Huambo Ritessere i fili del proprio vissuto: Tia Graça
6. Tia Graça, memoria di una domesticità perduta Una storia nella Storia.
Quando mi deporteranno, ecco cosa mi mancherà:
qui a casa basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che io abbia tutto in me stessa.
Dal diario di Etty Hilesum, morta ad Aushwitz il 30 Novembre 1943
Con Suor Maria Antonietta ero andata spesso a far visita a Tia Graça, a volte per
portarle del cibo, altre semplicemente per vedere come stesse. Approfittavamo delle pause
bollenti del primo pomeriggio, quando gli operai interrompevano il lavoro per andare a
mangiare. La trovavamo seduta sotto l’ombra del grande mango, nella desolazione del
quintal. Era in quei momenti che Tia Graça e suo marito approfittavano dell’assenza dei
muratori per tentare di recuperare qualche suppellettile, qualche ricordo della loro vita
precedente, prima che fosse perduto per sempre. In una di quelle occasioni, Tia Graça aveva
accompagnato anche noi all’interno di quella casa del cui “contenuto” non restava che
qualche pensile sbilenco e dei vestiti sparsi sul pavimento, ingrigiti dalla polvere e dai
calcinacci. Dalla porta di entrata si poteva individuare la successione delle stanze che si
aprivano sul lungo corridoio, interrotto su uno spazio vuoto, e Tia Graça, immobile sulla
soglia, con la scomposizione dei lineamenti di quando ci si costringe a mandare indietro le
lacrime e il dolore preme forte per uscire, evocava la memoria di un ambiente pieno, di vita
vissuta, ora collassata in un disordine di vetri ed azulejos ridotti in frantumi.
Non c’era più nulla da vedere lì dentro, lì dove un tempo c’era il “suo tutto”. Ed era
stato, di come Tia Graça fosse riuscita a (ri)costruire un “appaesamento” dopo la
disgregazione operata dal conflitto. Ma la sua vicenda era intricata e dolorosa ed ero
consapevole che sarebbe stato difficile tentare di instaurare una relazione in un momento in
cui il pensiero era fagocitato da quella dolorosa contingenza, ed avvitato sulla gestione
dell’emergenza. Ritornavano a galla tutte le paure e i “paletti” che mi sembrava doveroso
mettere alla mia ricerca, il timore di spingersi troppo in là e di oltrepassare il confine
dell’intimità e del lecito. Per un po’, con Suor Maria Antonietta ho fatto avanti e indietro
dalla casa di Tia Graça, guadagnandomi a poco a poco uno spazio nelle loro interazioni,
fino a che non è stato possibile trascorrere del tempo sola con lei, e dai primi silenzi, in cui
entrambe misuravamo il tempo lungo delle attese contorcendoci sulle sedie nella scomodità
di quel tacere, siamo giunte ad una maggiore prossimità, costruita sulla condivisione di uno
spazio fisico, che a poco a poco si è fatto luogo d’interazione.
Un giorno le ho chiesto se avesse voglia di raccontarmi qualcosa di sè, ma
ugualmente, nonostante il suo assenso, ci è voluto un po’prima che mi decidessi ad
accendere il registratore. Non volevo che Tia Graça potesse in qualche modo percepire una
“violenza nell’intervista”, speravo fosse lei a dipanare i fili del discorso, ad articolare il
dialogo scegliendo tempi e modi del racconto, sulla base di quanto ritenesse opportuno
riferire del proprio trascorso. La scelta di orientare l’analisi alla sua “storia di vita” è nata
dunque anche in relazione al particolare contesto nel quale mi trovavo a muovermi che, a
mio avviso richiedeva un “approccio non direttivo”.52
52 In questo senso, mi rifaccio alle parole di Lila Abu-Lughod circa l’approccio scelto nell’orientare la
propria ricerca: “Per un misto di questione di principio, predilezione personale e circostanze contingenti, ero riluttante a fare domande in maniera aggressiva o a condurre interviste strutturate; e ciò limitò la mia possibilità di studiare alcuni aspetti in modo sistematico. Ciò mi permise però anche di dare forma alla mia inchiesta intorno alle questioni che i beduini ritenevano più importanti e centrali”. Tratto da: L. Abu- Lughod. Sentimenti velati. Onore e poesia in una società beduina, Le Nuove Muse, Torino, 2007 (ed. or.1986), p.28.
