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La nuova provincia nelle opere di regime

1. Varese: dalla città giardino alla città di regime, uno stato dell’arte

1.2 La nuova provincia nelle opere di regime

Dieci anni dopo l’istituzione della provincia di Varese, avvenuta nel 1926, si traevano già i risultati di un’intensa attività edilizia e programmatoria dei 116 comuni che la costitui- vano. L’occasione era offerta dall’VIII Censimento generale della popolazione, pubblica- to dall’Istituto Centrale di Statistica nel 1936.

Tutto viene inquadrato nel grande progetto programmatorio e ideologico che il Regime si era prefisso nell’ambito della gestione dei molteplici problemi di ordine sociale, econo- mico e morale lasciati ancora insoluti al termine del primo conflitto mondiale: dalle opere di viabilità a quelle dell’edilizia, della bonifica e dei collegamenti.

Nasce l’esigenza da parte della classe dirigente di una particolare cura verso tutti quei fat- tori esteriori che condizionano in modo rilevante la stessa società cui vengono indirizzati. Varese, insieme ad altre cittadine di provincia decentrate come Bergamo, Como e Cremo- na, tanto per citare quelle con caratteri più similari, diventa un’occasione unica di manife- stazione della volontà politica di segnare in modo profondo una comunità e un territorio 1.

La nuova provincia di Varese fu costituita per una circoscrizione di 1.196,69 kmq. Nel 1936 assommava una popolazione di 395.896 unità con una densità di circa 326 per kmq. I 116 comuni venivano così suddivisi per numero di abitanti: 4 con popolazione dai 20.000 ai 50.000; 1 con popolazione dai 10.000 ai 20.000; 11 con popolazione dai 5.000 ai 10.000; 34 con popolazione dai 2.000 ai 5.000; 66 con popolazione inferiore alle 2.000 unità.

Poco tempo prima, nel 1933, si erano già delineati i consuntivi che, nel primo decennio di opere pubbliche realizzate a Varese e provincia, vedevano delinearsi i risultati di quella che veniva considerata una “radicale e moderna trasformazione edilizia”, richiamandosi ai “criteri urbanistici intonati ad una giusta e sana modernità” per arrivare a rendere la città “più degna del suo nuovo ed altissimo ufficio, facendola così allineare senza fatica con le città più evolute e moderne della penisola”.

Ma al di là dei toni trionfalistici, bisogna tenere presenti alcune considerazioni molto più complesse che non le sommarie conclusioni a cui è arrivata molta critica storica nell’af- frontare queste problematiche. Innanzi tutto il necessario superamento del generico con- cetto di “provincia” come termine limitativo. In realtà, negli anni in questione, fu proprio questa entità, con le sue particolari e vivaci esperienze, a formare quella serie di operatori culturali che ebbero la capacità di influenzare profondamente la cultura del momento. Per quanto riguarda l’architettura, basterebbe ricordare che buona parte dei protagonisti del cosiddetto “Novecento” milanese vengono proprio dalla provincia e alla provincia guardano nella loro attività progettuale. Personaggi come Giovanni Muzio o Alberto Al-

molte delle loro opere. Lo stesso “Movimento Moderno”, che si affacciò nel nostro paese quando il Fascismo era già al potere, trovò la sua espressione più diffusa in diverse realtà provinciali. Da qui perciò l’interesse e la necessità storiografica di allargare l’attenzione anche ai centri minori dell’area lombarda, esperienza indispensabile per una conoscenza globale e integrata della vera cultura di “Novecento”.

Solo in questi ultimi anni sono stati superati alcuni equivoci che permanevano nel valu- tare complessivamente il ventennio fascista, trattato in modo troppo “di parte” per potere davvero formulare un giudizio scientifico o quanto meno onestamente storico. Nel caso della provincia poi la situazione si fa più complessa. Gli stessi problemi emersero nel 1987 nel presentare un’analoga ricerca, circa la situazione bergamasca, culminata con una mostra intitolata “Bergamo 1935-55, maniera e simbolo dell’architettura”.

