerati non pensanti, a diffe- renza dell’uomo.

L’approccio deleuziano alla bétise è, secondo Derrida, incomprensi- bile se non messo in relazione alla concezione dell’uomo di Schelling, e in particolare all’idea per la quale l’uomo sta sempre in rapporto a un fondo originario (Urgrund) che è anche non-fondo (Ungrund).

Citando proprio Deleuze, in effetti la stupidità “è possibile in virtù del nesso del pensiero con l’individuazione”, e inoltre “l’individuazione come tale […] non è separabile da un fondo puro che essa fa sorgere e porta con sé”9

.

Il rapporto dell’uomo con questo fondo, sorta di substrato generico, indistinto, sul quale poi si staglia il, sempre incompiuto, processo di individuazione, rinvia a una intricata questione ontologica, e anche an- tropologica, che segna il magmatico pensiero deleuziano, e che qui non può essere sciolta10.

8 Derrida, J. (2009). La Bestia e il Sovrano. (G. Carbonelli Trad.). Milano: Jaca

Book. (Opera originale pubblicata 2008). [Traduzione italiana di La bête et le souve- rain], p. 195.

9 Ibidem, p. 196.

10 Tale questione convoca il problema del rapporto tra uno e molteplice che Deleuze

affronta attraverso autori quali Plotino, Cusano, Duns Scoto, Spinoza, Hume, Leibniz, Bergson, Whitehead, Sartre, Simondon. Un testo molto chiaro nel precisarne alcuni

Si consideri solamente a questo proposito, sempre seguendo Derrida interprete “schellingiano” di Deleuze, che se l’uomo non può mai diffe- renziarsi una volta per tutte dal fondo, dovendo sempre districarsi in un rapporto delicato con quest’ultimo (il rischio sta sia nel tentativo identi- tario del distacco radicale, sia in quello abissale dello sprofondamen- to)11, altra è la situazione dell’animale, il quale, separato dall’urgrund/

ungrund tramite forme esplicite, risulta immune ai rischi dell’uomo

come quello della stupidità.

Ebbene, il modo in cui questo inscindibile rapporto umano con un fondo indeterminato, e dunque questa necessità ontologica della stupi- dità, debba essere messo in relazione al tema classico del cominciamen- to del pensiero, o, con parole deleuziane, al problema trascendentale dell’immagine del pensiero, è oggetto dello studio compiuto da Deleuze in Differenza e Ripetizione12, nel capitolo che l’autore francese stesso, anni dopo averlo scritto, considererà il migliore della sua prima grande opera.

In questo capitolo, intitolato proprio L’immagine del pensiero, e i cui snodi principali occorre richiamare, Deleuze vuole in sostanza te- matizzare il fatto che la stupidità e non l’errore abbia da sempre afflitto il pensiero, allo stesso modo in cui non i problemini di grammatica o di sintassi o di lessico, bensì le idee poco originali, poco interessanti, poco potenti affliggevano i temi meno riusciti degli studenti liceali di cui un tempo era stato professore13.

L’immagine del pensiero dipinta dai filosofi presuppone tipicamente il “duplice aspetto di una buona volontà del pensatore e di una natura

snodi è Zourabichvili, F. (2004). G. Deleuze. Una filosofia dell’evento. Verona: ombre- corte. (F. Agostini Trad.). (Opera originale pubblicata 1998). [Traduzione italiana di Une philosophie de l’événement]; molto interessante in italiano, e di recente uscita è invece Ronchi, R. (2015). Deleuze. Credere nel reale. Milano: Feltrinelli.

11 Su questo punto è molto deleuziana Conciliis, E. (2008). Pensami stupido! La fi-

losofia come terapia dell’idiozia. Milano-Udine: Mimesis, p. 160 “La stupidità indica il modo in cui un individuo umano fallisce nel proprio sforzo di dare forma – di differen- ziare – il fondo opaco dell’essere”.

12 Deleuze, G. (1997). Differenza e ripetizione. (G. Guglielmi Trad.). Bologna: Il

Mulino. (Opera originale pubblicata 1968). [Traduzione italiana di Différence et répéti- tion].

retta del pensiero”14, come si desume, ad esempio ragionando sull’esor- dio del Discorso sul metodo cartesiano (il buon senso sarebbe la cosa meglio ripartita del mondo!) o sulla fatica concettuale che Platone dedi- ca alla distinzione tra idea, buona, e simulacro, cattivo.

Per abbattere i postulati dogmatici di un’immagine simile Deleuze diviene-stupido e proclama:

a costo di apparire idioti, comportiamoci a modo di quel personaggio russo, l’uomo del sottosuolo che non si riconosce nei presupposti sog- gettivi di un pensiero naturale più di quanto non si riconosca nei pre- supposti oggettivi di una cultura del tempo15

avviandosi sulla strada di ciò che chiamerà misosofia.

