Ma nella riflessione del passato le virtù militari non sono state identificate con il solo coraggio, altri tratti sono stati chiamati in causa. Ad esempio recentemente David Fisher affrontando sistematicamente le questioni della guerra giusta ha in- dicato come virtù militari oltre il coraggio, l’obbedienza, l’auto-controllo e la sag- gezza pratica.8 Sembra difficile connettere esclusivamente con il contesto militare
la capacità di costruire un carattere che sia strutturato in modo virtuoso intorno alla capacità di auto-controllo e di saggezza pratica. Un discorso più articolato va fatto sulla correlazione tra l’obbedienza, la vita militare e il riconoscimento di questo tratto come virtuoso.
Da una parte si può indebolire la stretta connessione tra obbedienza e vita mi- litare seguendo Adam Smith nella sua delineazione di alcune trasformazioni nel modo in cui nella storia umana è stato portato a termine il compito della difesa. Smith richiama una significativa trasformazione:
In tutti i Paesi, quindi, questa è la sequenza di sviluppo del servizio militare. Presso un popolo di cacciatori e di pastori e perfino quando vi è un notevole sviluppo dell’agricoltura, tutta la popolazione partecipa insieme alla guerra. Appena le arti e le attività manifatturiere cominciano a progredire non tutti possono andare in guerra e poiché queste arti […] sono molto faticose e poco lucrative, vanno in guerra le classi più elevate. Dopodiché quando le arti e il commercio sono ancora più avanzati e cominciano a diventare assai lucrativi, tocca ai più umili difendere lo stato. […] Quando tutti andavano insieme a combattere non vi era alcun bisogno di disciplina militare, in quanto tutti avevano pari dignità e la causa comune era così vivamente sentita. Pertanto la disciplina era assolutamente inutile. Quando andavano in guerra le categorie più elevate, il principio dell’onore svolgeva la stessa funzione della disciplina. Quando invece questo compito toccò alle categorie più umili, divenne necessaria la disciplina più rigida e più severa ed infatti possiamo
constatare che essa è stata introdotta in tutti gli eserciti permanenti.9
8 D. Fisher, Morality and War. Can War Be Just in the Twenty-First Century?, Oxford University Press, Oxford, 2011.
Se non perdiamo di vista – una prospettiva che Smith condivide con Hume – «quanto la nostra natura sia plasmabile» ci rendiamo conto che obbedienza e disciplina non sono intrinsecamente legate alla realizzazione di una buona difesa dello stato ed eventualmente a una condotta coraggiosa (che comunque se spie- gata con la disciplina sarebbe solo motivata dalla paura delle sanzioni dei superio- ri). Una variazione che risulta molto chiara nel nostro secolo quando nelle società liberal-democratiche anche gli eserciti sono stati permeati da valori costituzionali e debbono rispettare la sostanziale eguaglianza di diritti di tutti coloro che ne fanno parte e inoltre dovranno elaborare una motivazione a combattere per di- fendere lo stato ricavata dalla comune partecipazione alle sorti della repubblica piuttosto che dalle sanzioni militari.
Ma nelle analisi di Smith oltre alla diagnosi sulle variazioni nella struttura dell’esercito e a una prefigurazione di eserciti senza disciplina troviamo anche spunti che mettono in crisi la convinzione che l’obbedienza sia di per sé una vir- tù. Vi sono due strategie con cui possiamo mettere in crisi la tesi che l’obbedienza sia una virtù. La prima è quella rivolta a mostrare che società umane possono be- nissimo esistere senza strutture gerarchiche che sembrerebbero un contesto neces- sario per l’attribuzione di un valore alla obbedienza. In questa direzione possono essere utili le osservazioni fatte da Frans de Waal10 secondo il quale la guerra vista
sullo sfondo della natura umana va considerata più radicata alla tendenza umana a costituire gerarchie e relazioni di obbedienza che ad una ineliminabile radice di violenza. Ma seguendo questo filo si può poi rendere conto delle diversità di modi con cui la gerarchia influenza la vita sociale degli esseri umani e dunque sulle differenti collocazioni che in essa ha l’obbedienza. L’obbedienza risulta in questa ricostruzione storica qualcosa di ben lontano dall’essere una virtù perché in netto contrasto con quei processi e trasformazioni sociali sempre più diffusi e universalizzati negli ultimi due secoli che vedono le persone individuali costruire il loro carattere morale e il loro percorso di vita mettendo da parte qualsiasi ag- gancio eteronomo.
Ma vi è un’altra via lungo la quale si può mettere da parte la convinzione che l’obbedienza sia una virtù, in questo caso si procede mostrando che la motivazione principale di una condotta di rispetto dei rapporti gerarchici non è l’obbedienza ma un più profondo senso dell’onore. In definitiva già nelle analisi di Smith l’obbedienza prende il posto delle relazioni che nelle società aristocratiche erano governate dal sen- so dell’onore e dunque si può spiegare come la radice motivazionale resti costante al di là delle trasformazioni nel contesto storico-sociale della vita militare. Su questa strada
procedono ad esempio le analisi di un recente libro di Kwame Anthony Appiah.11 In
particolare in un capitolo dedicato a Stima ed etica professionale (pp. 168-172), Ap- piah connette la professione del soldato con la guerra e una organizzazione gerarchica e poi suggerisce che proprio questo contesto spiega l’efficacia e la validità dei criteri del codice dell’onore per questa come per altre professioni. Secondo Appiah dunque non può essere l’obbedienza il tratto costitutivo del carattere del buon soldato, data la natura supererogatoria della condotta coraggiosa ed eventualmente questo carattere troverà il suo nucleo centrale in una confluenza tra una naturale tendenza al coraggio e una forte sensibilità verso l’onore. Ma è difficile capire come una motivazione così profonda come quella che spinge alla condotta e alla valutazione morale possa esse- re ricondotta a un più specifico senso dell’onore che richiede una rappresentazione statica della comunità in cui si vive ed è altresì difficile accettare la tendenza a fare coincidere la ricerca di essere onorato con la scelta di fare – anche in piena solitudine e in contrasto con i nostri simili – quella che riteniamo la cosa giusta.
In sintesi possiamo dire che la nostra etica sentimentalista suggerisce di elabo- rare una impostazione che non riconosce all’obbedienza alcun valore intrinseco, ma eventualmente solo un valore strumentale. Con questa etica si deve andare al di là dell’analisi antropologica hobbesiana che pure ritiene l’obbedienza solo strumentalmente necessaria per la pace dato che gli esseri umani sono dominati dall’aggressività, quando poi però si tratta di indicare la fonte di legittimità della obbedienza Hobbes la fa dipendere dalla autorità di chi comanda: autorità a sua volta ricondotta alla capacità di controllare la condotta dei sudditi con le sanzio- ni. Nel caso dell’etica delle virtù invece l’obbedienza varrà solo strumentalmente e mai giustificabile sulla base del vincolo di una autorità in grado di sanzionare, ma eventualmente giustificabile risalendo alla accettabilità del risultato che con essa si consegue e con la procedura attraverso la quale si può sviluppare la con- dotta obbediente. Come è ovvio gli esiti e la procedura dell’obbedienza andranno sottoposti a un continuo esame individuale, come da parte dell’opinione pubbli- ca, strutturato in termini di sentimenti morali riflessivi.