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L’uva e l’epoca di vendemmia

La qualità di un vino bianco secco (finezza, complessità, aromaticità) dipende profondamente dall’espressione del vitigno, o più precisamente dal particolare profilo aromatico che questo estrinseca in un certo territorio (Castino, 1994).

Da vendemmie di qualità scadente come composizione o come stato sanitario, è improbabile ricavare dei prodotti di qualità. Di qui la necessità di controllare le caratteristiche dell’uva che arriva in cantina.

Buona parte dei vitigni bianchi, soprattutto quelli più precoci come Sauvignon, Merlot,

Cabernet, Chardonnay, Chenin, sono sensibili alla “muffa grigia”, dovuta allo sviluppo

della Botrytis cinerea, che causa un cospicuo indebolimento dell’aroma varietale, una maggiore instabilità degli aromi fermentativi e la comparsa di difetti olfattivi (odore di polvere, di terra e di muffa) (Borgo et al., 2013). Oltre a questa alterazione, le uve bianche possono gravemente essere danneggiate dalla “muffa acida”, dovuta a lieviti aerobi (Hanseniaspora uvarum) e batteri acetici. Il mosto che ne deriva può contenere

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alti livelli di acido acetico e di acido gluconico che compromettono la qualità finale del vino. È quindi indispensabile tutelarsi per prevenire l’insorgenza dei marciumi, con adeguate tecniche agronomiche e colturali al fine di garantire l’apprezzamento della qualità di una vendemmia (Borgo et al., 2013).

Nella elaborazione dei vini bianchi acquista particolare importanza l’epoca di raccolta delle uve che deve riguardare solo uve sane che hanno raggiunto una maturità enologica (concentrazioni di zuccheri, acidi organici, aromi e composti fenolici) omogenea. Il tempo di raccolta delle uve dipende anche dal tipo di vino che si intende produrre. A titolo esemplificativo, il complesso aromatico dell’uva bianca si forma prima della completa maturazione, per cui con una raccolta precoce, specialmente nelle regioni calde, si possono ottenere prodotti freschi, di colore più chiaro e stabili all’aria, che mantengono le caratteristiche di fruttato (Pallotta et al., 1977). Nei climi temperati, al contrario, può essere auspicabile prolungare i fenomeni biochimici naturali, quando le condizioni climatiche sfavorevoli non hanno consentito una normale evoluzione della maturazione.

Le vendemmie delle uve bianche possono essere manuali o meccaniche. Nei vigneti settentrionali, sensibili alla “muffa grigia”, le condizioni di raccolta più favorevoli alla qualità dei vini bianchi sono raggiunte quando la vendemmia si effettua manualmente. Tuttavia, in ragione del suo costo inferiore, della rapidità e semplicità, la vendemmia meccanica è molto praticata. L’incidenza sulla qualità dei vini bianchi, può essere trascurabile in condizioni ottimali di stato sanitario e maturità. Al contrario, la raccolta meccanica di una vendemmia eterogenea penalizza la qualità del vino. In questo caso, la protezione contro l’ossidazione delle uve è essenziale (Ribéreau-Gayon et al., 2000).

Estrazione del mosto

Ai fini della qualità del vino, la fase pre-fermentativa più delicata consiste nell’estrazione del mosto, che deve essere condotta in modo tale da limitare i fenomeni di ossidazione, ridurre la dissoluzione dei composti fenolici delle bucce, dei vinaccioli e dei raspi, evitare l’aumento del pH e fornire succhi chiari, con torbidità ottimale intorno a 200 NTU (Unità di Torbidità Nefelometriche) (Castino, 1994). L’estrazione del succo può essere immediata o preceduta da una fase di macerazione pellicolare; può essere fatta in continuo o in discontinuo, con o senza pigiatura e con o senza diraspatura.

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Generalmente, la prima operazione del ciclo di trasformazione dell’uva in vino è la pigiatura, ovvero lo schiacciamento degli acini, eseguito in modo da rompere la buccia per liberare la polpa ed il succo. Tale operazione è di primaria importanza per le caratteristiche organolettiche e per la qualità del vino, quindi la scelta del tipo di pigiatura deve essere fatta anche in funzione del tipo di vino che si vuole produrre. In generale la pigiatura deve effettuarsi senza lacerazione delle bucce, rottura dei vinaccioli e sfibratura dei raspi.