Se “apparire idioti” è strategia di battaglia, essere idioti è però con- dizione inevitabile del pensante, in quanto sua gabbia trascendentale, come ben mostrato da Paolo Vignola, che così sintetizza l’immane que- stione dell’origine del filosofare in Deleuze: “Stupida genesi del pensie- ro”16

.

Oltre che immane, si aggiunga, la questione trascendentale deleu- ziana è già autorevolmente approfondita da tanti autori; in effetti, l’edi- ficazione dell’empirismo trascendentale, gesto tanto kantiano nella forma quanto antikantiano nella determinazione, rappresentando uno sfregio al senso comune, anche filosofico, e una potente rivendicazione del paradosso quale via maestra della filosofia, ha sollecitato l’attenzio- ne di numerosi interpreti: se lo studio forse più apprezzato sul tema si deve ad Anne Sauvegnargues (Empirisme trascendental)17, in Italia di grande sottigliezza sono certamente i testi di Palazzo e Rametta18, men-

14 Ibidem, p. 231.

15 Ibidem, p. 230.

16 Vignola, P. (2014). La stupida genesi del pensiero. Trascendentale e sintomato-

logia in G. Deleuze, Philosophy Kitchen, n. 1/2014, pp. 88-109.

17 Sauvagnargues, A. (2009). Deleuze. L’empirisme transcendantal. Paris: Presses

Universitaires de France.

18Rametta, G. (2010). Il trascendentale di Gilles Deleuze. In Id. (a cura di), Meta-

morfosi del trascendentale. Percorsi filosofici tra Kant e Deleuze. Padova: CCLEUP; Palazzo, S. (2013). Trascendentale e temporalità. Gilles Deleuze e l’eredità kantiana. Pisa: ETS.

tre interessantissimo per la sua vena in un certo qual modo più deleuzi- sta di Deleuze è quello di Luisetti19, in cui si critica la riuscita dell’espe- rimento immanentistico del nostro, proprio perché l’esperimento rimar- rebbe inesorabilmente impigliato nel kantismo.

L’autore che più qui interessa però è proprio il primo citato Vignola, in quanto attentissimo, già dal titolo del proprio contributo, a sottolinea- re la centralità della stupidità nella genesi trascendentale.

Il passo di Differenza e Ripetizione che lo studioso italiano giusta- mente ritiene dirimente a tal proposito così suona: “La stupidità, che è una struttura del pensiero come tale e non un modo di ingannarsi, esprime in linea di principio il non-senso del pensiero; essa quindi non è né un errore né un ordito di errori”20.

La stupidità, dunque, non più riferibile all’errore, viene messa in re- lazione a un modo basso, penoso, triste di pensare, che, nietzscheana- mente, prolifera per via delle forze re-attive.

Compito titanico del pensatore è di uscire da questa condizione di stupidità, non già grazie alla propria impensabile buona volontà, o a un raffinato metodo, ma sfruttando l’azione, violenta se non evenemenzia- le, di un fuori che preme su di lui e che al contempo lo precede, o anco- ra, volendolo dire con una sfumatura leibniziana, di cui egli non è che una piega21.

L’uscita, mai riuscita del tutto, poiché la stupidità genetica rimane sempre sullo sfondo, o meglio resiste come una sorta di antimateria del pensiero, conduce al pensiero della differenza, che, qui sta il punto che interessa in particolar modo, si costruisce solo in opposizione all’imma- gine classica o dogmatica del pensiero, quella basata sul modello del riconoscimento.

In una sorta di iconoclastia del pensiero, per Deleuze è addirittura l’immagine in se stessa a dover essere abbattuta, in quanto sempre, ine-

19 Luisetti, F. (2011). Una vita: pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità. Milano:

Mimesis.

20 Vignola, P. (2014). La stupida genesi del pensiero. Trascendentale e sintomato-

logia in G. Deleuze, Philosophy Kitchen, n. 1/2014, pp. 88-109.

21 Deleuze, G. (2004). Leibniz e il barocco. (D. Tarizzo Trad.). Torino: Giulio Ei-

naudi. (Opera originale pubblicata 1988). [Traduzione italiana di Le pli. Leibniz et le Baroque].

vitabilmente, presupposto del pensiero del riconoscimento; tale distru- zione opera in vista di un paradossale pensiero senza immagine, che valorizzi il proprio emergere forzoso e improvviso.

La paradossalità dell’intendimento deleuziano, consistente nel fatto che risulta difficile distruggere un’immagine senza avanzarne un’altra, emerge anche dalle parole di Vignola.

In esplicita opposizione alla “immagine del pensiero” veicolata da Kant, il quale definisce il pensiero come una facoltà che opera astratta- mente, ossia autonomamente rispetto al segno, Deleuze concepisce la genesi dell’atto di pensare come il prodotto di un campo di forze, che si incarnano nel segno e determinano l’emergere del senso22.

