III Capitolo
8. Prossimità nella distanza?
Così è trascorso anche il mio ultimo mese a Huambo: giornate apparentemente “svuotate
di ogni efficacia che andasse al di là della semplice condivisione”84 di spazi, di tempi e di
racconti. Le commissioni nel centro cittadino, nei bazar dei libanesi, tutti uguali, con materiale
importato e piccoli oggetti vecchi e nuovi. Magazzini incastonati tra edifici dai muri forati dai
proiettili delle mitragliatrici e che, ristrutturati, sarebbero diventati sedi provinciali di qualche
impresa, e instabili palazzine con tubature e fili scoperti, balconi ridotti al loro sostegno di
anime di ferro, con i bambini che vi si affacciavano senza protezione. E poi le chiacchiere con
Isidora e le altre donne del banchetto dei vestiti, le passeggiate con Ngeve nella confusione del
mercato del Bairro, tra mosche indolenti poggiate su piramidi di dolcetti fritti impolverati e
venditrici che smerciavano scatolame vario allineato per colore, ciabattine di plastica e ortaggi
disposti a gruppi di massimo cinque elementi, per agevolare il colpo d’occhio dei clienti.
Percorrevo le stradine di terra battuta, spesso accompagnata da qualcuno del Bairro a
casa di questo o di quello. Abitazioni dove si era sempre già attesi e accolti talvolta con la
familiarità di interminabili saluti che interrogavano sulla famiglia, la salute, il caldo del giorno,
il freddo della notte, talvolta invece con l’ossequiosa riverenza che si riserva allo straniero.
Forse retaggio di quel “passato che non passa” e mette tutti “in posizione sbagliata”, forse
auspicio di poter ricevere un aiuto dall’ospite della suora. Quella suora che non deve lavorare
per mangiare, che ha un pozzo proprio e acqua in abbondnza ma non la dispensa al vicinato, e
si fa vedere poco in giro, preferendo trascorrere le giornate nelle quiete recintata della
missione. Le persone incontrate mi raccontavano di vicende del tempo della guerra, immagini
fissate nei ricordi che, gettate nella congerie del conflitto, ne erano riemerse tutte simili tra
loro, e dicevano di percorsi interrotti, separazioni indotte dal quel proprio “territorio inteso
come estensione del Sè”85, paesaggi frammentati e vissuti segnati da reiterate violenze e
sopraffazioni. Storie tutte simili a quella di Isidora, che si è ritrovata in una guerra tanto
lontana da lei nelle intenzionalità, quanto vicina negli effetti. Storie raccontate al passato da
persone a cui sembrava ora di aver messo un punto fermo sul presente, un presente che
comunque ancora necessitava di conferme e definizioni. Necessitava in primo luogo di tempo e
di quella “pace” che si identifica nell’ “essere lasciati in pace”, affinchè sia consentita una
ripresa dell’esistenza misurata sulla lunghezza del proprio passo, e sulla corrispondenza alle
proprie esigenze.86
Riflettevo sulla situazione, sull’andamento della mia ricerca e sull’iniziale timore di non
riuscire a costruire rapporti con le persone, restando ferma ad osservare la vita che scorreva al
di là del perimetro della missione, nella monotonia di giornate trascorse in attesa della loro
conclusione. Sarei voluta tornare a Luanda e perdermi tra i mille volti che popolavano le vie
della Marginal, una straniera come tanti, che non misura il peso delle parole dette, che non si
85 T. Giani Gallino Luoghi di attaccamento. Identità ambientale, processi affettivi e memoria. Raffaello Cortina
Editore, Milano, 2207, p 97.
86 “Per non configurarsi semplicemente un periodo di “stagnazione” tra una guerra e l’altra, la pace infatti deve
farsi “processo dinamico” In A. Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto. Antropologia della povertà
estrema, Sperling&Kupfer, Milano, 2009, p. 190), costruito “dal basso” e sostanziato sulle pratiche, sull’agire,
sull’agency delle persone che intervengono operativamente sulle nuove condizioni esistenziali e di prossimità spaziale, attraverso un lento ma costante riappropriarsi del proprio ambiente, del proprio spazio vitale e sulla possibilità di intervenire fattivamente su di esso, rendendolo un luogo confacente al sè.
sente in dovere di calibrare ogni sua singola azione. Un viso dimenticato nell’istante stesso in
cui fosse passato oltre.
