Sono molte e varie le esperienze dell’uomo che supportano la messa in discussione della centralità dell’autocoscienza nel suo esserci e che vengono sottoposte da Gadamer al vaglio della storia concettuale. Fra ciò che trascende la possibilità di conoscenza da parte dell’uomo, è anche il tempo, che potrebbe benissimo sostituire la storia ed il linguaggio in una affermazione di chiaro stampo gadameriano: noi apparteniamo al tempo più di quanto il tempo appartenga a noi. Il tempo dell’uomo è evidentemente quello della sua esistenza, ma di esso egli non conosce né il principio né la fine.
Nei saggi compresi in L’enigma del tempo293 Gadamer ripercorre le tappe principali della concezione occidentale del tempo294, rimanendo vincolato, anche per
292Begriffsgeschichte als Philosophie, prima pubblicazione in “Archiv für Begriffsgeschichte”, vol.XIV,
(1970), pp.137-151, poi ripubblicato in Kleine Schriften III,Tübingen, 1972, pp.237-250; tr. it. Storia dei concetti come filosofia , in VM2, cit., pp. 142.
293
Das Rätsel der Zeit, in GW4. Neuere Philosophie II. Probleme. Gestalten, Tübingen, J. C. B. Mohr
(Paul Siebeck), 1987, pp. 119-172; tr. it. e cura di M. L. Martini, L’enigma del tempo, Bologna,
scelta metodica, alla tradizione culturale che conosce e alla quale sente di appartenere. Il tempo si presenta come enigma per le sue aporie e per la sua incerta realtà e natura: ma la domanda su che cosa sia il tempo e sull’effettività della sua esistenza, come si vede nello studio con cui Gadamer ne ripercorre le tracce dell’evoluzione concettuale, non viene formulata con chiarezza nella tradizione occidentale. Il mistero del tempo è sottolineato dall’indimostrabilità della sua esistenza e dalla sua tensione verso il fluire, il trascorrere, il non-essere. Nell’antica Grecia sembra primeggiare un’idea del tempo declinata nel senso della misurabilità della scansione del movimento, che è denominata come chrónos: ma ad essa coesiste, con alterne fortune filosofiche, la prospettiva
dell’aión, che fa riferimento alla vitalità dell’anima di ogni organismo vivente e al sentimento della sua durata. Si può comunque considerare la concezione greca del tempo come caratterizzata da un andamento ciclico, cui si contrapporrà la visione lineare del Cristianesimo: ma all’incapacità umana di accettare la ciclicità della vita e della natura, di cui gli uomini stessi fanno parte, è attribuita dal medico Alcmeone una precipua peculiarità antropologica, per cui si ha una tale coscienza e senso della propria individualità, tra gli uomini, da “non saper ricongiungere il principio con la fine”295, ovvero il tendere a ribellarsi al continuo fluire delle generazioni. L’uomo, quindi, non accetta come propria forma di esistenza quella che è comune a tutti gli esseri viventi, l’eterno rinnovarsi della specie nell’alternanza di vita e morte, e si percepisce in questo impotente e combatte con la natura e con se stesso. Le aporie del tempo giungono tra i Greci in primo piano, a parere di Gadamer, proprio perché le due facce del tempo bifronte vengono pensate come alternative, e non come complementari e necessariamente coesistenti. Gadamer ritiene però che questa scissione non sia presente in Platone e nella sua descrizione della creazione del tempo ad opera del Demiurgo, nel
Timeo296. Qui il creatore realizza una copia mobile dell’universo perfetto, organismo
294
In particolare in Die Zeitanschauung des Abendlandes, in H. G. Gadamer, Kleine Schriften IV. Variationen, Tübingen, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), 1977, pp. 17-33; tr. it. di J. Senf, La concezione del tempo nell’Occidente, in „Il Cannocchiale“, 1-3 (1981), pp. 29-45; con il titolo Über das Zeitproblem in Abendland in Leib, Geist, Geschichte, Brennpunkte anthropologischer Psychiatrie, A. Hühtig, Heidelberg
1978; con il titolo originale in GW4, pp. 119-136 ; tr. it. di M. L. Martini, La concezione del tempo dell’Occidente, in L’enigma del tempo, cit., pp. 35-77.
