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I.2. La critica della coscienza estetica

I.3.2. L’orizzonte mobile del linguaggio

Un altro indicatore qualificato per il nostro studio è la tematica del linguaggio, che attraversa, in questo caso esplicitamente, in numerosi scritti a tale argomento direttamente rivolti, il percorso filosofico di Gadamer da Verità e metodo sino al termine della sua esistenza. E’ perciò possibile utilizzare il linguaggio anche per una lettura diacronica dell’ermeneutica gadameriana, operazione per noi di particolare interesse perché nell’affrontare questo tema centrale della sua riflessione Gadamer mantiene una costante connessione con la sua critica alla concezione moderna e cartesiana della soggettività.

I.3.2.1. La concezione gadameriana del linguaggio in Verità e metodo

a) Il dialogo e l’intesa fra gli interlocutori

Il punto di partenza rimane comunque la terza sezione di Verità e metodo. E’ qui

che per la prima volta Gadamer approfondisce il ruolo costitutivo e la funzione mediale del linguaggio nell’esistenza dell’uomo e la linguisticità di ogni comprendere. Come già anticipato, nel far questo egli mantiene come modello di riferimento per l’esperienza ermeneutica il dialogo interumano, e mostra il carattere linguistico sia dell’oggetto che dell’atto ermeneutico. A fianco dell’essere evento del dialogo autentico, e coerentemente con tale concezione, il nostro autore descrive come il dialogo stesso guidi gli interlocutori nella loro relazione, in un processo che non consiste nel collocarsi nella mente dell’altro, ma nel trovare insieme un’intesa che permetta, fondi la partecipazione delle parti alla comunicazione. Parlare perciò del linguaggio come

medium della comprensione umana significa specificare che esso è il territorio in cui

avviene la comunicazione, si sviluppa la situazione dialogica ed ermeneutica. E subito ci chiarisce il carattere secondario e fuorviante di una focalizzazione sull’individualità dell’altro piuttosto che su una comune tematizzazione ed un accordo sull’argomento del colloquio. Il centro della relazione ermeneutica e del dialogo non sono le soggettività dei partecipanti.

“Il dialogo è un processo di comprensione. E’ proprio di ogni vero dialogo il fatto che uno risponda all’altro, riconosca nel loro vero valore i suoi punti di vista e si trasponga in lui non nel senso di volerlo comprendere come individualità particolare, ma di intendere ciò che egli dice. Ciò che si tratta di cogliere sono le sue ragioni, in modo da potersi intendere con lui sull’oggetto del dialogo. Non mettiamo dunque la sua opinione in rapporto con lui come individuo, ma con la nostra propria opinione e con le nostre idee in proposito. Là dove abbiamo veramente di mira l’altra individualità come tale, come per esempio nel colloquio terapeutico o nell’interrogatorio dell’imputato a un processo, non si realizza davvero la situazione della comprensione.”

La comprensione si presenta così come costituzione di uno spazio comune, di un luogo in cui stare insieme nel dialogo: l’istituzione di questo accordo è il compito che ci proponiamo in ogni impresa ermeneutica, ed è cosa ben diversa dal puntare l’obiettivo sui caratteri delle singolarità umane. Dell’incontro fra i corpi o individualità, ciò che interessa a Gadamer non è ciò che pertiene a ciascuno isolatamente, ma ciò che li unisce, o meglio ciò che sta fra loro, e nello stesso tempo li unisce e separa, è il tramite per la loro familiarità ed insieme la barriera della loro divisione ed estraneità, separazione. Per questo il linguaggio deve essere qualcosa che gli interlocutori hanno in comune, che funziona da ponte fra le due sponde della comunicazione; l’oggetto della trasmissione, storica o comunque interumana, deve essere determinato secondo il carattere della linguisticità, e così l’atto con cui i partecipanti al dialogo cercano di comprenderlo.