La storia (con la s maiuscola) è il prodotto di “una molteplicità di costruzioni del
passato in dipendenza dai noi che si costruiscono nel presente e che intendono occupare un
futuro”53. Ecco perchè il rapporto tra contesto, temporalità e pluralità di soggetti produce
molteplici e differenti traiettorie storiche, che hanno avviato altrettanti diversi percorsi
individuali. Non si tratta di “partire” dalla storia del singolo per giungere ad una
generalizzazione, a tracciare un profilo generale della società: sono consapevole che quella
di Tia Graça sia una delle tante storie possibili, costruita su scelte personali e sul proprio
sentire, inscritta in un ambito di contingenze e di accadimenti individuali, ma al contempo
evocativa di un contesto più ampio. Tia Graça, o Don Viti, o Isidora, non sono “gli
Ovimbundu”, come Suor Rita non è “i Kikongo”, sono “anche” Ovimbundu e Kikongo, ma
soprattutto sono tutti angolani, vissuti in un orizzonte di guerra, in uno Stato in cui si è fatto
di tutto per dissolvere ogni possibile senso di appartenenza comunitaria. Ciò che hanno in
comune è la “cornice”, lo “sfondo”, in cui hanno poi inscritto differenti traiettorie
individuali, ed è in questo senso che l’approccio basato sulle “storie di vita” non esclude la
dimensione collettiva, poichè l’esperienza del singolo va sempre ad inscriversi in un
contesto comune, in cui, come afferma Roberto Cipriani, la “valenza sociale di ogni azione
individuale non rimane mai un mero fatto personale ma è precipitato storico di elementi
sociali ed individuali allo stesso tempo”54. Si tratta dunque di una “scelta di inquadratura”
nell’analisi, in cui il focus posto sul “primo piano” del singolo non esclude però la visione
d’insieme, quello “sfondo” in cui l’individuo si trova ad essere inserito.55
53 G. Ligi, Il senso del tempo. Percezioni e rappresentazioni del tempo in antropologia culturale, Unicopli,
Milano, 2011, p. 77.
54 R. Cipriani, Metodologia qualitativa e storie di vita, in R. Cipriani (a cura di), La metodologia delle storie
di vita. Dall’autobiografia alla life history. Euroma La Goliardica, Roma, 1987, p.354
55 Nel saggio “Per un’analisi preliminare di un protocollo di storie di vita”, Roberto Cipriani riprende una
metafora proposta da Georg Simmel: “Si vede come ‘essenza’ del sociale, come sua unità elementare naturale, ciò che gli occhiali inforcati di volta in volta e la ‘distanza’ che impongono fanno vedere della
Poichè [la storia di vita] restituisce la parola al soggetto in quanto attore sociale, essa può avvicinarsi a tutti i livelli in cui si formano, in un intreccio di influenze, i quadri conoscitivi, gli atteggiamenti e i comportamenti individuali così come essi interagiscono con le norme, i valori e le strutture sociali da un lato e, dall’altro, con un inconscio individuale socialmente costruito. Poichè riconosce storicità e una storia al membro di un gruppo o di una comunità, essa getta ponti (euristici) tra l’evolversi di una vita e la trasformazione di un contesto sociale; gli strappi di un’esistenza si articolano con le crisi storiche e microstoriche di una società; le fratture, i conflitti e le vicissitudini drammatiche di un’inconscio risuonano con le vicende diacroniche di una struttura sociale. 56
Si tratta dunque di “dare valore antropologico all’individualità”57, consapevoli che
l’individuo è parte di un mondo, si muove all’interno di esso ed il mondo stesso è costruito
da lui. Due livelli, individuale e collettivo che si “evocano” l’un l’altro e possono essere
letti come aspetti del “micro” e del “macro”, interconnessi ed interagenti tra loro. E si
intrecciano anche nelle narrazioni delle persone che, a loro volta, operano una propria
ulteriore “scelta di inquadratura” nel riferirsi a particolari aspetti della realtà in cui si è
dipanato il loro vissuto. E se Don Viti, che ha inserito se stesso ai margini del racconto di
una “storia grande”, in cui ad essere messi in luce erano gli aspetti “macro” del conflitto e
dei legami transnazionali, diversamente, Tia Graça, Isidora e le altre persone incontrate
durante il mio periodo di ricerca a Huambo, evocando il proprio personale trascorso, hanno
irraggiungibile realtà sociale in sè. [...] Ma l’aspetto interessante della metafora simmeliana sta nel fatto che un occhiale non esclude dalla vista ciò che l’altro focalizza in modo privilegiato, ma si limita a subordinarlo dalla prospettiva principale”. Tratto da R. Cipriani, E. Pozzi, “Per un’analisi preliminare del protocollo di storie di vita”, in R. Cipriani (a cura di), ibidem 1987, p. 221.