Bergamo e Varese possono venire accostate come prototipo di quelle realtà italiane che furono rappresentative di un consenso al Regime che andò al di là del solo fatto ideolo- gico, per diventare accettazione di atteggiamenti sociali e culturali più ampi, sostenuti da un netto rafforzamento della presenza di una ricca classe borghese, favorita da quel positivismo populista che si fuse con l’esangue aristocrazia locale. 2

Anche Varese raccoglieva una condizione ideale per assurgere a ruolo di città simbolo: la sua tradizione artigianale, lo sviluppo industriale, la presenza di un’importante tradizione artistica e, soprattutto, la sua collocazione geografica, cerniera tra la provincia di Como e Milano, (alle quali apparteneva in precedenza il suo territorio), cuscinetto con il Piemonte lungo l’asse del lago Maggiore con la provincia di Novara, e confine con la Svizzera. L’amenità dei luoghi fu subito esaltata con la creazione del mito della “provincia giar- dino”, definizione che andava naturalmente a sovrapporsi allo stesso capoluogo, quasi a creare una simbolica continuità d’immagine tra città e suo territorio.

A questo proposito veniva tentato un curioso rapporto tra prodotto industriale e sua area di appartenenza, sottolineando come le industrie varesine, invece di essere concentrate in grandi complessi come nel milanese e lungo l’Olona, erano sparse in modo armonico, integrate nell’ambiente.

Dietro a questa idealizzazione che sconfinava tra l’immaginario e il reale si muoveva però una grande massa di capitali che veniva riassunta nei cento milioni di opere pubbliche realizzate tra il 1922 e il 1938 tra Varese e provincia. L’ambizioso programma prevedeva la risoluzione dei problemi urbanistici, igienici, il potenziamento dei servizi pubblici e la creazione della rete fognaria che ancora non esisteva. Ben sessanta milioni furono spesi solamente in opere per il comune3.

Sotto il motto di “lavorare e costruire” veniva così rafforzata l’identità della città capo- luogo e della stessa provincia, rivalutata dalle “opere di regime”, dalle vie modernamente

fino all’apoteosi monumentale di Piazzale Monte Grappa. I problemi amministrativi e burocratici non furono da sottovalutare: si resero necessarie ben sessanta espropriazioni private in aree urbane altamente remunerative, intervenendo in tutti i rioni con nuovi edifici scolastici, case popolari e la sistemazione delle relative opere di urbanizzazione. In particolare fu dato ampio spazio alle opere stradali che possono raggiungere il maggior utile nel rapporto costo-realizzazione. In Varese la situazione viaria era particolarmente carente: al principio del decennio fascista la pavimentazione consisteva infatti in pochi ciottolati e in massicciate per la raccolta delle acque. La ex Piazzetta del Podestà risultava lastricata nel 1915 con granito porfiroide di Cuasso al Monte e solo due erano le strade asfaltate, quella di Masnago e quella per Sant’Ambrogio. Successivamente si raggiunsero i quindici chilometri, arrivando ad una sistemazione di circa il 30% di tutta la superficie stradale.

Per valutare correttamente queste cifre bisogna ricordare che la provincia di Varese, per densità di popolazione, si collocava al quarto posto fra le province italiane, superata solo da quella di Napoli e di Genova. Dai dati raccolti nelle tabelle statistiche del periodo questa prerogativa si evidenzia fortemente nel privilegiare la realizzazione e la gestione delle opere igienico-sanitarie, quelle che venivano pomposamente definite come “le rea- lizzazioni del Regime nel campo sociale”.

Solamente una profonda propaganda ideologica poteva sostenere uno sforzo economico ed amministrativo così rilevante, facendo convergere il consenso popolare con la parteci- pazione di enti pubblici statali, provinciali, opere pie ecc.

Molti punti programmatici erano divulgati in numerosi opuscoli propagandistici dell’epo- ca che incentravano l’attenzione allo sviluppo del “villaggio” come rifugio della famiglia, offrendo tutto ciò che avrebbe dovuto servire per l’educazione del corpo e della mente; scuole, palestre, assistenza, servizi igienici e assicurazioni sui rischi sociali e fisici. 4

Una rapida analisi degli interventi, eseguiti come si evidenzierà poi nel settore dedicato alla schedatura degli edifici, conferma tutto questo.

Ogni paese si arricchirà della Casa del Fascio, della Casa della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), di nuovi o riadattati edifici scolastici, di case comunali più funzionali, di asili infantili, case di riposo, mattatoi pubblici, serbatoi d’acqua potabile, colombari e ossari nei cimiteri.

Questo stretto legame tra ideologia e realizzazione di opere assume una grande importan- za perché determinato da particolari spinte di ordine culturale che avevano come riferi- mento gli uomini politici del tempo attraverso le direttive centrali.

Queste sostenevano la necessità di operare in modo diretto nella società, tenendo conto delle esigenze delle nuove generazioni.

porto tra uomo e ambiente, cogliendo le “numerose e reciproche interferenze, per cui le soluzioni adottate e gli interventi effettuati determinano nuovi sistemi di vita; da ciò la coscienza dell’importanza che assume l’attività architettonica e la preoccupazione soprat- tutto etica che guida l’architetto nel suo operare”5.

