• Non ci sono risultati.

Se è difficile trovare la via migliore per comunicare con il paziente di un’altra cul- tura, guadagnarne la fiducia, andare incontro alle sue preferenze, per un medico che operi nel proprio Paese, ancora più difficile è la situazione del medico soldato che opera in contesti internazionali. Non solo per le difficoltà dovute alla lingua e al fatto che più frequentemente si rende necessario frapporre una terza persona, in qualità di interprete, tra medico e paziente.

Nel caso delle missioni internazionali va tenuto presente in primo luogo che agli occhi del paziente l’immagine del medico non si lega al sistema sanitario del proprio Paese, nel quale egli ha fiducia o meno, ma a un esercito di un Paese stra- niero. Da questo punto di vista i fattori di diffidenza, che possono determinare il fallimento dei tentativi di comunicazione tra medico e paziente e di dimostra- zione di empatia da parte del medico, sono molti e non sempre facili da superare. Il fatto stesso di indossare un’uniforme e di far parte di un contingente armato può rappresentare un problema, poiché essa può avere un significato molto nega- tivo per i diversi popoli e nelle diverse situazioni, a prescindere dall’appartenenza nazionale. In questi casi militari e medici militari possono dimostrare la propria buona fede e il proprio impegno effettivo nell’aiuto alla popolazione attraverso la pratica. Così come possono trovare delle vie per comunicare il proprio rispetto

attraverso l’abbigliamento, il contegno, il modo di presentarsi e di manifestare il proprio pensiero.

Vi sono inoltre una serie di difficoltà e di chiusure che dipendono dal fatto di appartenere a una determinata nazione, e – nel caso italiano – soprattutto al mondo “occidentale” in generale. Le resistenze sono reciproche. Dal lato del medico la situazione sarà paragonabile a quella vista per il medico civile, con la necessità di rendersi conto delle differenze culturali e di decidere di conoscerle e accettarle. Dall’altro lato del rapporto, quello della popolazione locale, ci sarà una rappresentazione del medico che dipende da una serie di esperienze storiche, da una sfiducia di partenza, che va superata. A questo proposito si può pensare alla situazione dei pazienti afro-americani che non hanno fiducia nel sistema sa- nitario. Tra i consigli per il medico sul comportamento da tenere, Lo suggerisce di porre alcune domande per conoscere le ragioni della sfiducia (le storie negative vissute o ascoltate), per poi tentare di rassicurare il paziente.7 Nel caso del medico

soldato e della diffidenza per ciò che è “occidentale” la situazione è più complessa. In un certo senso, il rischio è che proprio mentre si vorrebbe negare una certa immagine dell’Occidente la si confermi in pieno, anche solo per via della propria presenza, armata, in quel determinato luogo del mondo. Questo non è neces- sariamente un ostacolo insuperabile, ma – come per gli altri casi – richiede una profonda consapevolezza delle differenze tra gli individui e tra le culture e – più che negli altri casi – delle diverse esperienze storiche dei popoli, che in alcuni casi hanno lasciato ferite profonde.

Molti studi sono stati dedicati alla ricostruzione e alla critica del modo in cui si è formata l’idea di “Occidente” nei tempi moderni. Uno tra i più interessanti è quello che Edward Said propone nel suo ormai classico Orientalismo8 e riguarda

in particolare la formazione, nel pensiero europeo, dell’idea di Oriente. Mol- te delle missioni internazionali recenti sono proprio nei Paesi “orientali”, come ad esempio Libano, Iraq, Afghanistan. Per questo la percezione dell’Oriente da parte occidentale ha grande importanza. Ma la nozione di “Oriente” ricostruita da Said si estende e indica più in generale l’“altro” dall’Occidente. Said sostiene