295La concezione del tempo dell’Occidente, in L’enigma del tempo, cit., pag. 45. 296
Sul Timeo cfr. anche, tra l’altro, H. G. Gadamer, Idee und Wirklichleit in Platos “Timaios”(conferenza
del 10 novembre 1973 a Heidelberg), Heidelberg, C. Winter, 1974, poi in GW6, pp. 242-270, quindi in Wege zu Plato, Stuttgart; Reclam, 2001, pp. 34-84; tr. it. di G. Moretto, Idea e realtà nel “Timeo” di Platone, in Id., Studi platonici 2, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pp. 88-120. Cfr. Platone, Timeo, in
Id., Dialoghi politici – Lettere, volume primo dei Dialoghi, a cura di Francesco Adorno, Torino, UTET,
prima edizione 1953, seconda 1970, poi 1988: in particolare, “L’origine del mondo”, V-VII, pp. 738-746, e “Il tempo”, X-XI, pp. 753-757.
vivente dotato di un suo tempo proprio, l’aión, con la sua capacità illimitata di esistere. Al momento in cui il tempo viene creato, l’anima, di cui è dotato l’universo, in quanto unico grande essere vivente, è presentata appunto come psych•, animazione, soffio vitale, non come coscienza: così è diversa ed esterna l’origine della coscienza (thýrathen in Aristotele297), spirito o intelletto prerogativa dell’uomo. Platone parla di questo sistema dell’universo, in cui anima e corpo sono ricondotti all’unità, descrivendolo attraverso i circoli dell’identità e della differenza; e d’un tratto si riferisce ad un’anima provvista delle forme di conoscenza tipiche dell’uomo. E’ questo punto oscuro un momento meramente mitologico della sua trattazione? Gadamer nota come nelle forme di conoscenza umana accade, si svolge necessariamente un gioco di identità e differenza, che nell’universo fungono da regolatori dell’ordine: i due poli sono complementari ed entrambi necessari perché vi sia una permanenza nel mutamento. Lo spirito umano è capace di pensare tale ordine, cioè di mantenere distinti ed uniti l’identità e la differenza: e proprio perché l’esistenza di un differenziato presuppone una differenziazione, è la coscienza deputata a ciò, come “altro lato dell’essere”. Ecco che quindi il Timeo ci sta manifestando la relazione fra l’essere e l’anima, che sono inscindibili: inoltre, l’anima è il luogo in cui si definiscono le forme conoscitive dell’opinione (dóxa) e della scienza (epistéme)298.
Nella lettura gadameriana, la concezione aristotelica del tempo è affine a quella platonica, distinguendosene per una maggiore definizione analitica, che porta alla messa in risalto di due nessi: quello fra le aporie ontologiche del tempo e l’evanescenza dell’attualità degli istanti, che continuamente passano e scompaiono, e l’altra connessione fra l’essere del tempo e l’essere dell’anima, mentre i numeri, espressione della scansione temporale, sono prodotti dalla capacità di astrazione dello spirito umano. Nella considerazione aristotelica dell’essenza dell’uomo come caratterizzata dal suo “senso del tempo”299, che gli permette di accantonare un beneficio ravvicinato in vista di un vantaggio più grande a venire, si chiarisce ed illumina l’atteggiamento umano originario, comune ai Greci e alla modernità, di utilizzare il tempo come strumento, come “tempo vuoto” disponibile per l’azione dell’uomo, in astratto come oggetto di dominio. Lo scarto tra pratica ed uso operativo e concettualizzazione del pensiero è esplicitato con particolare chiarezza da Agostino nelle sue Confessioni,
297
Aristotele, De gen. an.., 736 b 28, 744 b 22.
298
Platone, Timeo, 37c.