E l’aria. L’aria di Huambo che era stata la mia prima percezione, arrivando, e a cui tutti
facevano sempre riferimento: un’aria fresca, sottile, pulita, come se il vento dell’Altopiano la
svuotasse di qualsiasi componente odorosa. A Luanda, invece, le sollecitazioni olfattive erano
“corpose” e costanti, odori “densi”, pieni, che si potevano seguire come indicatori di strade
diverse, e conducevano ai banchi del mercato, dove le donne friggevano la manioca e
arrostivano il pesce, al porto, dove la salsedine corrodeva le navi ed impregnava le reti da
pesca, alle vie congestionate dal traffico cittadino, ai secchi di solventi e detersivi poggiati di
fronte all’ingresso delle banche e degli uffici, dove c’era sempre qualche addetto alla pulizia e
alla manutenzione delle aree d’accesso. Odori di fatica che nella capitale sembravano
rimandare alla possibilità di una più diretta percezione dell’ambiente circostante, mentre a
Huambo, appariva necessaria una maggiore attenzione, uno sforzo in più per arrivare a cogliere
la realtà contestuale.
Non trovavo una chiave d’accesso. Eppure, mi è stato detto poi, che lì nel Bairro, già
dopo qualche giorno dal mio arrivo, si sapeva chi io fossi e, più o meno, cosa facessi lì.
L’avevano chiesto le donne del banchetto alle giovani suore che stavano compiendo la loro
formazione alla missione. E mi avevano immediatamente assegnato un ruolo.
Per quanto il contesto del Bairro Macolocolo non fosse compreso tra le vie battute del
centro cittadino, le persone che lo abitano, proprio in virtù del loro personale trascorso di
prossimità all’esperienza bellica, avevano già avuto a che fare con stranieri che, a vario titolo,
si “interessavano” alla loro situazione, raccogliendo testimonianze, fornendo assistenza, in
supporto ad organismi internazionali, o istituzioni di vario genere, anche ecclesiastiche. E
quelle figure che strutturano le fila ed i circuiti del cosiddetto “sistema dell’aiuto”, che si attiva
in periodi di crisi umanitarie, di conflitto aperto o, semplicemente nelle pieghe di una storia
che struttura ingiustizie sociali e diseguaglianze.87
Come ricorda Antonio De Lauri, in relazione alla sua esperienza di ricerca in
Afghanistan, una “confusione” di ruoli tra il ricercatore e l’ “operatore dell’umanitario”, in
contesti bellici e post -bellici, difficilmente può essere del tutto eliminata, e trova al contempo
fondamento nel fatto che, ad esempio, come è accaduto nel mio caso (anche se più per
mancanza di alternative, che per predisposizione personale) chi va sul campo, spesso si
appoggi ad organizzazioni internazionali o enti religiosi per trovare alloggio e supporto
logistico.
Oltre a costituire un dilemma “personale” del ricercatore, questi aspetti incidono non solo sulle relazioni tra quest’ultimo e i suoi interlocutori, ma sovra-determinano il contesto stesso della ricerca. In questo senso, è indispensabile tentare di decostruire l’immaginario e il pre-giudizio che precedono la figura del ricercatore straniero, per poi (ri)costruire relazioni che possano essere meno influenzate da logiche umanitarie e interventiste. Ciò è realizzabile (almeno in parte), solo nel momento in cui vi è la possibilità e il tempo di impegnarsi in relazioni approfondite, durature, caratterizzate da reciprocità e fiducia.88
87 Come riportato da Alessandro Monsutti, “l’inchiesta di terreno in situazioni di crisi presenta difficoltà di non
poco conto. La presenza di agenti umanitari influenza pesantemente le relazioni che l’etnografo può costruire, ed è importante dissipare ogni confusione. Attraverso la sua presenza, il ricercatore suscita delle aspettative che non può soddisfare ed è avvicinato da persone in difficoltà che gli domandano di intercedere in loro favore e di aiutarle a risolvere problemi amministrativi”. In A. Monsutti,“Il bacio dell’etnografo: tra dono di sé e uso dell’altro sul terreno”, in A. De Lauri, L. Achilli, (a cura di), Pratiche e politiche dell’etnografia, Meltemi, Roma, 2008, p. 37.