Tale immagine del pensiero, che non ha origine in Kant, bensì in Platone e Aristotele, segnando la tradizione filosofica maggioritaria e impedendo il formarsi di un pensiero della differenza, va abbattuta, e ciò criticando le tre tesi che la supportano: 1) la predisposizione del pensiero nei confronti del vero, per cui l’esercizio corretto del pensiero deve condurre alla verità; 2) sono le forze estranee al pensiero, come le passioni e le percezioni fallaci, a distogliere dalla verità: “non essendo soltanto esseri pensanti cadiamo in errore, prendiamo per vero il falso; l’errore sarebbe dunque l’unico effetto che le forze esterne, opposte al pensiero, esercitano su di esso” (Deleuze, 2002, p. 154); 3) per garanti- re l’efficacia di questa predisposizione del pensiero nei confronti del vero, è necessario un metodo, in grado di evitare gli errori e le sviste del ragionamento, attraverso il quale poter raggiungere, appunto, l’idea- le astratto della Verità, “ciò che è valido in ogni tempo e in ogni luo- go”23

.

Compiuta questa critica, si può finalmente giungere alla clinica e dunque volgere attenzione alla letteratura, luogo par excellence nel quale scovare la fioritura di un’immagine filosofica del pensiero rigoro- samente alternativa a quella offerta della filosofia ufficiale.

22 Vignola, P. (2014). La stupida genesi del pensiero. Trascendentale e sintomato-

logia in G. Deleuze, Philosophy Kitchen, n. 1/2014, 88-109, p. 94.

L’opera privilegiata per battere questo sentiero minore24

è, secondo Deleuze, la Recherche di Marcel Proust, la cui vena implicitamente an- ticartesiana può forse evincersi da questa semplice proposizione: “Cia- scuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusio- ne delle proprie”25

.

Dall’opera proustiana, cui Deleuze dedica un intero libro, è ricavabi- le un’immagine del pensiero altrettanto puntuale e potente di quella elaborata dalla filosofia scricto sensu.

Secondo il nostro, contro il modello della olimpica predisposizione al Vero del meditabondo pensatore, emerge in Proust il fatto che “cer- chiamo la verità quando siamo indotti a farlo in funzione di una situa- zione concreta, quando subiamo una specie di violenza che ci spinge a questa ricerca”26

.

L’opera proustiana andrebbe infatti secondo Deleuze interpretata non come un’esplorazione sulla memoria, bensì come un articolato ap-

prentissage nientemeno che della verità.

Il faticoso apprendimento avviene in relazione a un’esigenza im- provvisa e non secondo le modalità prescritte dalla filosofia, considera- ta come “un esercizio volontario e premeditato del pensiero per mezzo del quale arriveremmo a determinare l’ordine e il contenuto delle signi- ficazioni obiettive”27.

La filosofia infatti partecipa degli stessi limiti imputati all’amicizia, entro la quale gli amici si accordano sui significati di cose, esperienze e via dicendo, costringendosi entro una cornice stabilita in anticipo.

Alla coppia costituita da amicizia e filosofia il Proust di Deleuze contrappone dunque quella formata da amore e arte, segnata invece da

24 Nel senso del “minore” esplicitato in Deleuze, G., Guattari F. (2010). Kafka. Per

una letteratura minore. (A. Serra Trad.). Macerata: Quodlibet. (Opera originale pubbli- cata 1975). [Traduzione italiana di Kafka. Pour une littérature mineure].

25 Proust, M. (2006). All’ombra delle fanciulle in fiore. (M.T. Nessi Somaini Trad.).

Milano: BUR (Opera originale pubblicata 1919). [Traduzione italiana di A’ l’ombre des jeunes filles en fleurs].

26 Deleuze, G. (2001). Marcel Proust e i segni. (C. Lusignoli e D. De Agostini

Trad.). Torino: Einaudi (Opera originale pubblicata 1964). [Traduzione italiana di Mar- cel Proust et le signes], p. 16.

una necessitata reazione all’imprevisto, che fa segno all’innamorato o all’artista (antilogos dunque!)28.

Proprio “segno” è parola chiave dell’apprentissage proustiano: se- gni sono quelli che il narratore e protagonista si trova a decifrare in rapporto alla mondanità (si pensi ai Guermantes), all’amore (ad es. l’in- contro Charlus-Jupien) e alle impressioni o qualità sensibili (madeleine, campanili, rumori e molto altro).

L’apprendimento forzoso che scaturisce dall’incontro con una plura- lità di segni rappresenta per Deleuze l’immagine del pensiero disegnata da Proust in opposizione a quella classicamente filosofica.

