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Un nuovo inizio, e un passato che non passa.

Huambo Ritessere i fili del proprio vissuto: Tia Graça

8. Un nuovo inizio, e un passato che non passa.

Nel 1991 gli attacchi costanti dei guerriglieri sono cessati, ma ormai della comunità

di quel Bairro non restava molto. Le case erano state in gran parte distrutte, bruciate o

svuotate a forza di chi le abitava; la scuola in cui lavorava Tia Graça era ormai chiusa da

mesi, e così anche l’ospedale, che negli ultimi tempi aveva funzionato come quartiere

generale dei combattenti, insediati nella zona, di cui controllavano tutte le vie d’uscita,

utilizzando la popolazione come “scudo” alla controffensiva dell’esercito governativo. La

guerra sembrava fosse finita, le truppe erano state via via smobilitate, ma del figlio di Tia

Graça non si erano avute più notizie. Ormai non c’era più nulla che la tenesse legata a quel

luogo, il cui nuovo assetto era divenuto ormai illeggibile, e faticava a riconoscerne

un’appartenenza, dei punti di riferimento. Suo marito allora l’ha portata via di lì, a Huambo,

dove lui aveva dei parenti e pensava di poter trovare un impiego all’ospedale, perennemente

sotto organico e per il momento ancora funzionante.

TIA GRAÇA: Honòrio [suo marito] voleva partire per Huambo, lasciare dietro di noi la guerra e cominciare una nuova vita a Huambo, ma io non volevo, perchè dovevo aspettare ancora. [...] Poi...era il 1992, e avevamo aspettato tanto e non era successo niente, e io lì mi sentivo morta. E allora un giorno è venuto un fratello di Honòrio con la macchina e ci ha portati a Huambo. Non mi ricordo quel viaggio perchè io non volevo andare e non ho voluto vedere niente. Hanno fatto tutto Honòrio e suo fratello...

prendere le cose, sai, fare tutto. [...] Io in quei giorni stavo sempre nel buio, ero stanca perchè non riuscivo a dormire perchè quando chiudevo gli occhi tornavano tutte le immagini, tornava tutto. [...] Tu forse vuoi sapere di come erano le cose in quei tempi qui a Huambo, ma io non ricordo molto. Prima siamo stati dalla famiglia di Honòrio, e lui lavorava all’ospedale [...] poi un giorno mi ha portata in questa casa, che era una di quelle dei portoghesi, vuote, e allora si potevano prendere. [...] il governo aveva detto che tutte le case dei portoghesi erano sue e si doveva pagare... Noi siamo entrati nella casa e abbiamo pagato l’affitto, e poi due anni dopo che eravamo qui abbiamo fatto il contratto e l’abbiamo comperata.

IRENE: E’ in quel periodo che ha conosciuto Suor Maria Antonietta? Mi ha detto che lei cercava qualcuno per la scuola.

T.G: Si, lei aiutava all’ospedale e Honòrio le aveva detto che io ero maestra. E allora un giorno è venuto e mi ha detto che la suora italiana mi aspettava. Ma lui mi ha portata lì ,perchè io non volevo. Non volevo più niente. Allora, poi abbiamo iniziato a fare lezione a questi bambini che non avevano più la famiglia e stavano all’ospedale. [...] E quando finivo la lezione stavo ancora lì, ma ero così triste e stanca, e avevo male alla testa, e alle ossa, che pensavo di non poter più camminare, anche per tornare a casa, ma c’era sempre qualcuno di quei bambini che voleva venire con me, e mi seguivano fino a casa [...], e Honòrio li chiamava a giocare qui nel quintal perchè diceva che era giusto fare così, che dovevamo cercare le cose normali.

I: Ma dopo le elezioni è ricominciata la guerra qui a Huambo?

