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A fianco della questione del tempo, e con essa strettamente intrecciata, è da Gadamer trattata la problematica della morte nell’uomo307. Che cosa pensa l’uomo della morte, e come la pensa? Sempre restando all’interno della tradizione occidentale, con le sue matrici fondamentali, quella greca e quella cristiana, Gadamer evidenzia l’incomprensibilità della morte per l’uomo, il suo non saperla interrogare ed ascoltare nella sua alterità. La morte è un evento naturale, eppure per l’uomo rimane una domanda aperta, a cui sa rispondere solo con delle forme di rimozione. L’uomo che fonda il suo rapporto col mondo sull’affermazione della certezza del proprio esistere, conseguente alla constatazione della propria attività di pensiero, rimane sorpreso di fronte all’arrivo della morte, della quale sa comunque l’ineluttabilità. Se siamo certi del nostro essere in quanto pensiamo, non riusciamo a pensare il nostro non-essere. Vi è nella nostra coscienza il primato incontrastato del sapere di essere vivi, mentre la certezza della morte ci giunge dall’esterno. Ecco che dall’antichità, tutte le forme, religiose o meno, di ricordo dei morti si caratterizzano come rimozioni, per quanto cerchino di reinserire i morti nel ciclo della vita, di mantenerli in vita nel culto o nella memoria rispettosa. Al contrario degli altri animali che riescono soltanto a percepirne la vicinanza, noi uomini sappiamo della morte, ma non sappiamo accettarla.

Occorre ritornare all’origine della concezione della vita, per spiegarci questa rivolta. Tra i Greci vi erano due parole che illustravano due punti di vista diversi sulla vita, Zoé e Bíos. Zoé è una sorta di respiro vitale, che fa riferimento all’anima di ogni

organismo vivente, alla sua vitalità, ed è svincolato dal rimando ad una precisa individualità. Si contrappone alle cose inanimate. Parliamo invece di Bíos “quando un essere è inteso nella modalità specifica della sua vitalità”308. In questo senso, ogni modalità specifica si contrappone ad altre diverse ma comunque vitali: perciò si parla di

Bíos per ogni essere vivente, ma in modo eminente per l’uomo, che è colui che sa di

vivere e cerca di scegliere ed orientare la propria esistenza. Ancora, questo indica che quando ci riferiamo al Bíos stiamo trattando di una individualità che si differenzia da

307

Der Tod als Frage, conferenza tra il 26 e il 27 agosto 1972 a Bressanone, ripetuta lo stesso anno agli

studenti di Heidelberg, prima pubblicazione in tedesco con il titolo Die Unbegreiflichkeit des Todes: Philosophische Überlegungen zur Traszendenz des Lebens, in “Evangelische commentare”, 7/11 (1974),

pp. 660-664, poi estratto con il titolo Der tod muss unbegreiflich sein, in Wir wissen, das wir sterben müssen, hrsg. v. H. Nitschke, G. Mohn, Gütersloh, 1975, pp. 99-100; poi con il titolo originale in KSIV,

1977, pp. 62-73 e in GW4, pp. 161-172; tr. it. La morte come problema, in “Giornale critico della

filosofia italiana”, 52/2 (1973), poi in L’enigma del tempo, cit., pp. 134-159.

tutto il resto che non ne fa parte. Questa distinzione greca è illuminante per comprendere quanto profondamente sia radicato nell’uomo, come sia una sua specificità, il senso della propria identità singolare di essere pensante, che confluisce in una storia particolare ed unica. Qui Gadamer ci ricorda come a partire da Eraclito il concetto della Psych• si connette con quello di Lógos, con il sapere ed il voler sapere: la ricerca filosofica tende così sempre più a collocare la consapevolezza - della propria vita e della propria morte, del proprio vivere e del proprio dover morire - al di sopra della vitalità naturale ed organica. Incomincia quindi a delinearsi anche il problema dell’inafferrabilità dell’altra faccia, del proprio non-essere, che si oppone alla dottrina dell’idea di Platone o al Noús aristotelico, intese nel loro valore di presenza costante e di rappresentazione. La summa di queste ricerche filosofiche è data dal Fedone

platonico309: nessuna delle prove addotte per sostenere l’immortalità dell’anima individuale risponde al nostro desiderio di pensare alla morte con gli stessi strumenti della consapevolezza che abbiamo della vita. Si può dire perciò che la filosofia greca fallisca nel tentativo di rispondere alla domanda sulla morte.