La pigiatura ha numerose conseguenze:

 il succo è arieggiato e, contemporaneamente è inoculato con i lieviti; la fermentazione è più rapida ed il riscaldamento più intenso;

 l’arieggiamento può essere molto dannoso: nel caso di uve ammuffite, può provocare la casse ossidasica;

 il pigiato può essere movimentato per pompaggio e la solfitazione è più omogenea;  tutto il succo fermenta e, alla svinatura il vino di pressa non contiene zucchero;  facilita la macerazione ed accentua la dissoluzione degli antociani e dei tannini.

Questo effetto è tanto più rilevante quanto più la pigiatura è energica (Ribéreau- Gayon et al., 2004).

Questa operazione è eseguita meccanicamente con apposite macchine pigiadiraspatrici di tipo rotative ed a rulli. Queste ultime consentono, oltre la pigiatura degli acini anche il contemporaneo allontanamento dei raspi, che vengono separati dal liquido e dalle altre parti solide mediante forza centrifuga. Come la pigiatura, la diraspatura comporta un certo numero di conseguenze:

 riduce il volume delle vinacce da pressare;

 i raspi rendono più soffice il pigiato, favoriscono il disperdimento dell’CO2,

l’arieggiamento della massa e l’assorbimento di calore, attivano la microflora blastomicetica, con conseguente accellerazione e completamento della fermentazione;

 poiché i raspi cedono al liquido sostanze acide, sostanze minerali ed acqua di vegetazione, mentre assorbono alcool e sostanze coloranti (assorbimento di alcol è maggiore quando i raspi sono erbacei), la diraspatura incrementa l’acidità fissa ed il grado alcolico del vino;

 modifica la concentrazione dei tannini, conferendo al vino un gusto meno astringente.

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La diraspatura è sempre consigliata nell’elaborazione dei vini bianchi di qualità, ovvero, quando se ne vuole privilegiare la finezza (Ribéreau-Gayon et al., 2004).

Per la pressatura diretta delle uve nelle vinificazioni speciali (per esempio tipo

Champagne) e per la pressatura del pigiato delle vinacce, si assiste ad un crescente

successo delle presse discontinue che, nelle loro differenti versioni, rispondono alle richieste di una vinificazione in bianco di qualità. Le presse continue sono ormai in disuso. La pressatura deve essere volta all’estrazione selettiva dei costituenti dell’uva ed alla preservazione del potenziale qualitativo. Le modalità di pressatura influiscono sulla formazione delle fecce. Con pressature lente, discontinue e con il minor numero di rivoltamenti della vinaccia, i mosti sono più limpidi e facili da chiarificare (Castino, 1994). Dei tre tipi principali di presse discontinue utilizzate (presse verticali, orizzontali a vite e pneumatiche), solo le presse pneumatiche permettono di ottenere mosti chiari con un tempo di pressatura molto più breve ed una proporzione inferiore di mosto di pressa da scartare (Ribéreau-Gayon et al., 2004).

Per proteggere il mosto contro l’ossidazione, la solfitazione rappresenta il primo ed il più efficace dei procedimenti. Per bloccare i meccanismi di ossidazione enzimatica sono sufficienti da 50 a 70 mg/L di SO2, che deve essere apportata in una sola volta e nella

maniera più omogenea possibile.

Tuttavia, oltre alla solfitazione, altre tecniche possono essere complementariamente applicate per limitare l’ossidazione dei mosti. A tal proposito si ricordano le seguenti:

 addizione di acido ascorbico con potere antiossidante;

 raffreddamento delle uve e del mosto che inibisce la velocità delle reazioni di ossidazione;

 riscaldamento istantaneo a 60°C per inattivare le ossidasi;

 conduzione delle operazioni di cantina al ripario dall’aria per limitare la dissoluzione dell’ossigeno;

 sfecciatura che limita l’attività ossidasica del mosto.

Grazie anche al suo potere lacerante nei confronti delle cellule vegetali l’anidride solforosa addizionata al pigiato, prima della macerazione, favorisce l’estrazione dei pigmenti intracellulari quali antociani e polifenoli.