Accanto alla politica di costruzione di edifici destinati a servizi pubblici e rappresentativi si deve anche ricordare quella delle abitazioni popolari che si perfezionò via via partendo dalla Legge del 1919 che regolamentava la costituzione, il funzionamento degli Enti auto- nomi, delle Cooperative edilizie, provvedendo alla concessione dei contributi. Il Governo Fascista, con la legge dell’ottobre del 1923, regolò in modo più omogeneo l’elargizione degli stessi fino ad arrivare, con i provvedimenti del 1926, alla distribuzione “una tantum” di un contributo a fondo perduto di 100 milioni, rendendo così possibile ad Enti e Co- muni la realizzazione di circa mezzo miliardo di costruzioni con finanziamenti di diversa origine e, attutendo i privilegi corporativi precedenti. Ma la frammentazione di più uffici impegnati nella stessa attività, con conseguente dispersione di energie e disparità nella diffusione regionale degli interventi, portò alla riforma del 1935 con cui si costituiva in ogni Provincia un Ente capace di sviluppare un’efficace attività edilizia a favore delle classi più bisognose, creando anche un organismo centrale di direzione, di controllo e di raccolta di tutti i mezzi da destinare all’edilizia popolare.

Sorse così nel 1936 l’“Istituto Fascista Autonomo Provinciale per le Case popolari”. Tra le provincie dotate vi compariva per la Lombardia Varese, insieme a Bergamo, Mantova, Milano.

Già nel 1909 erano sorti a Varese i quartieri Ripamonti e Mac Mahon per opera della So- cietà Umanitaria e dell’allora I.C.P. E’ prima della nomina di Varese a provincia però, nel 1923, che viene inaugurato l’intervento forse più interessante in questo settore, il quar- tiere Belfiore, in asse col viale omonimo, progettato dall’ingegnere Edoardo Flumiani. Sorgono così 40 costruzioni dalla caratteristica tipologia a “villino” a tre piani, composta da 4 a 6 unità abitative. Nel 1924 nasce invece, sempre ad opera dello stesso progettista, il quartiere Vittoria che definisce un’area urbana sostanzialmente assegnata a classi sociali miste, come operai e impiegati.

Tra il 1926 e il 1927 lo Stato interviene stanziando la cifra di 1.000.000 di lire per la co- struzione di case popolari, cifra che però non raggiunge lo scopo di fare fronte al globale bisogno abitativo.

Anzi, l’alienazione dei nuovi alloggi e la loro assegnazione “in fittanza”, secondo nuove norme governative, ha come risultato di favorire la piccola borghesia nell’acquisto delle abitazioni anche tramite l’Ente I.N.C.I.S. (Istituto Nazionale Case agli Impiegati dello Stato) fondato nel 1924.

a dove far fronte all’arrivo dei nuovi funzionari, così come a trovare adeguate risposte ai bisogni abitativi degli sfrattati per gli sventramenti operati nella creazione del nuovo centro civico.

Vengono previste 24 nuove abitazioni progettate nel 1929 dall’ingegnere Flumiani. Il complesso è collocato a sud della città, in un’area di ottimale valore ambientale.

Un altro intervento è progettato nel 1933 dall’architetto Mario Loreti in viale Campigli. L’ultimo intervento consistente avviene nel 1939. Situato lungo la via Belforte è rappre- sentato dall’attuale Quartiere Garibaldi, al tempo dedicato a Costanzo Ciano.

Il progetto dell’ingegnere Sergio Donnini prevedeva 128 alloggi in blocchi di edifici di 4 piani, richiamandosi ad evidenti esempi realizzati nella capitale lombarda alla luce della lezione razionalista.

Il segno del Regime si evidenzia però negli edifici pubblici che, attraverso la ricerca della monumentalità, tendono a dare al capoluogo l’immagine del nuovo centro civico, in con- trasto con interventi sul tema di natura minore sparsi nella provincia.

Ancora una volta vengono richiamate tutte le simbologie ormai sperimentate in quello che è stato definito “Novecentismo”, movimento cioè in cui la lezione razionalista viene fagocitata dall’ideologia del regime. 6

Verticalismi accentuati, sviluppi lineari trilitici, soluzioni d’angolo, volumi squadrati, marcati rapporti di vuoti e di pieni caratterizzano le nuove opere. Il tutto viene legato dall’uso di materiali nuovi come il klinker, di importazione come il travertino o di riuti- lizzo come i materiali lapidei tradizionali: granito, serizzo, ceppo, ecc.