56 R. Cipriani, E. Pozzi, “Per un’analisi preliminare del protocollo di storie di vita”, in R. Cipriani (a cura
di), ibidem 1987, p. 217.
57 P. Clemente, “Per l’edizione critica di testi biografici orali. Appunti”, In Fonti orali, studi e ricerche, IV
invece posto il focus su se stesse e su come loro hanno vissuto il conflitto, in quanto
“agenti” in esso e da esso “agiti”.58
Raccontare di sè e di quel “passato che non passa” significa parlare dell’Angola
intesa anche come “spazio emotivo”, in cui, parafrasando Livia Apa, “la necessità del
racconto si interseca con le mappe cancellate dalla guerra e si crea nello sforzo di
(ri)costruire, di restituire al niente, all’universo di distruzione, la memoria di un paese
descritto nella sua cartografia intima, capace di resistere all’orrore della distruzione”.59
7.Il momento in cui tutto è cambiato.
TIA GRAÇA: Allora oggi parliamo? IRENE: Se se la sente.
T.G: Si, qualche volta fa bene ricordare le cose. Ricordare cosa abbiamo dovuto affrontare per costruire quello che siamo diventati.
I: Da dove incominciamo? T.G: Dall’inizio, va bene? I: Dall’inizio.
T.G: Allora... era il 1990, noi abitavamo vicino a Biè quando hanno preso mio figlio. Prima c’erano stati problemi per la guerra, ma noi stavamo bene e pensavamo che la guerra poteva finire presto e invece è arrivata improvvisamente, con un camion di soldati. Hanno chiamato il soba [figura dell’amministrazione territoriale, una sorta di
58 Parafrasando Luca Jourdan, non esiste una dimensione esclusivamente locale del conflitto, o una globale,
distinta e non interagente, si tratta solo di utilizzare questi concetti come espedienti analitici, “sottolineando come le due dimensioni non siano affatto scisse ma in relazione sinergica”. Tratto da: L. Jourdan,
Generazione Kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo, Laterza, Bari, 2010, p. 66.
59 L. Apa, “Dire la Nazione: la letteratura angolana fra storia e geografia”, in L. Apa (a cura di) Angola e
capo della comunità locale60] e gli hanno detto di chiamare tutti i ragazzi, e quando lui
ha detto di no l’hanno ucciso e poi sono andati a cercare loro i ragazzi del Bairro. E sparavano, e uccidevano, e tutti scappavano e io non sapevo dov’era mio figlio. Era con gli amici e io speravo lontano da lì. Tutti correvano, c’era grande confusione, fumo, perchè bruciavano anche le case, e le persone gridavano, e io scappavo a cercarli, e non sapevo dov’era mio figlio, non sapevo dov’era mio marito. Mio figlio... E poi non so quanto tempo è passato, il camion è andato via, e io non sapevo cosa fare perchè non sapevo dov’era mio figlio, l’avevo cercato dappertutto, non sapevo dov’era...61
L’“inizio”, per Tia Graça era il momento in cui tutto è cambiato. Il momento in cui,
con l’arrivo dei soldati, le sparatorie, i morti abbandonati sul ciglio della strada, con la
“profanazione” del suo spazio domestico, ma soprattutto con la sparizione del figlio, si è
realizzato una sorta di “terremoto” che, oltre a distruggere il suo microcosmo esterno, ha
profondamente scosso il suo mondo interiore, producendo un “collasso del quotidiano”62, un
totale sradicamento dalla realtà fino a quel momento vissuta.
Prima di allora, tutto scorreva tranquillo, nonostante la guerra; lei viveva con il
marito e il figlio in una casa in muratura, poco fuori da Biè, faceva la maestra in città, suo
marito lavorava all’ospedale, e avevano perfino l’automobile. Una vita organizzata, una
quotidianità “normale”. Poi, quel conflitto arrivato all’improvviso ha tranciato di netto ogni
possibile progettualità e la continuità tra passato, presente e futuro si è interrotta, spezzata
dall’evento traumatico.63 Del figlio dodicenne Tia Graça non ha avuto più notizie, era
60 In Angola, “soba” è la designazione comunemente utilizzata per indicare un’autorità tradizionale, una
sorta di amministratore locale, che si occupa della gestione amministrativa delle zone di afferenza di vari
barrios. Nella maggior parte dei casi viene nominato dall’amministrazione statale.
