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LA POLITCA FISCALE

3.2 Obiettivi della politica fiscale nell’UE

La strategia di politica fiscale dell'UE è esposta all'interno della relazione sottoscritta dalla Commissione europea: “La politica fiscale dell'Unione europea – Priorità per gli

anni a venire” (COM(2011)0260). In tale rapporto si esplicita che ciascuno degli Stati

membri è libero di optare per il regime fiscale che ritiene più opportuno, a patto che siano rispettate le norme UE. In tale contesto, le priorità maggiori della politica fiscale dell'Unione europea diventano la rimozione degli ostacoli fiscali all'attività economica transfrontaliera, il contrasto della concorrenza fiscale dannosa e l'avvio di una maggiore cooperazione tra le amministrazioni fiscali nell'assicurare controlli costanti nella lotta

73 contro le frodi. Un maggiore coordinamento delle politiche tributarie garantirebbe inoltre un forte contributo delle politiche fiscali degli Stati membri al raggiungimento dei più ampi obiettivi politici dell'UE, riguardanti una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

L'imposizione nell'Unione europea è relativamente elevata, con una pressione fiscale che costituisce il 40,40% del PIL (dati Eurostat del 2012). Basandosi sul livello generale delle entrate fiscali per il periodo 2000-2012, gli Stati membri possono essere ripartiti approssimativamente in tre gruppi: un gruppo orientale-meridionale, caratterizzato da una pressione fiscale inferiore alla media UE; un gruppo composto dai Paesi più grandi, situato nella fascia centrale dell'Eurozona e avente una pressione equivalente al 38-42 % del PIL; un gruppo di Stati nordici, che si contraddistingue per la più alta pressione fiscale complessiva e che si avvicina in certi casi anche al 50 % del PIL. Importante è sottolineare che il gruppo orientale-meridionale dà luogo a una percentuale consistente delle entrate complessive attraverso le imposte sui consumi; il gruppo nordico e quello dei Paesi centrali che hanno adottato la moneta unica europea, presentano invece delle entrate che provengono prevalentemente da una elevata pressione fiscale sul lavoro. Il rapporto che sussiste tra il livello d'imposizione e la crescita economica di uno Stato è incerto. Questo perché entrambi gli elementi sono intrinsecamente collegati e si influenzano a vicenda tra loro. Inoltre, l'effetto negativo delle imposte sulla crescita viene controbilanciato dagli effetti positivi della spesa pubblica sulla crescita stessa. Una migliore comprensione si ha invece quando si vuole analizzare il meccanismo attraverso il quale le singole imposte influenzano lo sviluppo di un Paese. In questo campo si suddividono le imposizioni fiscali sulla base delle loro funzioni economiche fondamentali: imposte sul lavoro, sul capitale e sui consumi.

Nel primo caso le principali imposte di questo tipo sono quelle riguardanti il reddito delle persone fisiche e i contributi di sicurezza sociale. Una maggiore imposizione sul lavoro si riflette in maniera considerevole su tre aree: l'offerta e la domanda di lavoro diminuiscono, in quanto una crescente disparità tra salari lordi e netti comporta che i lavoratori siano meno propensi a offrire il proprio lavoro e le imprese meno disposte a offrire un impiego; le aliquote progressive dell'imposta sul reddito limitano l'utile sul capitale impegnato nell'istruzione, tendenzialmente correlato a redditi più elevati; le

74 aliquote progressive dell'imposta del reddito frenano anche il progresso tecnologico, poiché l'utile sulle attività imprenditoriali è generalmente più tassato dei salari.

Per quanto riguarda l’imposizione sul capitale fanno parte di questa categoria le tasse sul reddito d'impresa e da investimenti e quelle sugli immobili e di successione. Le imposte sul capitale, e particolarmente le imposte sul reddito d'impresa, sono ritenute essere le più nocive per la crescita, in quanto influenzano la quantità e la localizzazione degli investimenti e dei profitti. Un'imposizione elevata sulle società può causare forti fughe di capitali. L'imposizione sui redditi da capitale modifica anche le scelte di consumo/risparmio delle famiglie; le tasse sui beni immobili e le imposte di successione sono meno dannose per la crescita, poiché pesano sugli attivi accumulati, che rappresentano una base imponibile anelastica.

Infine vi sono le imposte sui consumi, le quali sono costituite dal valore aggiunto (IVA) e dalle accise. Esse comportano conseguenze più moderate sulle decisioni riguardanti l’occupazione, il tempo libero e il risparmio rispetto alle imposte sul lavoro o sulle società. Inoltre, queste tasse non presentano una struttura progressiva. L'IVA si applica al valore dei beni e servizi che sono acquistati e venduti per il consumo interno. Beni e servizi venduti all'estero, in generale le esportazioni, non sono soggetti all'IVA. Al contrario, le importazioni sono tassate in modo tale da far sì che il sistema resti equo per i produttori del Paese importatore. In aggiunta, le accise vengono spesso riscosse per incrementare lo stile di vita delle persone, ne sono un esempio le imposte sul tabacco, o per favorire la produzione ecocompatibile, come per esempio le tasse sulle emissioni nocive.

Nel caso in cui imposte più elevate sui consumi vengono equilibrate da ridotte imposte sul lavoro e sul capitale, la struttura fiscale favorisce la crescita. L'effetto collaterale sgradito è che i prezzi al consumo o i costi di produzione possono aumentare, andando così a ridurre il reddito disponibile effettivo delle famiglie o il risultato lordo di gestione delle imprese, pressoché nella stessa maniera delle imposte sul lavoro e sul capitale. Questa panoramica introduttiva espone come alcune tasse siano più favorevoli alla crescita di altre. Si può quindi affermare che le imposte sugli immobili risultano generalmente avere un ridotto effetto negativo sulla crescita. Allo stesso modo, l'incidenza delle accise è molto modesta. Viceversa, la tassazione del lavoro è considerata sfavorevole alla crescita, e la notevole progressività delle aliquote

75 dell'imposta del reddito è giudicata particolarmente negativa. Infine le tasse sulle società e sul capitale frenano pesantemente la crescita, in particolar modo perché tali imposte causano minore innovazione e vengono riscosse su una base imponile particolarmente mobile.