I rapporti di verticalità vengono maggiormente utilizzati nell’ingresso dell’Ospedale psi- chiatrico, al quale può venire accostato il Palazzo Littorio, oggi sede della Questura, e la Torre Littoria di Piazzale Monte Grappa.

Un esempio più contenuto ma molto interessate è quello dell’allora Casa del Mutilato, progettata dall’architetto Ottavio Coletti, costruita in travertino e litoceramica, con la torre quadrata segnata da una profonda scanalatura e l’ingresso contrassegnato da un co- lonnato di serpentino verde scuro paragonato per la sua austerità “ad un tempio”.

Più tradizionale il richiamo piacentiniano al Palazzo delle Corporazioni, oggi “Camera di Commercio Industria e Agricoltura”, al quale possiamo affiancare la sede della Compa- gnia assicuratrice “Riunione Adriatica di Sicurtà”, la ex Casa dei lavoratori dell’industria e il corpo centrale dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele III.

Un discorso a parte meriterebbe il Palazzo delle Poste progettato da Angiolo Mazzoni, che esalta in modo equivoco alcuni valori formali e contenutistici forse troppo divergenti fra di loro. Molto diverso invece è il problema relativo alla scelta per l’allora Palazzo del Go- verno, attuale sede della Provincia e della Prefettura. Siamo nell’ambito del recupero di

ebbe nella storia varesina. È infatti questo un caso piuttosto singolare, considerato che il Regime preferiva per le sue sedi ufficiali opportuni edifici “ex novo” dalle caratteristiche completamente diverse. Il Palazzo veniva definito “una superba villa di stile barocco”, costruita alla fine del settecento dai Marchesi Recalcati. Fu frequentata da Giuseppe Pa- rini e, passata poi in proprietà ai conti Morosini, divenne ritrovo di patrioti e dello stesso Giuseppe Verdi che, trascorrendo le vacanze, vi scrisse fra l’altro parte de “I Lombardi”. Nel 1874 la villa fu trasformata in Grand Hotel, ospitando sovrani e principi. Il suo ac- quisto e ristrutturazione comportò la spesa di circa 4.000.000 di lire e l’edificio conservò “le linee monumentali e la sontuosità degli ambienti”. Interessante il paragone economico con il vicino Palazzo Littorio, sede della Federazione Provinciale Fascista, che per la co- struzione e l’arredamento del quale fu spesa la cifra nettamente inferiore di lire 2.500.000 nonostante la mole e la qualità dell’opera.

Alla fine del 1939 Varese poteva ben dire di avere raggiunto lo scopo che si era prefissa. Nei palazzi, nelle vie e negli edifici produttivi era evidente l’impronta della nuova città ancora in pieno sviluppo nonostante le nubi che si andavano ad addensare sul futuro. La precedente “città Liberty”, sorta quasi come sfogo alla villeggiatura dei milanesi più abbienti, stava ormai assumendo un ruolo autonomo minore, che trovava le sue motiva- zioni nella nomina a capoluogo di provincia delle stesse città.

Lo strumento decisivo a questo risultato fu il Piano Regolatore di cui si dotò, realizzato dall’architetto Vittorio Morpurgo tra il 1928 e il 1929. Questo individuerà le linee strate- giche di questo cambiamento che, data l’esiguità del precedente tessuto urbano, si risol- sero sostanzialmente nel ridisegno del nucleo centrale con la creazione di un’area che fu oggetto, nel 1933, di un Concorso nazionale per la sua realizzazione.

Note

1. E. Guglielmi, in “Varese 1926/1940, l’apoteosi della Provincia”, catalogo in occasione della mostra, Ferrari editrice, Varese, 1992

2. E. Guglielmi, “Il Novecento a Bergamo”, raccolta di lezioni tenute presso il Corso Monografico dedicato al “Novecento” nell’area lombarda e milanese, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dispensa n. 8 Milano 1982/1983.

3. C. Ferri, L. Pinti (a cura di), “Panorama di realizzazioni fasciste”, S.A.E.G., Roma 1940. 4. M. Casalini, “Le realizzazioni del Regime nel campo sociale”, I.E.M.I.A., Roma 1938.

5. M. Melli, “La piazza Monte Grappa di Varese”, ricerca effettuata presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Milano 1965.

6. E. Guglielmi, “Novecento e Novecentismi” (The Interwar Years and their Movements in Milan) in “Ha- bitat Ufficio” n. 34, Milano 1988.

4. Quadro dimostrativo delle opere realizzate dal Re- gime nei Comuni della provincia di Varese

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