T.G: Si, dicevano che era finita ma poi c’è stata ancora e molto forte... e tutti avevano molta paura, perchè la guerra era più forte di prima. La città era divisa in due e di nuovo la vita era ferma. Noi avevamo in casa i bambini della scuola, perchè loro non avevano nessuno. Era troppo pericoloso lasciarli all’ospedale, allora Suor Maria Antonietta ci aiutava con il cibo. Eravamo sei in casa, prima Simão e Mateus, che erano fratelli, e poi Joana, che tu hai visto ieri, e poi Nguvulu che era malato... e quando sparavano nella strada ci mettevamo in casa nascosti, lontano dalle finestre perchè sparavano anche sulle case. [...] Io stavo con loro e li proteggevo perchè era giusto, ma a me non importava

vivere, non mi importava niente. E una volta mi ricordo che fuori sparavano e ho pensato di andare fuori, così finiva tutto, ...ma Honòrio mi aveva dato quei bambini da tenere...79

Il dolore per la scomparsa del figlio, la perdita dei riferimenti comunitari, del lavoro,

della stabilità, a seguito dell’inasprirsi del conflitto, avevano ridotto Tia Graça in uno stato

di prostrazione. Una profonda distanza affettiva dai luoghi e dalle cose, con la percezione di

impotenza e di inutilità di chi sente di non essere più in grado di prendersi cura della

propria famiglia. Un dolore morale che è anche un dolore fisico, corporeo. Un dolore che si

lenisce solo ricominciando a “prendersi cura” di ciò che sta intorno, ristabilendo un legame

con il mondo.

Non è scontato che quando i proiettili passano vicini alle finestre, quasi a sfiorare le

pareti, si tenti in ogni modo di salvarsi, come non è scontato che gli occhi di un bambino

che cerca rifugio e protezione quando la sua vita è in pericolo, possano riaccendere l’istinto

materno. Uscire in strada e farsi uccidere può comunque sembrare, in quel preciso

momento, la cosa più sensata da farsi. Perchè non è scontato che ci si possa prendere cura

dei figli degli altri come fossero i propri, che sono chissà dove, e chissà se ancora “sono”.

Sanare le ferite dell’anima è un percorso lungo, che necessita di tempo, tanto tempo. Il

dolore è personale, solo chi lo prova sa definirne la profondità, sa quanto sia paralizzante,

quanto limiti nel percorso esistenziale, e quei meccanismi messi in moto dalla cultura per

tentare di scendere a patti con esso, per non soccombervi, talvolta non offrono un orizzonte

di senso coerente con le proprie esigenze. Oppure, è la cultura stessa ad essere sfilacciata,

svuotata, lisa, e ci si trova soli a fronteggiare il proprio soffrire.

Ernesto De Martino, che ha affrontato il tema della morte tenendo conto

dell’insegnamento crociano, ma apportando un proprio importante contributo nel panorama

degli studi del dopoguerra, ha proposto il concetto di “crisi della presenza”, da intendersi

come incapacità della realizzazione di un “appaesamento” nel mondo, come perdita di

quella “tensione che ci spinge ad operare, nei termini di una capacità di azione e di

trasformazione del mondo e nel mondo”80, nel momento in cui si è sopraffatti da un dolore

straziante, quale può essere “la morte fisica di una persona cara o il dispiegarsi delle forze

naturali ciecamente distruttive”.81 In quelle situazioni, “invece di far passare ciò che passa,

[...] noi rischiamo di passare con ciò che passa, senza margine di autonomia formale”.82 E

allora :

L’ombra del passato che non è stato fatto passare si distende sul progresso del fare, [...] il “presente” perde la sua autenticità esistenziale e la sua attualità storica e tende a configurarsi come simbolo cifrato del passato non oltrepassato [...] In altri termini la presenza che, in qualche dove della sua biografia, è passata con ciò che passa, resta in varia misura incapace di un autentico presente, esposta al rischio di patire il ritorno insolubile della situazione rescissa e di dover sostituire al rapporto formale con il presente storicamente determinato, il rapporto senza soluzione con il passato perduto [...].83

Si perde dunque il rapporto reale con la storia concreta del mondo culturale in cui si è

inseriti e in cui si è chiamati ad essere, ad “esserci”, e a tali “esperienze della perdita della

presenza fanno riscontro quelle della perdita del mondo, che è avvertito come strano,

irrelativo, indifferente, meccanico, [...] inconsistente.”84. Non ci si ritrova più, ci si muove

80 G. Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma, 2008, p.40

81 E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre al pianto di Maria,

Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 21.

82 Ibidem, p. 21. 83 Ibidem, p. 26. 84 Ibidem, p. 27.

come automi in uno spazio estraneo, in un orizzonte quotidiano incomprensibile, in una “vita

non vita” che non è molto dissimile da un proprio totale annientamento.

