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Un tessuto di nuovi legami e i consueti limiti posti all’agire

Huambo Ritessere i fili del proprio vissuto: Tia Graça

9. Un tessuto di nuovi legami e i consueti limiti posti all’agire

Le mie visite a Tia Graça, sempre a presidiare quella casa che stava diventando un

guscio vuoto, erano andate intensificandosi, ma più i giorni passavano e più si avvertiva la

precarietà di quella situazione. Si attendeva l’esito del ricorso presentato da Honòrio ai

86 G. Ligi, “Il disastro come evento culturale”, In F. Sbattella, M. Tettamanzi (a cura di) Fondamenti di

psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano, 2013. p. 58.

87 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003 (ed. or. 2000), citato in R.

Beneduce, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo. Laterza, Bari, 2010, p 145.

88 Secondo una recente ricerca condotta da un gruppo di studiosi del Department of Psychology

dell’Università di Notre Dame, nell’Indiana, guidati da Gabriel Radwanski, quando cambia l’ambiente circostante, la memoria subirebbe una riorganizzazione, allentando quell’ipotetico “filo rosso” che tiene legati i ricordi, le informazioni appartenenti all’ambiente precedente, per rendersi disponibili ad acquisire nuovi dati utili per la gestione dell’agire nel nuovo contesto. La premessa a tale ricerca si basa su un’esperienza comune: l’entrare in una stanza per cercare qualcosa e, una volta varcata la soglia, non ricordare che cosa si stesse in effetti cercando lì. Tale fenomeno, secondo la ricerca pubblicata in “The Quarterly Journal of Experimental Psychology”, avrebbe una precisa spiegazione dovuta all’attivarsi di neurotrasmettitori deputati al funzionamento del sistema mnemonico, che tenderebbe appunto a “resettarsi”, a cancellare anche solo provvisoriamente dati della memoria recente che nel nuovo ambiente potrebbero non essere più necessari. Per approfondire, si veda: G. Radwanski, S. Krawietz, A. Tamplin, Walking through

doorways causes forgetting: Further explorations, in The Quarterly Journal of Experimental Psychology,

funzionari della municipalità, dopo che un primo giudice, chiamato a dirimere la controversia,

si era già espresso a favore del nuovo sedicente proprietario, pur senza convocare la

controparte. Probabilmente l’investitore di Luanda aveva preventivato una soluzione più

rapida della transazione, in linea con il consueto andamento di tal genere di acquisizioni. Ma

la famiglia di Tia Graça poteva contare, se non sul denaro, su una solida rete di legami che

erano andati sostanziandosi nel tempo con la comunità locale, che aveva fatto cordone intorno

a loro, aiutandoli nella gestione della faccenda burocratica e della loro complessa

quotidianità. Un’opposizione silente a quelle prevaricazioni che probabilmente, a conti fatti,

non sarebbe bastata a risolvere la situazione, ma offriva un sostegno fattivo alla famiglia.

Una comunità, quella del vicinato di Tia Graça, che non si definiva tale sulla base

dell’afferenza ad un territorio comune, o a reti di parentela, ma si sostanziava sull’esperienza

dei medesimi vissuti di conflitto, di soprusi, e di espropriazioni. E questi, divenuti collante,

lentamente avevano ridato corpo ad una nuova appartenenza basata sulla convivenza più che

sulla coesistenza, sulla “somiglianza” più che sull’identità.89

C’era sempre qualcuno che dava una mano in quel frangente, qualche vicina che

scavalcava la cancellata sfondata con una pentola di funje (il “siliconico” impasto di farina di

manioca e acqua che in Angola è una delle pietanze più diffuse) avvolta in un tessuto di lana

pesante, per mantenere quanto più a lungo possibile il calore del cibo. Tia Graça lì non poteva

scaldare nulla, nè cucinare, nè lavarsi, se non alla sera, quando gli operai avevano ormai

interrotto i lavori.

89 Faccio qui riferimento a quanto riportato da Francesco Remotti durante una conferenza organizzata

dall’Università di Padova alla quale ho assistito nel Dicembre 2011, il cui tema verteva sul recupero del concetto di “somiglianza” (sostitutivo, ma contiguo e non sovrapponibile a quello di “identità”), da intendersi come categoria interpretativa che può “aprire una porta” sul mondo della complessità.