La comprensione manifesta ancora la possibilità di giungere ad un allargamento dell’orizzonte personale nel suo confronto con un oggetto di interpretazione, con un’alterità; mentre dall’altra parte va evidenziato come la modalità della scrittura, in particolare, si presenta come una forma di autoestraniamento, come un modo per uscire fuori di sé e rendere autonomo dalla soggettività originaria del suo autore un testo. Su questo aspetto già Gadamer aveva avuto da dire nell’analisi della coscienza estetica: viene qui così nuovamente ribadito il fatto che l’identità di chi ha dapprincipio prodotto il messaggio si disperde e dissolve, scompare per lasciar spazio ad un’altra permanenza o soggettività, per cui della letteratura diciamo che essa tende a diventare contemporanea per ogni presente che noi siamo. Detto diversamente, lo scritto si dichiara e rende indipendente da ogni fatto psicologico e da ogni dato o vissuto biografico.175Ci troviamo davanti una pratica decontestualizzante, che procede alla liberazione da ogni contingenza e ad una separazione e presa di distanza dalla persona specifica dell’autore. Questa concezione si riverbera così nel modo di porsi di fronte al testo da parte di un interprete, che non può e non deve concentrarsi su un’ipotetica

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empatizzazione, secondo il canone di una corretta interpretazione psicologica, che eventualmente si riferisca anche a dei possibili lettori o destinatari originari. Non di questo si tratta nella comprensione o nell’interpretazione, bensì di esplicitare ciò che il testo veramente ci dice, con le sue parole e fondamentalmente solo con quelle.

Se poi l’attenzione si sposta verso l’atto interpretativo, ancora una volta Gadamer deve sottolineare come l’ingenuità dello storico o dell’interprete consista proprio nell’illudersi della possibilità di un accantonamento della propria soggettività, dei propri schemi e modelli interpretativi: una pretesa ed ambizione di oggettività che invece sempre maschera un eccesso di fiducia nella propria autocoscienza. In realtà, della propria partecipazione all’interpretazione l’interprete rimane in gran parte inconsapevole. Dire che pensare storicamente equivale a realizzare una mediazione fra il presente ed il passato, fra lo storico e l’oggetto della trasmissione storica, vuol dire un’altra volta ancora che il compito è quello di preparare il terreno comune, il situare il rapporto là dove è possibile un’intesa. Solo dopo aver preparato il setting per la comunicazione, sarà possibile all’interpretazione mediatrice scomparire, disperdersi come individualità, come d’altra parte è già avvenuto per l’originaria fonte del messaggio. L’ermeneutica di Gadamer nega così ogni aspirazione all’immediatezza, ideale romantico che non corrisponde all’effettività del processo di interpretazione.

b) L’evento del linguaggio

Il terreno comune dell’intesa è in primo luogo il linguaggio, che ha preminenza sulla coscienza di chi cerca di comprendere. Si può portare a questa egemonia e capacità avvolgente ed onnicomprensiva del linguaggio l’obiezione dei suoi limiti che si esprimono attraverso cristallizzazioni, stereotipie, conformismi acritici: ma rispetto a questi suoi limiti il linguaggio ha una forza di trascendimento, e la sua virtualità li comprende e supera. E’ nell’intima unità di pensiero e linguaggio, nella ragione che attraverso il linguaggio si esprime scoprendo territori ancora inesplorati, che queste concrezioni linguistico-culturali anonime, solidificate e degenerate, ormai inadeguate, conoscono il proprio superamento.

Queste affermazioni preparano una critica di fondo ad ogni concezione del linguaggio che lo veda come strumento nelle mani di una soggettività cosciente ed autodeterminantesi. Contro la coscienza linguistica, tipica del pensiero moderno sul linguaggio, Gadamer ribadisce i limiti di ogni autoconsapevolezza, per un linguaggio che è veramente se stesso solo quando non si conosce e non parla di sé, e che è

profondamente avviluppato ed intrecciato con le dinamiche di formazione del pensiero. E’ perciò necessario ritornare alla storia del concetto, laddove tra i Greci esisteva una sola parola per parlare del linguaggio, del pensiero, della ragione: logos.