299
quando afferma di sapere che cos’è il tempo se nessuno glielo chiede, ed altrimenti di non saper rispondere300. In generale è comunque Agostino ad approfondire e valorizzare il rapporto tra il tempo e l’anima umana. In lui è centrale la dimensione dell’interiorità, con le sue esperienze e vissuti, con il suo orientamento verso il futuro e il paradosso di un presente che non è mai. Ma neanche Agostino modifica radicalmente il modo di pensare il tempo da parte dell’uomo, rimanendo sempre impigliato tra le sue aporie e la percezione interna che verrà esaltata sul piano gnoseologico da Kant.
La concezione greca del tempo, con la sua naturale funzione-guida della misurazione della successione di attimi vuoti, ripresa, sostenuta e precisata dalla scienza moderna, e portata a compimento nelle applicazioni tecniche di questa, è ancora predominante nella nostra mentalità. Essa è simboleggiata con forza immaginifica dal mito di Prometeo, che Gadamer analizza301 nelle sue due interpretazioni nella tragedia di Eschilo302 ed in alcuni frammenti poetici e teatrali di Goethe303. Più in profondità, la figura di Prometeo rappresenta l’autocomprensione stessa dell’Occidente, è lo specchio del cammino della nostra civiltà lungo i sentieri della scienza e del progresso tecnico. In Eschilo, dapprima gli uomini, fermi alla loro concezione primitiva, non elaborano alcuna sensibilità rispetto al fluire del tempo e al loro destino di esseri mortali: ma da
300
Agostino, Confessioni, Roma, città Nuova, 1965, poi Torino, Einaudi, 1967: in particolare, libro XI,
“Il tempo”, pp. 244 -257: “[…] Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo altri parlare. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”, ivi, XI 14.17, pag. 246.
301
Cfr. anche H. G. Gadamer, Prometheus und die Tragödie der Kultur, (conferenza dell’inverno 1944 a
Dresda, ripetuta in primavera a Porto, in francese il 19 aprile 1949 a Buenos aires), vers. abbreviata in Die Wandlung, 1/7 (1946), pp. 600-611; conferenza di Buenos Aires in “Anales de filología clásica”, 4
(1947/49), pp. 329-343; vers. completa in Festschrift für Rudolf Bultmann zum 65. Geburstag,
Stuttgart/Köln, W: Kohlhammer, 1949, pp. 74-83; in KS II. Interpretationen, 1967, pp.64-74 (escluso
dalla tr. it.); quindi in GW9, pp.150-161.
302
Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, a cura di Carlo Carena, Torino, Einaudi, 1995. Prometeo è "colui
che guarda avanti, il previdente". L’indicazione dei doni all’umanità e nell’episodio primo, nel dialogo con una corifea.
“PROMETEO: Appunto: mi ridusse a destare pietà negli amici. CORIFEA: Ma forse non procedesti più oltre?
PROMETEO: Liberai gli uomini dall’incubo della morte. CORIFEA: Quale rimedio scopristi a tale malanno? PROMETEO: Infusi in loro cieche speranze. CORIFEA: Grande beneficio largisti all’uomo.
PROMETEO: Oltre a questo, poi, trasmisi loro il fuoco. CORIFEA: Che? I vivi d’un giorno hanno il fuoco abbagliante? PROMETEO: E da esso apprenderanno molte arti.”
303
Cfr. anch e H. G. Gadamer, I limiti del titanico. Prometeo – Pandora, in Id., Il cammino spirituale dell’uomo. Studi su poemi incompiuti di Goethe, tr. di G. Bonola, in Id., Interpretazioni di poeti 1, a cura
di G. Bonola e M. Bonola, introduzione di M. Bonola, Genova, Marietti, 1990, pp. 84-98. Alla base di questo studio vi è una conferenza tenuta a Lipsia nel 1944.
Prometeo essi ricevono due doni: il primo e più grande è quello dell’oblio dell’ora della propria morte, il secondo, che con l’altro forma un insieme di eccezionale efficacia per la storia degli uomini, consiste nella capacità tecnica, nel saper fare e nel saper prevedere il risultato del proprio operare sugli oggetti e la materia. Sotto l’influsso di questi due doni, il tempo diventa uno spazio aperto illimitato per l’agire umano, in una attiva dimenticanza proiettata verso il futuro e comandata dalla speranza di ottenere ciò che si vuole e progetta. Fra Eschilo e Goethe si sviluppano altre linee interpretative della figura di Prometeo, che lo vedono come benefattore degli uomini, e col suo sacrificio per amore degli uomini modello anticipatore del Cristo sofferente, ed ancora nel Rinascimento dio dei vasai, divinità creatrice espressione dell’autocoscienza dell’artista.