La novità che rispetto a questo scacco esprime il Cristianesimo non ha invece un carattere filosofico, ma consiste piuttosto nel farsi interprete di una promessa e di una rivelazione, per cui dopo la morte vi è un’altra vita ed alla fine dei tempi avverrà il ricongiungimento fra gli uomini. Altri esempi di non comprensione della morte in quanto tale giungono poi dalla poesia romantica, da Novalis310 che guarda alla notte come simbolo di una diversa chiarezza interiore, e da Goethe che accosta amore e morte come forme di uscita da sé. Sono pure affini per certi versi alla morte il sonno ed il sogno, in quanto perdiamo in queste dimensioni la consapevolezza ed il controllo su noi stessi: ma poi esse sono ricondotte al ciclo del risveglio ed alla comprensione razionale. L’uomo non riesce quindi a prendere effettivamente atto della morte, ma soltanto cerca di riportarla nell’ambito del comprensibile; per questo Gadamer si pone

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Cfr. H. G. Gadamer, Die Unsterblichkeitsbeweise in Platons „Phaidon“, in Wirklichkeit und Reflexion, Pfullingen, Neske, 1973, pp. 145-161; tr. it. di G. Moretto, Le prove dell’immortalità dell’anima nel “Fedone” di Platone, in Studi platonici 2, 1984, cit., pp. 73-87; in GW6, pp. 187-200; in Wege zu Plato, 2001, cit., pp. 9-33. Cfr. Platone, Fedone, in Id., Dialoghi, volume primo, a cura di

Giuseppe cambiano, Torino, UTET, prima edizione 1970: ivi, come è noto, il tema della morte viene affrontato nel dialogo fra Echecrate e Fedone, attraverso il racconto che quest’ultimo fa all’altro della vicenda della morte di Socrate, concentrandosi soprattutto sul colloquio di Socrate prossimo all’avvelenamento con amici e Santippe; mentre il tema dell’immortalità dell’anima è trattato in particolare nelle pagine 537-541.

310

Gadamer rimanda agli Inni alla notte: cfr. La morte come problema, in L’enigma del tempo, cit., pp.

145-147; cfr. Novalis, Inni alla notte e Canti spirituali, tr. it. e introduzione di A. Hermet, Lanciano,

una domanda più incisiva: se non sia improponibile il rapporto vero con la morte da parte dell’uomo, proprio perché siamo così immersi e dominati dalla nostra certezza di esistere. Fra morte e pensiero sembra esservi una decisa repulsione, una incompatibilità, ed il pensare la morte la trasforma sempre in qualcosa di diverso dalla sua più propria natura. Un mito eccellente sulla morte è sempre la vicenda di Prometeo, che ha notevolmente interessato Gadamer. Prometeo è l’emblema dell’orgoglio dell’uomo per la sua autosufficienza, ed in lui si uniscono la dimenticanza dell’ora della morte e la capacità tecnica di padronanza illimitata sulle cosa da parte dell’uomo. Gadamer vede come carattere affine, accomunante i due doni di Prometeo, la propensione alla “trascendenza della vita” di cui parla Simmel311, per cui l’uomo tende a superare i propri limiti, ad andare oltre ed eccedere la sua natura e condizione finita, a non fermarsi alla sola conservazione istintiva e sopravvivenza. Questa idea di Simmel coincide con la posizione di Goethe, con la sua incapacità di pensare finita la propria vita con la morte, con un fenomeno costante di eccedenza del proprio esistere che diventa una nuova natura che apre sempre ulteriori possibilità. Il paradosso è proprio questo: che la vita debba abbandonare la propria certezza di esistere quando cerca di espandersi al di là dei propri confini. Qui i modelli giungono al limitare del sacro, si confrontano con il martirio ed il sacrificio, vedono stagliarsi di fronte la figura di Cristo. Gadamer coglie la lezione di Tenebrae312, una lirica di Celan, in cui Gesù crocifisso e morente invoca il Padre, e non ottiene risposta. Dio non conosce la morte, al contrario degli uomini. Questi siamo noi, destinati a patire la morte, a saperla e non comprenderla né accettarla. La tesi conclusiva di Gadamer riprende la domanda che prima si era posto, e conferma l’impossibilità per l’uomo di pensare la morte, la quale è totalmente altra cosa dal suo essere pensante e dalla sua certezza di esistere, ed a cui egli può avvicinarsi solo col sentimento dell’angoscia, che è la paura del nulla, della possibilità di non-essere.

311311

Il riferimento gadameriano è probabilmente alla tarda fase del pensiero di Simmel, quando egli sviluppò una filosofia della vita. Le opere da considerare sono quindi G. Simmel, Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, München-Leipzig, Duncker & Humblot, tr. it a cura di A. Banfi, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Milano, Bompiani, 1938; e Id., Der Konflikt der modernen Kultur,

München -Leipzig, Duncker & Humblot, tr. it. a cura di C. Mongardini, Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1976.

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“Nahe sind wir, Herr,/ nahe und greifbar. //Gegriffen schon, Herr, / ineinander verkrallt, als wär / der Leib eines jeden von uns / dein Leib, Herr. // Bete, Herr, / bete zu uns, / wir sind nah. // Windschief gingen wir hin, / gingen wir hin, uns zu bücken / nach Mulde und Maar.“ „Vicini, Signore, / siamo tanto vicini da poterci afferrare. // Già afferrati, Signore, / avvinghiati l’un l’altro, come se / il corpo di ognuno di noi / fosse il tuo corpo, Signore. // Prega, Signore, / pregaci, / noi siamo vicini. // Abbiamo camminato controvento, / camminato per calarci / in valli e anfratti.”