Il senso fondamentale della ricerca gadameriana sulla concezione greca del linguaggio è che vi fosse in essa ancora l’idea di un predominio del pensiero sul linguaggio, ovvero che il linguaggio fosse uno strumento del pensiero, in conseguenza della quale concezione da una parte la parola si presenta con il carattere di un puro segno, dall’altra e coerentemente la lingua è frutto di una convenzione tra gli uomini. Questo vale soprattutto per Platone, che ha davanti le idee delle cose, a cui le parole si devono adeguare e corrispondere, e che giunge all’esito del numero, cioè di una parola- segno astratta, idealizzata, estrapolata dalla dimensione situazionale e estraniata dall’uso. L’ipotesi che proponiamo è che la critica di Gadamer a questa concezione strumentale del linguaggio, poi ripresentatasi aggiornata nella modernità, sia coerente e complementare, alleata con la sua critica della soggettività cartesiana. Si tratta di evidenziare i punti in comune fra i due approcci, per portare delle prove o indizi a favore di questa nostra affermazione. Entrambe le teorie hanno come proprio principio dominante la purezza, la separazione fra il pensiero, lo strumento per dirlo e la cosa tematizzata: una reciproca indipendenza in cui il potere è tutto dalla parte del pensiero originario, della logica, che precede e si stacca dalla denominazione della cosa. La conoscenza precede il nome, e lo sceglie. Questa impostazione o teoria del rapporto tra pensiero, linguaggio e cosa è possibile solo entro una prospettiva che ponga in primo luogo l’io penso isolandolo da ogni sua relazione, facendone cioè il perno e fondamento di ogni altra rappresentazione e conoscenza. Stanno così a fianco convenzionalismo linguistico e potere della coscienza autonoma del singolo, laddove in Gadamer il linguaggio ed il pensiero si producono simultaneamente e nel movimento vitale del dialogo. L’una concezione sottintende una perfezione ed una capacità infinita della ragione umana di porsi al di sopra delle cose e di dominarle, l’altra parte dalla constatazione e consapevolezza della nostra condizione di esseri finiti. Gadamer contrasta e critica la prospettiva di una ragione assoluta, che si esprime alla fine nel tentativo della costruzione di una lingua universale della ragione, come in Leibniz, per affermare lo stretto legame tra linguaggio e pensiero, e sottolineare come la parola è già sempre significato: il linguaggio, il pensiero e l’esperienza della cosa si costituiscono insieme, in una reciproca appartenenza di parola e cosa (è la giustezza naturale del

nome di cui già vi era traccia nel Cratilo176). L’esempio che Gadamer porta è quello dell’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini, che avremo modo di riprendere come suo topos ricorrente.

Contraltare a questa discrasia fra Gadamer e la visione platonica del linguaggio è invece l’adeguatezza all’ermeneutica gadameriana dell’idea cristiana dell’incarnazione. Qui una prospettiva teologica si presenta funzionale per analogia e corrispondente ad una teoria linguistica. Il verbum cristiano ed il mistero della Trinità rappresentano in

maniera significativa l’evento del linguaggio. Le parole che descrivono i due fenomeni sono le medesime: accadimento, miracolo, farsi uomo e farsi concetto e senso, incarnarsi. Se il pensiero è, come in Platone, il dialogo ininterrotto dell’anima con se stessa, un punto primario di distinzione fra la concezione gadameriana del linguaggio e la teologia cristiana sembra essere l’esclusiva attenzione della seconda alla parola dell’interiorità. In generale, comunque, Gadamer sottolinea l’imperfezione dell’intelletto dell’uomo, del suo pensiero e della sua parola. Nella essenziale inconsapevolezza del proprio sapere, la parola interna dello spirito non si produce attraverso un atto riflessivo, quanto piuttosto come un dir-si che è struttura del pensiero. Fra il pensare ed il dir-si non vi è passaggio, nonostante sia facile un misconoscimento del carattere diretto e irriflesso della parola.

Rispetto alle teorie strumentalistiche del linguaggio, la posizione gadameriana che parla della medietà del linguaggio si presenta come nuova modalità del pensare il rapporto tra lo spirito finito dell’uomo ed una infinità potenziale, divina o altrimenti assoluta. L’atto del parlare mette in connessione l’universalità del significato della parola e la particolarità della concreta situazione d’uso, in un processo continuo di formazione dei concetti. Entro questa prospettiva, vanno riconosciuti i limiti dell’autocoscienza linguistica del parlante. Operazioni come le classificazioni, le analisi del discorso, ecc., sono completamente estranee e staccate dalla coscienza del linguaggio vivente. Nella sua fondamentale metaforicità, questo presta attenzione a ciò che è comune, si orienta sulla propria esperienza in sviluppo, mira alla somiglianza con

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Cfr. Platone, Cratilo, in Id., Dialoghi filosofici, vol. secondo, Torino, UTET, 1981. Qui si confrontano

davanti a Socrate Ermogene e Cratilo. Inizialmente Ermogene riferisce a Socrate l’opinione del suo contendente nella disputa.