Goethe304 si inserisce principalmente in quest’ultima tradizione, ma mantiene anche una profonda vicinanza ad Eschilo. Il Goethe giovane traccia di Prometeo un’immagine di essere orgoglioso della propria autonomia, della capacità di saper fare da sé, conscio della propria identità individuale, su cui persino gli dei non avranno il potere di scissione. Così Prometeo appare come la raffigurazione dell’autocoscienza pensante, che non crede di poter non-essere, e che considera l’eternità degli dei solo come una durata infinita, ma non attribuisce neppure ad essi la facoltà di riunire insieme il passato ed il futuro, di vederli nello stesso presente. Nella sua tarda età invece Goethe porterà Prometeo ed il fratello Epimeteo ad affrontare esperienze che trascendono la ragione e l’autocoscienza, la capacità di dominio di sé: l’amore dei giovani, le passioni dei figli, la morte e la rinascita, la solidarietà nuova della festa con il suo tempo proprio che non può essere semplicemente usato come strumento, ma piuttosto vissuto come momento di comunità, abbandono, estasi. A tutto questo Prometeo opporrà vanamente il rifiuto da parte della ragione di una realtà che non sa dominare. Solo in Heidegger sarà esposto un modo diverso di rapportarsi al tempo da parte dell’uomo, una concezione per cui la costituzione ontologica dell’esserci è contrassegnata dalla temporalità, esistenziale del Dasein: è un tempo autentico nettamente differenziato dal tempo calcolabile e mondano. Anche l’articolazione delle età della vita individuale, o la
304
Goethe compose nel 1773, a 24 anni, due atti di un dramma che l’anno successivo confluirono ner progetto di un inno interamente dedicato a Prometeo. Anche questa nuova opera rimase però incompiuta
e fu pubblicata solo nel 1785 ad opera di Jacobi e contro la volontà di Goethe stesso. Questo testo presenta comunque un proprio significato compiuto e l’autore lo inserì così nei suoi Gesammelte Werke.
Esiste in tr. it. a cura di L. Mazzucchetti in Goethe [1868-1879a], Opere, vol. I, Firenze, Sansoni, 1948,
pp. 405-sgg. Successivamente, nel 1807, egli iniziò a lavorare su un dramma pensato col titolo di
Pandores Wiederkunft, del quale compose due atti, poi collocati a chiusura dei suddetti Gesammelte Werke, con il titolo Pandora, che si trovano con tr. it. in W. Goethe, Opere, cit., vol. IV, pp. 554 sgg..
suddivisione per epoche della storia costituiscono modalità altre di esperire il tempo, modalità fondate sul vissuto e sulla sua percezione di durata, e modalità che possono rappresentare il tempo non nel suo fluire ma quasi fermandolo nella percezione, presentandolo in un’ottica di compresenza e simultaneità. La legge strutturale del vissuto è comune a tutti gli uomini, vede il continuo estendersi del passato e il progressivo restringersi del futuro, ed insieme ad essa è comune a tutti gli esseri umani il sapere di dover morire, la cui anticipazione esprime in Heidegger l’autenticità del
Dasein.
Ma il punto di vista del tempo organico accomuna anche tutte le filosofie della storia, le religioni ed i progetti laici di escatologie secolari, in cui alla fine dei tempi, dopo un tempo storico articolato, avviene il raccolto dei frutti.