88 A. De Lauri, Ricostruzione e ingiustizia. Riflessioni antropologiche sulla rule of law e sul lavoro dei giudici a
Kabul, elaborato finale per il Dottorato di ricerca in Scienze Umane. Antropologia della contemporaneità:
Etnografia delle diversità e delle convergenze culturali, XXI ciclo. Università degli studi Milano Bicocca, p. 208. Tale elaborato è poi stato sistematizzato nel testo: A. De Lauri, Afghanistan, Ricostruzione, ingiustizia,
“Decostruire l’immaginario” e “(ri)costruire relazioni” non pregiudicate da quella
intuitiva attribuzione di specificità di ruolo del ricercatore, che struttura approcci e definisce
interazioni, non è semplice. Non è semplice soprattutto per chi si trovi ad inquadrare la propria
ricerca nel solco di una disciplina, quella antropologica, in cui dialogicità ed intersoggettività
definiscono lo statuto epistemologico stesso.
Si tratta allora di una negoziazione continua, in cui, per riprendere nuovamente le parole
di De Lauri, “l’esperienza etnografica, diversificata e non sempre completamente controllabile,
può essere contraddistinta da relazioni di amicizia, ma anche da interessi personali, in una
commistione di fiducia e strumentalizzazione reciproca”89. Personalmente, mi è più volte
capitato di leggere al di là di quell’urgenza di raccontare, di testimoniare sofferenze e disagi i
cui responsabili erano precisamente individuabili, l’intenzione, da parte dei miei interlocutori,
di cercare una qualche forma di intervento o di denuncia, come se il mio lavoro di ricerca fosse
in un qualche modo riconducibile ad enti ed istituzioni che fattivamente potessero intervenire
in quella realtà. E nonostante i miei tentativi di scrollarmi di dosso attribuzioni di competenze
che non avevo e non avrei voluto, restava l’impressione che non tutti prendessero per vere le
mie parole.90
Ero, in fin dei conti, una ragazza giovane finita dall’altra parte del mondo ad occuparmi
di raccogliere storie di persone i cui trascorsi erano quanto di più lontano vi fosse dal mio
89 Ibidem, p. 208.
90 Filippo Lenzi Grillini e Francesco Zanotelli, nell’introduzione al loro testo Subire la cooperazione?,
riferiscono del difficile rapporto, costruito storicamente sulla base di contatti e collaborazioni, ma anche di costanti diffidenze e dure critiche tra antropologi i cosiddetti “agenti dello sviluppo”. E se “il disinteresse reciproco è stato a lungo motivato, da parte degli agenti dello sviluppo, con la supposta inutilità dell’antropologia e della sua metodologia, che sarebbe addirittura di ostacolo all’azione; le ragioni degli antropologi fanno leva, invece, sulle contraddizioni di ordine etico e strutturale ravvisabili nei progetti internazionali, poichè concepiti a partire dal paradigma del progresso e della modernità occidentali, e perchè, il più delle volte gestiti e diretti da tecnici e professionisti, poco o per nulla propensi a dare loro ascolto e spazio decisionale”. In F. Lenzi Grillini, F. Zanotelli, Subire la cooperazione? Gli aspetti critici dello sviluppo
orizzonte del quotidiano, e la questione del “posizionamento affettivo” rispetto al campo, quel
“filo rosso” che, per le motivazioni più disparate, chi fa ricerca tende tra sè e un qualche posto
del mondo, ai loro occhi forse non reggeva. E allora, anche nei discorsi, i piani espressivi
della relazione sembravano scomporsi e ridefinirsi sulla base delle questioni affrontate.
Di nuovo quella negoziazione che in certi casi mi pareva di poter leggere anche nelle
pratiche linguistiche. Ad esempio, nei dialoghi, con lo slittamento dal tu/você della forma
colloquiale, di maggiore familiarità, alla forma di cortesia, che implica lunghi giri di parole in
alternativa all’attribuzione del pronome. Ero tu/você quando mi si raccontava qualche
aneddoto, quando la costruzione di un minimo di familiarità permetteva di chiacchierare
insieme del più e del meno. Diventavo “la nostra amica che vive alla missione” quando vi era
la necessità di un favore, intercedendo presso la suora, o quando si trattava di soffermarsi su
particolari relativi ad una realtà dai miei interlocutori intesa come molto lontana da quelle che
potevano essere le mie esperienze, e che implicava una qualche forma di presa di distanza,
come se chi parlava si sentisse in soggezione. Era un avvicinarsi ed un allontanarsi continuo,
sulla base delle tematiche affrontate, di rapporti che si definivano e si ridefinivano di volta in
volta. Con Isidora, con Tia Graça ma per motivi differenti, con Ngeve e con qualcuna delle
donne del banchetto, la relazione si è strutturata in maniera più significativa, grazie ad una
frequentazione diretta e prolungata, che ha consentito l’instaurarsi di un legame.