61 Dall’intervista con Tia Graça del 06 giugno 2012.
62 G. Ligi. Antropologia dei disastri, Laterza, Bari, 2009, p.109
63 Tra il 1989 e il 1990 si è assistito ad uno stallo militare, che poneva in essere le condizioni per un
successivo accordo di pace. Ma, intorno alla fine del 1990, il tentativo di UNITA e MPLA di arrivare al tavolo della trattativa da una posizione di forza e vantaggio militare, ha dato luogo ad un allargamento ed
sparito insieme agli amici con i quali doveva essere quel pomeriggio. Qualcuno diceva di
averli visti caricare sul camion dei soldati, ed in ogni caso, di loro non vi era traccia da
nessuna parte. A quel punto era chiaro che non sarebbero più tornati a casa. Le dicevano
che un figlio preso a combattere dai ribelli è perso per sempre, sarà spinto in prima linea,
addestrato alla violenza, alla sopraffazione, una personalità spezzata, dimenticherà il volto
dei propri cari e tutto ciò che da loro aveva imparato.
TIA GRAÇA: Mi dicevano che era morto. Che dovevo piangere come le altre madri piangevano i loro figli presi quel giorno... Che se tornava insieme agli altri tornava per uccidere anche noi perchè uccidere la famiglia è la prima cosa che [i guerriglieri] insegnano. Ma come potevo accettare di non sapere più niente di mio figlio? Io continuavo a cercarlo, a chiamarlo. Ma ero da sola.
IRENE: E le madri degli altri ragazzi?
T.G: [...] Durante il funerale del Soba un uomo ha letto i nomi anche di tutti i nostri ragazzi e degli altri che erano morti in quell’attacco e ha detto che erano andati insieme al Soba. Ma lì, tra quei corpi non c’erano quelli dei nostri figli, solo quelli che i soldati avevano lasciato sulla strada. Io sono andata via, perchè per me in quel momento dire addio non era la cosa giusta da fare. Mio figlio per me non era morto.64
Tia Graça trascorreva le giornate perlustrando la zona alla ricerca di qualcosa che
rispondesse ai suoi interrogativi. Una risposta che desse senso a quella situazione di
profondo smarrimento, a quella quotidianità divenuta incomprensibile, “aliena”, in cui la
intensificazione delle ostilità da parte di entrambi gli schieramenti in lotta. Dopo l’accordo di pace di Bicesse, nel maggio 1991, il conflitto ha subito un arresto, per poi però riprendere, se possibile ancora più cruento, dopo le elezioni presidenziali del 1992.
guerra, nella forma di attacchi costanti e non prevedibili, aveva assunto ormai la dimensione
di una “way of life, di uno stato mentale collettivo”65.
Una quotidianità perturbata dall’opprimente incapacità di “rimettere ordine”
nell’esperienza e trovare pace, in un momento in cui “tutto sembra crollare, e i vivi si
percepiscono come in un interregno senza fine, esposti ad ogni arbitrio, deterritorializzati,
confrontati con la dissoluzione di ciò che Bourdieu definisce l’esperienza doxica [...], un crollo della capacità di ‘fare la storia’, legata ad un’impossibilità di collocare o posizionare la
morte, di farle spazio e metterla al suo posto”.66
T.G: Io cercavo tutti i giorni delle tracce...delle prove. Andavo verso la strada che portava al centro di Biè, quella dove c’erano i guerriglieri, per vedere se c’era anche mio figlio. Sapevo che era un grande pericolo andare vicino ai guerriglieri, ma non avevo paura di morire. E anche quando venivano nel Bairro e tutti scappavano io rimanevo lì per vedere se c’era anche mio figlio. E ad ogni attacco, tutti i guerriglieri mi sembravano lui, sentivo tanta confusione nella testa e tutto intorno e quando andavano via, una parte di me andava via con loro. E io mi sentivo sempre più vuota.67
Roberto Beneduce ha trattato il problema dell’impossibilità “in taluni casi, di
misurarsi con l’evento della morte facendone materia di lavoro simbolico e di
rappresentazione”.68 Ciò avviene, secondo le sue parole, quando eventi drammatici quali
65 J. Abbink, Violence and State (re)formation in the African context: the general and the Particular,
Seminar “War and Society”, Aarhus University (Denmark), 28 April 2000, citato da Roberto Beneduce in
Politiche ed etnografie della morte in Africa Subsahariana, in A. Favole, G. Ligi, P. Viazzo (a cura di), Luoghi dei vivi, luoghi dei morti, Erreffe, La Ricerca Folklorica, volume 49, 2004, p. 99.