“ERMOGENE: Cratilo qui afferma, Socrate, che ogni ente ha per natura il nome corretto e che non è un nome questo con cui alcuni lo chiamano, per aver convenuto di chiamarlo così, emettendo una parte della loro voce, ma esiste per natura una certa correttezza dei nomi per gli Elleni e per i barbari, la stessa per tutti.”, ivi, 383b-384.

la cosa. E’ l’espressione di una specifica esperienza, non un’astrazione, ma un processo che comporta in ogni caso il raggiungimento di una certa conoscenza del generale.

Passando alla trattazione del linguaggio nella filosofia moderna, Gadamer si sofferma in particolare su Von Humboldt.177 Nel pensiero di questo autore fondamentale per la linguistica, Gadamer sottolinea in particolare la concezione delle lingue come peculiari visioni del mondo, e la connessione da quegli evidenziata fra individualità ed universalità delle lingue. Secondo Gadamer, dietro il pensiero di Humboldt è implicito un riferimento alla metafisica leibniziana dell’individualità. Alcuni punti humboldtiani sembrano anticipare le stesse prese di posizione gadameriane: ad esempio nella considerazione della sconfinata totalità del pensabile, per cui Humboldt parla di un uso infinito di mezzi finiti, con una forza del linguaggio che è superiore a tutte le sue specifiche applicazioni; od ancora, nel rapporto fra uomo e linguaggio, entrambi indicano una libertà dell’uomo limitata nei confronti del linguaggio. Ma i limiti anche del pensiero humboldtiano stanno nella tendenza alla separazione, ad una dichiarata quanto illusoria ed impossibile nell’esperienza ermeneutica divisione fra la forma linguistica ed il contenuto in essa trasmesso. La mediazione linguistica, fra la lingua propria e quella altrui, era stata vista da Humboldt come un’imperfezione, mentre per Gadamer essa rappresenta l’essenza stessa del linguaggio e della sua natura dialogica. Viviamo sempre il linguaggio nell’esperienza di un rapporto, in cui entrano in gioco almeno due parti o soggetti, rapporto che come tale non è contrassegnato dall’obiettività. Il fatto che non si raggiunga “in modo puro e completo” l’apprendimento di una lingua non è un limite, ma l’unico modo per comprenderla: per la comprensione, infatti, non è possibile prescindere dalla partecipazione e dal coinvolgimento.

Ciò che è importante per Gadamer è che si riconosca il linguaggio come fenomeno umano originario. Il mondo umano si costituisce nel linguaggio, che non è uno strumento dell’uomo ma la condizione della sua possibilità di avere un mondo. In

Più avanti, egli stesso esprime la propria concezione sul linguaggio e la nominazione.

“ ERMOGENE: Io, Socrate, pur avendone discusso sovente con lui e con molti altri, non riesco a convincermi che esista una correttezza dei nomi diversa dalla convenzione e dall’accordo. A me pare, infatti, che il nome che uno pone ad un oggetto, sia il nome corretto; e se poi lo sostituisce con un altro e non lo chiami più con il primo, l’ultimo nome è non meno corretto del primo, […] perché per natura non c’è alcun oggetto, ma solo per legge e per consuetudine di coloro che si sono abituati così e così lo chiamano.”, ivi, 384d-e.

177

Cfr. W. von Humboldt, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaus, pubblicato per la

prima volta nel 1836; tr. it. La diversità delle lingue, introduzione e traduzione a cura di Donatella Di

questo senso le lingue sono visioni del mondo e hanno un’esistenza autonoma rispetto al singolo, che introducono in una comunità. Mondo e linguaggio esistono così unicamente nella loro connessione. A questi due poli è collegato anche il discorso sulla libertà dell’uomo, che ha mondo in quanto è capace di trascendere la determinazione puramente biologica e materiale da parte dell’ambiente in cui vive: e ha questa facoltà in quanto essere linguistico, dotato di quella peculiarità sua propria che è il linguaggio, non posseduta dagli altri animali.