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Defecazione del mosto

I trattamenti da effettuare sul mosto sono completati con l’eliminazione del materiale feccioso costituito da particelle di diversa origine e grandezza come i residui cellulari derivanti dalla polpa dell’acino, frammenti di bucce e raspi, sali minerali e polisaccaridi insolubili (cellulosa e materie pectiche).

Le pectine, come accennato nel paragrafo 1.2.2, comportandosi come “colloidi protettori”, limitano o impediscono i fenomeni di flocculazione e di sedimentazione delle particelle. L’azione delle pectinasi naturali dell’uva sul tessuto colloidale del mosto facilita l’illimpidimento per sedimentazione naturale. Dopo qualche ora di riposo, il mosto si separa in due fasi: un surnatante, il mosto chiaro, e le fecce. Queste si presentano in strati successivi di colore diverso: bruno-verdastro, nella parte inferiore del deposito, da verde a beige chiaro nella parte superiore dei mosti. La sfecciatura, quindi, consiste nel separare il succo chiaro dalle fecce, prima della fermentazione. Quando il tenore in pectine dei mosti cala in maniera continua nel corso della maturazione, i mosti dovrebbero chiarificare più facilmente. In caso contrario, le sfecciature saranno più difficili e richiederanno l’uso di agenti chiarificanti come caseinati, gelatine e bentonite, o di enzimi pectolitici esogeni di Aspergillus niger (Castino, 1994). Oltre ai vantaggi legati alla chiarificazioni dei mosti, vari studi hanno dimostrato che l’uso di enzimi pectolitici ha ripercussioni sulla composizione (metanolo, acido galatturonico, polisaccaridi e composti fenolici), e qualità organolettica dei vini (torbidità e colore) (Brown et al., 1981; Canal-Llauberes 1989 & 1990; Lao et al., 1996 & 1997; Liuet al., 1987; Williams et al., 1978).

Il procedimento più semplice ed efficace di illimpidimento dei mosti è la sfecciatura statica ovvero la sedimentazione naturale delle fecce del mosto, seguita da una decantazione del deposito. Il vino elaborato da un mosto così trattato presenta maggiori freschezza e acidità, aroma più netto e meno sensibile all’azione dell’ossigeno (Pallotta et al., 1977).

Una sfecciatura energica del mosto può provocare, d’altra parte, un impoverimento della microflora del mosto che causa un rallentamento o, in alcuni casi, un arresto della fermentazione dei vini bianchi secchi. Un’aggiunta di lievito, dopo la sfecciatura, accellera l’avvio della fermentazione senza, però, modificarne la durata (Ribéreau- Gayon et al., 2004).

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Mosti opportunamente illimpiditi contribuiscono al carattere fruttato del vitigno, mentre al contrario, vini derivanti da mosti contenenti troppa feccia in sospensione sono caratterizzati da aromi pesanti, erbacei e sapori amari, più colorati e meno stabili all’ossidazione (Ribéreau-Gayon et al., 2004). Inoltre, nel caso in cui si voglia una costanza dei caratteri chimici ed organolettici del vino, la correzione del tenore in zuccheri e dell’acidità dei mosti si rende necessaria dopo la sfecciatura. Un’altra pratica assai utile per la fermentazione in bianco, è il trattamento del mosto con bentonite per evitare gli inconvenienti legati alla “casse proteica”.

La vinificazione in bianco è una tecnica versatile, in quanto può essere utilizzata sia con uve a bacca bianca, come avviene nella maggior parte dei casi, che con uve a bacca nera come si fa con lo Champagne, prodotto sin dalle sue origini, in prevalenza con uve

Pinot nero. È possibile ottenere dei vini bianchi a partire da uve rosse in quanto nella

vinificazione tradizionale in bianco non è effettuata la macerazione delle bucce nel mosto, non consentendo quindi l’estrazione dei pigmenti antocianici, che danno il caratteristico colore ai vini rossi. La peculiarità della vinificazione tradizionale in bianco è, infatti, l’assenza della macerazione. Di questa operazione pre-fermentativa, si parlerà ampiamente nella sezione dedicata all’evoluzione delle tecniche di vinificazione in bianco, alcune delle quali possono prevedere una fase di macerazione.

2.3 ASPETTI TECNICI DEL PROCESSO