66 F. De Boeck, Au-delà du tombeau: historie, mèmoire et mort dans le Congo/Zaïre postcolonial, in Cahiers
Africains-Afrika Studies, 31-32, 1998, p.134,135, nella traduzione proposta in R. Beneduce, ibidem, 2004, p. 98.
67 Dall’intervista con Tia Graça del 08 giugno 2012.
68 Beneduce, facendo riferimento a quanto ricavato dalla propria esperienza di ricerca centrata sulle
ideologie della morte nell’Africa Subsahariana, propone tre distinte modalità di “fare etnografia”. Si tratta di tre differenti approcci della disciplina antropologica, che orientano la ricerca in direzioni diverse. Quelle che
guerre o catastrofi naturali arrestano bruscamente il flusso dell’esperienza ed impediscono
che le consuete pratiche rituali prendano corpo. Si assiste dunque ad una completa perdita e
successiva ridefinizione del senso. E’ come se i significati condivisi venissero “smontati” e
le persone vivessero in uno stato di angosciosa indeterminatezza che non offre materia
definita all’analisi e pone in essere una “teologia dell’arbitrio che dissolve ogni abituale
strategia rituale di contenimento dell’angoscia”.69 Individui e comunità, allora, potrebbero
andare incontro a quello che De Martino ha definito “rischio radicale”: “il rischio di non
poterci essere in nessun modo culturale possibile, di perdere la possibilità di farsi presente
operativamente al mondo, il restringersi -sino all’annientarsi- di qualsiasi orizzonte di
operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori”.70
In una situazione di profonda crisi comunitaria, “la progressiva distruzione del
mondo, se non opportunamente contrastata con interventi efficaci, può dar luogo ad una
graduale ed irreversibile distruzione dell’io”71; quando “la capacità della cultura di
semplificare efficacemente tende a venire meno, e gli individui rimangono privi di guida ed
indirizzo”.72 Riferendosi alla capacità della cultura di funzionare come “fattore di forte de-
lui definisce “etnografie del primo tipo”, considerano i rituali e le rappresentazioni della morte a partire dalle concezioni locali, senza però metterli in relazione alle trasformazioni sociali avvenute nel tempo, senza cioè indagare il rapporto tra “locale e globale”, tra “storia e rituale”. Considerare invece “la relazione tra le dinamiche simboliche, culturali, religiose ed economiche, riuscendo a decifrare le nuove rappresentazioni della morte che stanno sviluppandosi nell’Africa contemporanea” è la prerogativa di un’etnografia di “secondo tipo”. Mentre le “etnografie del terzo tipo” rinviano necessariamente ad un’antropologia della violenza e del potere, in cui la morte non è più immersa nella logica dell’inversione simbolica ma diviene “impensabile”, mettendo sotto assedio le rappresentazioni condivise. Tratto da R. Beneduce in Politiche ed
etnografie della morte in Africa Subsahariana, in A. Favole, G. Ligi, P. Viazzo (a cura di), Luoghi dei vivi, luoghi dei morti, Erreffe, La Ricerca Folklorica, volume 49, 2004, p. 89, 90.
69 Ibidem, 2004, p.89
70 De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino,1977, p.
219.
71 G. Ligi, “Il disastro come evento culturale”, In F. Sbattella, M. Tettamanzi (a cura di) Fondamenti di
psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano, 2013. p. 58.
complessificazione”73, ci si inserisce nell’orizzonte teorico della prospettiva antropopoietica
proposta da Francesco Remotti, il quale, a sua volta, riformula in essa il rapporto tra la già
citata “incompletezza biologica” su cui si sofferma Clifford Geertz, e la cultura stessa.
L’antropopoiesi, in quanto “costruzione di umanità”, si pone come risposta alle insufficienti
risorse biologiche che caratterizzano l’organismo umano e ne decretano l’incompletezza. Il
corpo, con i suoi limiti e le sue carenze, richiede alla cultura quegli interventi che ne
garantiscano la sopravvivenza e la funzionalità, disponendo un sistema complesso di