7 Cfr. ivi, p. 333.

8 Edward Said, palestinese, è nato nel 1935 e deceduto nel 2003. È stato professore di Letterature comparate alla Columbia University e autore, tra le altre opere, dell’ormai classico Orientalismo, del 1978. Said è considerato uno dei rappresentanti più significativi della critica all’“orientalismo”. Con questo termine egli intende quel modo di pensare l’Oriente per mezzo di astrazioni, essenzia- lizzazioni e generalizzazioni, funzionale al colonialismo ed eurocentrico, sviluppato dalla cultura europea nel suo insieme. In linea di massima, il termine va distinto da “orientalistica” come disci- plina che studia l’Oriente, anche se spesso sono proprio gli studiosi dell’Oriente a essere criticati per la loro visione “orientalista” nel senso inteso da Said.

che l’idea di Oriente, pensata come negativo dell’Occidente è fondamentale per l’identità stessa dell’Occidente, che ha bisogno proprio del suo “altro” pensato come negativo per potersi definire in positivo. Le visioni legate all’Oriente co- struite dalla cultura europea si legano alla stessa identità europea, all’idea stessa di Europa, vale a dire alla «nozione collettiva con la quale si identifica un ‘noi’ europei in contrapposizione agli ‘altri’ non europei»9. Said, inoltre, aggiunge «e

in fondo si può dire che la principale componente della cultura europea è proprio ciò che ha reso egemone tale cultura sia nel proprio continente sia negli altri: l’idea dell’identità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture»10.

Secondo la ricostruzione di Said, il pensiero occidentale dell’Oriente (e in ge- nerale dell’“altro”) è etnocentrico e carico di pregiudizi, immagini stereotipate, generalizzazioni. Said mostra bene come tali visioni della realtà – in particolare orientale – non corrispondono alla realtà stessa (egli sostiene infatti che «l’orien- talismo nel suo insieme soppianta e rende superfluo l’Oriente»11), ma a costru-

zioni e a “miti” tutti occidentali, che però sono tuttora fortemente condivisi e percepiti come reali. A partire da queste riflessioni possiamo dire che un primo passo, fondamentale, nel movimento di avvicinamento ad altre culture deve es- sere la messa in discussione delle proprie certezze, che parta dalla consapevolezza che esse sono spesso costruite su stereotipi e generalizzazioni, che poco o niente hanno a che fare con la realtà che ci si appresta ad affrontare. In questo senso il tipo di critiche esposte da Said possono aiutare a sviluppare degli strumenti più adeguati di conoscenza della realtà delle altre culture. Inoltre, le riflessioni di Said sono particolarmente interessanti perché aiutano nella comprensione del punto di vista delle culture altre da quella occidentale. Egli, infatti, raccogliendo anche riflessioni e posizioni precedenti, ha interagito con il pensiero post-coloniale e ha ulteriormente stimolato il dibattito sull’eredità culturale del colonialismo e sulla ricerca dell’identità da parte dei popoli che hanno vissuto l’esperienza coloniale. Nel passato autori importanti si sono occupati di questi temi. Si pensi a Frantz Fanon12, che mostra come il velo delle donne algerine fosse assurto a simbolo

della resistenza anti-coloniale proprio perché al centro dell’immaginario del colo-

9 E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 17. 10 Ibid.

11 Ivi, p. 30.

12 Frantz Fanon, nato in Martinica nel 1925 e deceduto nel 1961 negli Stati Uniti. Psichiatra, scrit- tore e filosofo, ha sviluppato importanti teorie sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati. I suoi scritti, tra i quali il celebre I dannati della terra, del 1961, hanno influenzato gli studi e i movimenti di liberazione post-coloniali. Egli si è anche dedicato all’attività politica, partecipando alla lotta di

nizzatore. Le sue osservazioni su questo meccanismo, anche se relative all’Algeria occupata dai francesi, sono attuali anche oggi, sostituendo all’“occupazione stra- niera” l’egemonia occidentale: «All’offensiva colonialista nei confronti del velo, il colonizzato oppone il culto del velo. Ciò che era elemento indifferenziato in un insieme omogeneo, acquisisce un carattere tabù e l’atteggiamento di un’algerina rispetto al velo sarà continuamente riferito al suo atteggiamento globale di fronte all’occupazione straniera»13.