Tale immagine del pensiero si basa sulla considerazione che “L’in- telligenza ha bisogno di essere forzata, deve subire una costrizione che non le lasci scelta”29

.

Bisogna, secondo il Proust deleuziano, farsi tutti egittologi e impara- re la decifrazione dei geroglifici che si parano innanzi a noi: “Le mimi- che della signora Verdurin, la sua paura che le si stacchi la mascella, i suoi atteggiamenti artistici che somigliano a quelli del sonno, il suo na- so gomenolato formano per gli iniziati tutto un alfabeto”30

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Questo alfabeto può essere, avverte Deleuze, da principio deludente nella misura in cui, in un dato campo di segni, non troviamo negli og- getti ciò che ci saremmo aspettati di trovare.

Alla delusione scaturente dall’ottica oggettivistica segue un mecca- nismo di compensazione di tipo soggettivo, questo lo schema tipico del- l’apprendimento.

Secondo Deleuze, però, tertium datur oltre soggetto e oggetto:

Al di là degli oggetti designati, al di là delle verità intellegibili e formu- late, ma anche al di là delle catene di associazioni soggettive e delle re- surrezioni per somiglianza o contiguità, vi sono le essenze, che sono alogiche o sopra-logiche31. 28 Ibidem, p. 97. 29 Ibidem, p. 68. 30 Ibidem, p. 86. 31 Ibidem, p. 36-37.

L’essenza, elemento ontologico cardine del Deleuze proustiano, viene colta in prima battuta attraverso l’arte.

L’essenza, sempre seguendo Deleuze, “costituisce la vera unità del segno e del senso; essa costituisce il segno, in quanto irriducibile al- l’oggetto che lo emette; essa costituisce il senso, in quanto irriducibile all’oggetto che lo afferra”32.

La natura dell’essenza per l’autore di Marcel Proust e i segni non è dunque meramente soggettiva, e in ciò in ragione di un’ontologia che riprende il tema neoplatonico della complicatio, e rilegge, in chiave metafisica, l’opera di Simondon (e ancora, bisognerebbe dire, muove dalla costituzione humeana del soggetto nel dato; riflette sul supergetto, che viene in essere contestualmente all’esperienza, dunque non la pre- cede, à la Whiteheade; rielabora il tema dell’individuo concepito leib- nizianamente come una piega del fuori di cui partecipa).

Basti qui indicare che il Deleuze proustiano scrive “è proprio l’es- senza che, ravvolgendosi su sé medesima, costituisce la soggettività. Non gli individui costituiscono i mondi, ma i mondi inviluppati, le es- senze costituiscono gli individui”33

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La potenza individualizzante dell’essenza è la potenza della Diffe- renza, altro tema cardine della metafisica deleuziana, affrontato com- piutamente nel citato testo Differenza e Ripetizione, laddove invece il rapporto tra essenze, immateriali, e corpi, materialissimi, è ripreso e sviluppato in Logica del Senso34.

Bisogna al proposito rilevare che il concetto di essenza viene poi so- stanzialmente abbandonato da Deleuze, lungo la linea di una concezio- ne metafisica mutata nel corso della sua produzione anche in relazione alla collaborazione con Guattari (si pensi soprattutto a Millepiani)35, mentre rimane immutato, o persino cresce, l’interesse deleuziano per i segni.

32 Ibidem p. 37.

33 Ibidem, p. 42.

34 Deleuze, G. (2011). Logica del senso. (A. Vergidilione Trad.). Milano: Feltrinelli

(Opera originale pubblicata 1969). [Traduzione italiana di Logique du sens].

35 Deleuze, G., Guattari, F. (2003). Millepiani. Capitalismo e schizofrenia.

(G. Passerone Trad.). Roma: Cooper Castelvecchi. (Opera originale pubblicata 1980). [Traduzione italiana di Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie].

Per il nostro, infatti, sempre attraverso una valorizzazione dei segni si distrugge l’immagine del pensiero classica o dogmatica.

Un esempio dell’attenzione spiccata di Deleuze al tema si ricava dall’introduzione a Cinema 1. L’immagine-movimento: “Questo studio non è una storia del cinema. È una tassonomia, un tentativo di classifi- cazione delle immagini e dei segni”36

e ancora più incisivamente dalla seguente affermazione, sempre del filosofo francese: “Tutto quel che ho scritto era vitalismo, o almeno spero che lo sia, e costituiva una teoria dei segni e dell’evento”37.

L’accostamento alla semiotica deleuziana può agevolmente avvenire tramite Paolo Fabbri, che in un densissimo contributo definisce in pri- ma battuta la stessa come una “una specie di ‘trans-semiotica’ come attività costante di traduzione”, sottolineando come per Deleuze “i se- gni e gli autori non esistono di per sé, ma solo in traduzione con altri segni e con altri autori” e di conseguenza “il filosofo non può che esse-