Oggi va meglio, forse viene un avvocato che ci manda quell’amico di Honòrio che è alla direzione dell’ospedale. Forse domani quando torni avrò buone notizie da darti. [mentre parliamo, Tia Graça tiene in mano una parrucca di capelli stirati, di quelle che le donne spesso indossano sopra le treccine, per le occasioni speciali. Una vicina gliel’aveva appena portata, lavata e pettinata. La guardiamo entrambe...] Dzilma [nome della vicina] vuole che mi metta questa per l’avvocato, mi ha dato la sua. Per fortuna qualcuno pensa per me. Io non posso più pensare... guarda, non posso più curare niente qui. Non ho più niente, non sono più padrona di niente. Volevo cucinare ieri, ma sono venuti e mi hanno scaricato una carriola di calcinacci sulla brace [...].90

Tia Graça mi aveva sorriso dicendo che forse avrebbero ricevuto buone notizie

dall’avvocato, ma le sue erano labbra che articolavano dei suoni, c’era l’espressione dei suoi

occhi a dire tutt’altro. E di nuovo il tema della “cura”, quel “non potersi più prendere cura di

nulla”, che in fin dei conti non è altro che un “non potersi più curare di sè”, non poter più

intervenire attivamente sullo spazio circostante. “Cura” intesa come modalità quotidiana di

rivendicare una propria esistenza radicata in un dato posto, trasformato dalle pratiche in un

“luogo da abitare”, una modalità operativa di difesa e di costruzione di un proprio spazio,

un’attenzione che ha a che fare con le relazioni tra sè e gli altri, tra sè ed il proprio

paesaggio.91 Quel prendersi “cura” che già una volta l’aveva aiutata a ricomporre i tasselli di

una esistenza messa a dura prova dagli eventi.

TIA GRAÇA: [...]Ti racconto di questa casa allora...volevi sapere come era bella?

IRENE: Suor Maria Antonietta mi ha detto che quando è finita la guerra questa casa era una delle più belle della zona, con tante persone, e le feste...

90 Dall’intervista con Tia Graça del 13 giugno 2012.

T.G: Si, molte feste, anche troppe! Arlindo e Ana, che sono arrivati qui per ultimi, erano i figli di nostri vicini. Quando la madre è morta, il padre è andato via, a Benguela dicono. Forse non è vero, comunque è andato via da Huambo...i loro figli allora sono venuti qui.. E Arlindo, quando era a scuola aveva tanti amici, ma non gli piaceva studiare e quando hanno finito la scuola lui ha organizzato una grande festa con i compagni, gli amici. Tutti qui, tanti, tanti ragazzi... vedi la strada, laggiù in fondo? Questa strada si era riempita di macchine, tante persone che volevano fare festa qui, anche se poi non ci conoscevamo tutti. C’era anche Suor Maria Antonietta, abbiamo fatto ballare anche lei.. Lei non è una persona che balla, ma c’era la musica, le luci colorate e tutti ballavano, qui nel quintal e poi nella strada. Prima i giovani, e poi tutti, perchè c’era la musica ed era bello. Era bello....Ti dispiace se parliamo domani? Io sono più tranquilla se aspetto l’avvocato. Così poi ti posso raccontare le cose senza il problema di pensare a quello che sta succedendo qui...92

Parlare degli aspetti positivi della sua vita non era stato semplice, il discorso non

fluiva, si inceppava sui silenzi e sui rimossi, come se Tia Graça, alla luce degli attuali

accadimenti, non fosse disposta a concedersi le memorie “piene” di quella seconda fase

della sua esistenza, che era difficile far emergere ed inquadrare in un intreccio testuale. Ad

ogni ricordo gioioso, di serate trascorse tutti insieme a bere kissangua e a mangiare il cibo

della festa seguivano lunghe pause, di occhiate basse e fugaci alla terra scura, e ai

calcinacci che la ricoprivano.

Della sua “vita bella” non so molto dunque, so ciò che sono riuscita a farmi

raccontare da Suor Maria Antonietta che era sempre stata molto presente nella sua

quotidianità. So che a casa sua c’era sempre spazio per chi avesse bisogno di una mano, so

che lei ed il marito rappresentavano un importante punto di riferimento per il vicinato, per

la comunità. So che quando, durante la guerra, avevano sparato a Suor Maria Antonietta,

ferendola gravemente, e lei aveva deciso di lasciare per sempre l’Angola, era stata Tia

Graça a trattenerla per un lembo della veste, ricordandole “il bello” della vita

sull’Altopiano. Ma so poco, soprattutto perchè mi è stato impedito di proseguire i colloqui.