Esiste però anche una sorta di obiettività del linguaggio, ed è l’aspetto che presiede o caratterizza il fatto che esso non possa che essere comunicazione interumana. In questa comunicazione viene a manifestarsi il mondo, che viene messo al centro della contesa ed è l’oggetto su cui gli interlocutori ricercano un’intesa. Ma poiché la comunicazione avviene nel terreno comune del linguaggio, scopriamo che nel dialogo ed all’interno di una comunità linguistica l’accordo è già avvenuto.

Il mondo che si esprime ed è detto nel linguaggio è anche l’orizzonte della nostra conoscenza e comprensione, poiché non esiste alcun mondo in sé, extralinguistico, una posizione giusta esterna al linguaggio umano. Le esperienze del mondo che facciamo nel linguaggio hanno inoltre una loro permanenza. E’ come un viaggio in cui facciamo infine ritorno a casa: ogni umana visione del mondo presenta una sua condizionatezza storica. Come già illustrato nell’analisi dettagliata della coscienza della determinazione storica, la coscienza della condizionatezza non elimina né supera la condizionatezza stessa: è questa una presa di posizione contro il pregiudizio della filosofia della riflessione.

“Il carattere linguistico della nostra esperienza del mondo non significa una prospettività esclusiva e limitante; quando penetriamo in mondi linguistici diversi dal nostro e abbandoniamo i pregiudizi e i limiti della nostra precedente esperienza, ciò non significa affatto che ci distacchiamo dal nostro mondo e che lo neghiamo. Quando viaggiamo, ritorniamo a casa con le nuove esperienze. E se ci allontaniamo per non tornare, non possiamo tuttavia mai dimenticare totalmente. Anche quando, in sede di conoscenza storica, ci rendiamo chiaramente conto della condizionatezza storica di ogni umana visione del mondo, e quindi anche della nostra, ciò non significa che ci poniamo in un punto di vista incondizionato. In particolare non contraddice a quest a fondamentale condizionatezza il fatto che questa ammissione voglia essere a sua volta senz’altro vera in modo incondizionato. La coscienza della condizionatezza non elimina la condizionatezza. Uno dei pregiudizi della filosofia della riflessione è proprio il fatto di mettere in rapporto tra loro enunciati che non appartengono allo stesso piano logico. L’argomento della riflessione è qui fuori luogo. Non si tratta qui, infatti, di rapporti tra giudizi che devono non essere contraddittori, ma di rapporti di vita.”178

Che il linguaggio si situi nel mondo della vita e non nell’obiettività della ricerca scientifica ci è dimostrato anche dal fatto che esso rimane come sottofondo (ancora una

volta soggetto, hypokeímenon) per le nostre intuizioni, essendone garanzia e condizione di continuità. Il linguaggio è così la sede del permanere e del mutare delle cose per noi, e ci ricorda che sempre proveniamo da qualche parte, da un’origine, non siamo inizio, e proseguiamo verso una direzione ed una meta non ultimative, non essendo conclusione. La reciproca implicazione di linguaggio e mondo, così come lo stare immerso della nostra coscienza nel linguaggio, contraddicono all’idea di oggetto in sé che è presente nella scienza moderna, almeno prima dei suoi aggiornamenti novecenteschi. Il concetto di oggetto assoluto è per Gadamer un controsenso, data la costitutiva relatività degli universi, il loro essere situati nel tempo e nello spazio. Per questo, l’affermazione gadameriana dell’impossibilità di “uno sguardo da nessun luogo”, di un punto di vista esterno all’esperienza linguistica del mondo, è coerente con la negazione della priorità gnoseologica, ontologica ed esistenziale dell’io penso.

E’ allora necessario precisare la differenza fra l’oggettività della scienza e quella del linguaggio. La prima si realizza mediante l’eliminazione degli elementi soggettivi implicati nella conoscenza. La seconda invece non diventa mai padronanza delle cose, perché rimane comunque avviluppata all’interno dell’insieme dei comportamenti vitali. In questa differenza è tutto il sospetto della scientificità oggettivante, che avverte nell’esperienza naturale formulata nel linguaggio una fonte di pregiudizi. E’ di fronte a