“Fare antropologia” non è semplice per nulla, e l’auspicata “prossimità nella distanza”91,
quelle relazioni che siano di vicinanza, ma non troppo, che leghino ma non fagocitino nella
dimensione di un’affettività che diventi ingestibile, sono quanto di più complesso vi sia da
affrontare sul campo. Perchè nulla è mai dato, e si sa bene quanto gli incontri e i colloqui si
91 T. W. Adorno, Minima Moralia citato da P. Clemente “Per l’edizione critica di testi biografici orali. Appunti”
giochino sul costante bilanciamento di “avanzate” e “ritirate” da parte dei soggetti coinvolti
nella relazione. Ho capito allora che non esiste una “giusta distanza” che consenta di
mantenere l’equilibrio in ogni situazione, e che degli sbilanciamenti sono inevitabili, ma che è
fondamentale essere sempre disposti a “ricalibrarsi”, a rivedere le proprie posizioni, per
accordare il passo con chi ci sta di fronte.
Ognuno di noi porta con sè un proprio vissuto, una propria individualità. Ognuno ha dei
limiti che conosce, o che sul campo scopre di avere, e che non sempre può o vuole valicare.
Ciò che può essere accettabile per me può non esserlo per il mio interlocutore: c’è chi sarà
disposto a condividere molto, spingendosi un po’ più in là di quel che ci si aspetta da lui, e chi
tenderà a rimanere arroccato sulle proprie posizioni, senza concedere all’altro troppo di sè. In
ogni caso, perchè la relazione “funzioni”, sono necessari rispetto e comprensione per gli spazi
altrui, in una sorta di prossemica emozionale che consenta di capire fino a dove si possa
arrivare, e quando sia meglio fermarsi.
La relazione etnografica come “metafora di danza”, che implica la ricerca di un
equilibrio tra i corpi dei danzatori coinvolti in un ballo a due, per evitare sbilanciamenti, è
nota. L’elemento alla base di tale metafora, tra il continuo esercizio dei movimenti del corpo
per accordare i propri a quelli dell’altro e lo spazio condiviso dell’incontro etnografico, è la
relazione. Una relazione che, di nuovo, per“funzionare” necessita di concentrazione, attenzione
e fiducia. Ritengo tuttavia che il parallelismo citato possa essere opportunamente esteso anche
ciò che è “intorno” ai due soggetti coinvolti nella relazione. Poichè, se l’interazione tra i
“danzatori” è fondamentale, lo è altrettanto la “musica di sottofondo”, la melodia che scandisce
i ritmi e che determina gli andamenti. La musica è allora “il contesto” specifico nel quale
prende corpo la relazione, e di conseguenza, in parte ne influenza la progressione stessa. Nel
di disillusioni, mancati riscontri, frustrazioni, diffidenze dovute al costante “doversi guardare
le spalle” dai combattenti così come dai propri vicini in tempo di guerra, anche l’interazione lì,
non potrà che risentire di quella “musica di sottofondo”, di quella memoria “pesante” che
grava sul presente e che rende tutto più difficile, ogni incontro più misurato, ogni negoziazione
più sofferta.
Per concludere, mi richiamo alle parole di Unni Wikan, che si rifà all’idea proposta da
Tim Ingold di “comunione di esperienza”:
As Ingold shows, it is by painstaking engagement on a day-to-day basis in events and routines which are “theirs” so that we came to share as much as possible in them. Sharing a world with others means learning to attend to it in the same way. Such practice dispels any mystique of “resonance”, as field technique and epistemology. It is a down-to-earth concept, grounded in practical action.92
Ed ecco che il tempo, di nuovo, torna ad essere quella chiave d’accesso che tanto ero
andata cercando. Un tempo “condiviso” che porta con sè la possibilità di “esercitarsi a vivere”
come vivono le persone che abitano i luoghi da noi frequentati durante la ricerca. Un
trascorrere del tempo insieme che per tante ragioni non potrà essere totalizzante: le
“circonferenze” a cui fa riferimento Rosaldo93 non si sovrapporranno mai, così come, “per
quanto un pezzo di legno possa restare a lungo in acqua, non potrà mai diventare un
coccodrillo”94. Si tratta dunque di quell’ “esperimento di esperienza”, che si concretizza in un
92 U. Wikan, Beyond the Words: The Power of Resonance, in American Ethnologist, 19 (3), 1992, p. 471. 93 R. Rosaldo, Cultura e verità, Rifare l’analisi sociale, Meltemi, Roma, 2001, p. 48.