Un giorno due poliziotti si sono presentati alla missione, convocandomi insieme alla

suora al commissariato locale, con la scusa di accertamenti riguardo ai nostri documenti.

Chiedevano ragione delle mie ripetute visite a Tia Graça e Honorio. Volevano sapere quale

fosse il mio ruolo alla missione, cosa ci facessi a Huambo e se io e Suor Maria Antoietta

fossimo davvero parenti, come avevamo dichiarato all’immigrazione. Le carte sono state

esaminate attentamente da un militare che si muoveva al ritmo lento della battitura,

percuotendo la tastiera della macchina da scrivere. Fortunatamente la suora è nata a Padova,

come me, e questa medesima provenienza ha reso verosimile la nostra bugia. Ma il

permesso di soggiorno di Suor Maria Antonietta era in scadenza, avrebbe dovuto essere

rinnovato entro l’anno e i militari le hanno fatto presente che con i tempi lunghi

dell’amministrazione governativa, non era scontato che la pratica di rinnovo potesse essere

evasa nei tempi previsti. Nessuna minaccia, nessuna intimidazione, solo, una stanza vuota

con tre sedie libere su cui nessuno ci aveva invitato a sedere, mentre un militare ci

osservava e sorridendo, ci aveva fatto presente che noi due lì eravamo straniere, e che le

ingerenze di qualsiasi genere non erano gradite.

Siamo uscite dalla caserma stanche ed affrante, senza la voglia di parlare, consapevoli

che da quel momento sarebbe stato difficile muoversi liberamente, e che al colloquio

registrato con Tia Graça il pomeriggio precedente, non ne sarebbero seguiti altri. L’incontro

con la polizia aveva esasperato un clima già teso. A Huambo non si passa inosservati, e la

percezione di estraneità e diffidenza rimaneva forte. Anche l’attitudine stessa di Suor Maria

Antonietta, reticente e chiusa, poteva essere letta come il portato di un condizionamento

nemico” poteva essere il vicino di casa, e le appartenenze politiche erano difficilmente

palesate, rendendo le persone guardinghe e sospettose.

Spesso, durante il periodo trascorso sul campo, ho sentito le persone riferirsi a “o

nemigo”, il nemico del tempo della guerra, senza correlarlo all’una o all’altra fazione in

lotta. Il nemico era chi piombava nel villaggio, nella città, negli insediamenti e capovolgeva

i destini delle persone. Che fossero soldati dell’MPLA o guerriglieri dell’UNITA poco

importava, quando andandosene non lasciavano altra memoria di sè se non le violenze

perpetrate sui civili e i corpi di chi non era sopravvissuto agli attacchi. La differenza tra

governativi e guerriglieri sta nei libri di storia forse, ma non nella memoria di chi si è

trovato, suo malgrado, in mezzo ai due fuochi. Fare tante domande non era consigliabile

dunque. Non era ben visto in quella città dove, più che in altre zone, ci si confrontava con

un passato controverso di appartenenze complesse, che chi oggi detiene il potere vorrebbe

appiattire su di una linea marcata tra “buoni e cattivi”. Tra chi ha vinto e governa e chi,

uscito sconfitto dalla guerra, tenta una propria riconfigurazione.

A differenza di Suor Rita, alla quale forse è concesso un margine d’azione maggiore

proprio perchè è luandese di nascita come le persone di cui si fa portavoce, Suor Maria

Antonietta è ancora “straniera” in un luogo in cui vive da più di trent’anni. Sempre misurata

per il timore di fare passi troppo lunghi e la paura che non le vengano perdonate le

ingerenze nella locale costruzione di una consuetudine di omissioni, soprusi e sopraffazioni.

Del resto, sul fianco, aveva la cicatrice di quel proiettile indirizzato proprio a lei, a

ricordarle quale fosse il suo posto. Ed allora, mi sembrava di poter comprendere perchè

quella missione fosse stata rimodernata così, chiusa, separata dall’ambiente circostante da

quell’alto muro perimetrale. Una gabbia di paure e diffidenze che suor Maria Antonietta si

sua esistenza, preferendo trascorrere le giornate in quella quiete recintata, tra le alte piante

di avocado e gli arbusti di caffè. Un’esistenza rigidamente cadenzata da una coazione a

ripetere che si avvicina alla ritualità, che pareva essersi cucita addosso per proteggersi

“dall’inaspettato” che può giungere dall’esterno, per non esporsi al dolore delle