Le prime pagine di Il vecchio e il nuovo305 illustrano efficacemente le riserve di Gadamer su una concezione forte dell’identità individuale dell’uomo. In questa occasione, il tempo, che è filo conduttore del discorso, agisce da elemento perturbatore di una unicità, coerenza, permanenza che è invece disorientata. Quella che dovrebbe essere l’indissolubile autocoscienza dell’Io, principio di unificazione dei punti di riferimento (numero, idea, intelletto) dell’uomo nel mondo, è esposta allo scorrere del tempo come fosse delle intemperie ingovernabili e violente: essere una persona dovrebbe significare esistere di per sé, possedere autonomia e stabilità, permanere. Ma come è possibile mantenersi se stessi, nella propria identità, quando intorno tutto scorre? E quel frammento che è la storia individuale è radicato e fuso, fino a diventare irriconoscibile, nel suo essere sociale e nel suo sviluppo storico. E’ una difficoltà a riconoscere la nostra singolarità che non vale solo per gli altri ma anche per noi stessi: “anche solo nel nostro essere per gli altri, per il nostro prossimo, e tanto più all’interno del nostro ruolo sociale, noi non riusciamo assolutamente a vederci così come siamo e se incontrassimo noi stessi, non ci riconosceremmo né ci accetteremmo”306.
Ciò che però caratterizza Gadamer è il non guardare a questa faticosa condizione come ad una mancanza, ma piuttosto concepirla come una inestimabile ricchezza, soprattutto per quegli aspetti che ci accomunano, anche se non ne abbiamo piena consapevolezza, e che costituiscono la nostra condizione umana nella sua appartenenza (la famiglia, la civiltà, il tempo in cui viviamo, il consesso degli uomini). In questa
305
Das Alte und Neue, discorso di apertura delle “Salzbürger Textspiele”, 26 luglio 1981, trasmesso
radiofonicamente il 31 luglio, prima pubblicazione nei programmi ufficiali, poi in Universitas n.38, 1983; GW4, pp. 154-160; tr. it. Il vecchio e il nuovo, in L’enigma del tempo, cit., pp. 118-133 .
nostra limitata consapevolezza, viviamo di distinzioni, che sono alla base della nostra finitezza: dobbiamo differenziare e separare per vivere e scegliere, è questa la nostra esperienza dell’esistere, e la nostra sicurezza interiore cela una più profonda incertezza, estrema e tormentata, che scaturisce dalla specifica temporalità che ci è propria. La durata della nostra vita, il lasso di tempo assegnato ad ogni essere vivente è poi articolato in un ritmico avvicendarsi che dà unità all’organismo, lo costituisce come un Sé stabile, e le esperienze del nostro percorso individuale vengono vissute come facenti parte di un’unica storia personale, la cui continuità si palesa chiaramente però solo in uno sguardo retrospettivo. Durante questo itinerario ci accompagna il sapere la nostra età, non nel senso del computo degli anni, quanto piuttosto nella percezione del movimento di un orizzonte esistenziale, quasi impercettibile ma inarrestabile. Ed i due campi della nostra vita, il passato ed il futuro, non si prospettano davanti a noi insieme, ma stanno fra loro nel rapporto che vede l’uno progressivamente ampliarsi e l’altro incessantemente ridursi. Se guardiamo in fondo al nostro passato, non ne scorgeremo il principio, così come se ci volgiamo innanzi al futuro non siamo in grado di coglierne la conclusione: sappiamo la nostra finitezza, ma non ne siamo padroni, non possiamo dominarla. Fra i due estremi del conservarsi e del mutare, la vita dell’uomo tende all’equilibrio, è permeata da una dialettica insuperabile di vecchio che vuole confermarsi e di nuovo che cerca di emergere. La civiltà, il sostrato comune ad un popolo o a una moltitudine di uomini, è essenzialmente la risposta che è stata data a questa difficoltà di mantenere in vita ciò che è già stato e insieme di fondare ciò che ancora deve accadere, delle istituzioni solide, uno spirito oggettivo che non svanisce, in cui il nuovo costruisce la propria forza sulla resistenza dell’antico. Ed anche qui, come consuetudine della sua più tarda produzione, Gadamer si interroga sul presente e sul futuro, che potrà essere solo quello che avrà salde radici nel passato, in un’epoca della riproduzione tecnica che vede mutare i criteri di valore e le tradizioni scomparire senza che si consolidino prospettive nuove e persuasive, in un mondo in cui si accentua la tendenza all’uniformità.