Tia Graça aveva iniziato a dedicarsi ai piccoli orfani che orbitavano intorno

all’ospedale e ai bambini di qualche conoscente in difficoltà non per propria precisa volontà,

ma sollecitata dalla contingenza e spinta dal marito, intristito dalla loro solitudine, e da Suor

Maria Antonietta, che cercava un aiuto per far fronte a quella situazione di emergenza.

Accudendo i bambini della scuola, Tia Graça è divenuta di nuovo “madre” pur avendo

“staccato la spina del sentimento”, percependo un enorme vuoto intorno e dentro di sè. E

quando la guerra è ripresa violenta, infuriando anche a Huambo, è sopravvissuta ai

combattimenti più per caso che per volontà di salvarsi. Ma quei bambini senza famiglia ormai

erano entrati a far parte di una quotidianità di azioni reiterate che piano piano stavano

andando a ricostruire filo dopo filo il suo legame con il mondo. Stavano diventando la sua

famiglia. Nessuna azione eclatante, solo prossimità e la (ri)costruzione di una consuetudine di

azioni reiterate, che nel tempo si è fatta habitus di disposizioni incorporate a partire dalla

pratica quotidiana. Non è aprendo le braccia ad accogliere in casa propria il “figlio di un

altro”, quando del proprio non si sa più nulla, che si placa il dolore. E’ sedendosi accanto a

questo nuovo bambino giorno dopo giorno, aiutandolo a prendere il cibo, facendogli scendere

la febbre, consolandolo quando un gioco finisce in lacrime, grattando via il fango dalle sue

ginocchia nella bacinella di plastica del lavatoio in cortile. E’ un’approssimazione lenta, un

procedere verso una ri-domesticazione dell’esistenza, un senso domestico di condivisione

degli spazi e dei tempi che conduce giorno dopo giorno ad un qualcosa che dà forma ad una

“struttura di sentimento” ed allontana il vuoto del dolore. Ricostruire, è possibile dunque, ma

Un po’ alla volta la casa di Tia Graça era ritornata viva, un punto d’appoggio per chi ne

avesse bisogno: c’era sempre un posto per dormire, qualcosa da mangiare e lì, a poco a poco,

si sono intessuti legami con un vicinato dal medesimo trascorso doloroso.

TIA GRAÇA: Quando poi la guerra è finita, e i ragazzi sono cresciuti, tante volte mi sedevo qui sotto il mango e chiudevo gli occhi e pensavo di essere a Biè, prima di tutto quello che è successo. Dopo tanti anni sentivo che lo dovevo fare, che era arrivato il momento di aprire di nuovo la porta al passato per chiuderla per sempre. Ma mi faceva troppo male. [...] Non ho più voluto pensarci, perchè altrimenti rovinavo tutto quello che avevamo qui.

IRENE: Siete mai più tornati a Biè?

T.G: No, no, no... Honòrio tante volte per lavoro, ma io no. Però anche lui non è mai tornato alla nostra casa. Solo faccende di lavoro. Per me no, non ho mai voluto sapere niente. Tornare lì era tornare in un luogo che non era più mio, dove tutto era finito.85

Non sempre poi la terra d’origine è il posto in cui si vuole ritornare, se tornare significa

confrontarsi con quel dolore sopito, taciuto, ma mai del tutto risolto. Per Tia Graça si era reso

necessario recidere le proprie radici, quelle radici che legano al posto in cui si è percepita per

la prima volta la possibilità di dispiegare una progettualità per il futuro, proprio perchè lì il

futuro poteva essere pensato come una legittima proiezione del passato e del presente.

Tornare a Biè significava tornare indietro al giorno in cui tutto era cambiato, a quella “ferita

cronologica, spesso non più completamente rimarginabile, che taglia in due la storia di vita, la

memoria individuale e quella comunitaria”86; tornare a Biè significava confrontarsi con

l’annientamento della propria famiglia.

Paul Ricoeur afferma che “la memoria è concepita da Aristotele come un processo

duplice, che si costituisce sul tema dell’alterità e dell’assenza, ma anche della differenza tra

l’essere padroni di un ricordo o l’esserne semplicemente sopraffatti”87. Il trasferimento a

Huambo, per il marito di Tia Graça probabilmente aveva rappresentato un tentativo di

“riformattazione” della memoria, lasciando andare i ricordi che appartenevano ad una

quotidianità precedente, per fare spazio ad una nuova possibile progettualità.88 Per lei non era

la stessa cosa, anche se forse lasciare Biè l’aveva aiutata a cicatrizzare le ferite del passato.