94 Ilaria Micheli riporta un proverbio kulango che, tradotto letteralmente, risulta: “Sebbene un pezzo di legno
resti molto a lungo in acqua, non si trasformerà mai in ciamano”. Al detto si richiama l’idea che: “sebbene un estraneo cerchi in tutti i modi di adeguarsi allo stile di vita dei suoi ospiti, studiando, osservando, sperimentando usi e costumi della nuova regione in cui si è trasferito,non riuscirà mai a fare proprie fino in fondo le nuove abitudini e a diventare diverso da ciò che è per nascita e natura”. In I. Micheli,“L’arte del dire kulango”, in M. Aime (a cura di) Antropologia del turismo, Erreffe, La ricerca folklorica, riv. semestrale, n. 56, ottobre 2007, p.128
non sentirsi comunque mai a casa propria, ma iniziare a percepire nella realtà esperita una
qualche forma di “ingannevole familiarità”95.
9 Accomiatarsi.
Nel tempo trascorso a Huambo avevo raccolto immagini, ricordi, volti che avrei portato
con me e recuperato nelle sollecitazioni della capitale. La vita nel Bairro procedeva nel “tempo
lungo” di un necessario assestamento, mentre Luanda correva nella simultaneità di una
trasformazione giocata nello spazio conteso del tessuto urbano. Prima della partenza, il
doveroso accomiatarsi. Da Ngeve, che prendendo peso, aveva perso la voglia di uscire con me,
e forse anche di parlare dei suoi progetti, di ciò che prima la faceva stare bene. Dalle donne del
banchetto, come sempre lì a chiacchierare nell’attesa dei clienti. E poi Isidora. Saluti rapidi con
l’idea che ci eravamo già dette molto in quei giorni e che sarebbe stato bello ritornare per poter
parlare ancora, di ciò che di bello si sperava potesse riservare il futuro.
Infine Tia Graça, l’incontro più difficile. L’ho ritrovata come la prima volta, seduta nel
quintal, solo, più affranta e amareggiata. Le speranze di riavere la loro casa erano ormai
sfumate e a giorni sarebbero stati costretti a lasciare definitivamente la proprietà, della quale
ormai era rimasto ben poco. Quello che non era stato distrutto dalla guerra, soccombeva a quel
nuovo corso intrapreso dal Paese. Non c’erano valigie da fare, scatoloni da preparare, non era
un trasloco. C’era solo quel che restava di sè, da portare in una nuova dimora, e la disillusione
che era più forte, alla luce dell’investimento emotivo disatteso. Tia Graça in quella casa aveva
finalmente trovato riposo, aveva ridato uno scopo alla propria vita quando pensava non fosse
più possibile, impegnandosi a far sì che quei ragazzini che seguiva potessero conoscere il senso
dell’essere bambini, vivendone la condizione nella serenità di una famiglia, in una casa sicura.
Ed ora doveva ricominciare tutto daccapo. L’ho lasciata così, alle sue malinconie, ad aspettare
che passasse il giorno, che passasse tutto quanto.
Mi sforzavo di capire cosa mi stesse lasciando il periodo trascorso sull’altopiano, ma non
era facile scavare a fondo: era un’altalena di sensazioni, in cui prima mi pareva di scorgere le
potenzialità di miglioramento, i margini di intervento sulla realtà, e poi giù, si tornava indietro, a
pensare che le difficoltà sono tante, che spesso il “ripristino del sistema” si scontra con troppi
limiti, troppi vincoli e che la ripresa dell’esistenza deve interfacciarsi con spinte contrarie, “alte e
altre” che difficilmente possono essere contrastate. Questioni che rimangono per certi versi senza
risposta, profondamente connesse alle mie personali percezioni, che confermano quanto la