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La Grande Guerra sembra essere contemporaneamente coronamento e evento catalizzatore di correnti politico-fliosofiche nate e diffuse nel XIX secolo nell'Europa centro-orientale, che trovano maturazione e compimento nel corso della catastrofe mondiale, anche se, guardando alla sanguinosa storia del '900, è possibile affermare che nell'estate 1914 tanto il pangermanesimo che il panslavismo costituiscono semplici prodromi ideologici di una tragedia ancora più terribile in agguato nel futuro dell'Europa.

Tanto gli intellettuali italiani che quelli ungheresi dell'epoca che l'austriaco Karl Kraus scrivono immersi in quella tempesta ideologica, semplice ancella di future teorie sulla superiorità della razza, che vede contrapporsi spiritualmente il concetto pangermanista da un lato e quello panslavista dall'altro. L'apporto magiaro, peraltro marginale e minoritario, a questa battaglia ideologica, è costituito dal turanismo, una corrente di matrice ungherese nata nella seconda metà del XIX secolo che stenta ad affermarsi, se non in circoli estremamente elitari, e che vede toccare l'apice della popolarità nel 1910 con la pubblicazione dei Turáni dalok (Canti turanici) da parte del poeta Árpád Zemplényi (1863-1919). Il turanismo “era un tentativo di costruire una sorta di ethos sovrannazionale comune a tutti i popoli ugrici (e quindi anche ai Magiari), imparentati con quel crogiolo di razze formatosi in tempi remotissimi sul bassopiano di Turan, nell'Asia occidentale”:1 nel corso del tempo alla costruzione teorica viene affiancandosi una concezione pratica, prospettando un'unione tra Ungheresi, Finlandesi, popoli ugro-finnici siberiani e coinvolgendo in questa grande famiglia persino Mongoli, Cinesi, Giapponesi e Turchi.

Ovviamente, le idee turaniche rimangono solo sulla carta e sono il prodotto di una ristrettissima cerchia di intellettuali, ma devono essere concepite come l'alternativa

1 G. CAVAGLIÁ, Modernismo, turanismo, pannonismo, in Gli eroi dei miraggi, Biblioteca Cappelli, Bologna 1987, p. 106.

ungherese al panslavismo e al pangermanesimo, quella “adesione di fondo alla concezione della nazione come patriarcale famiglia”2 prodotto nella cultura magiara tanto della corrente turanista quanto regionalista e nazional-popolare d'inizio Novecento, che vedono nel contadino magiaro il depositario di virtù antiche e immutate come la capacità di sopportazione dei mali delle vita, la tenacia e la forza d'animo.

Gli intellettuali italiani mostrano di dibattersi entro i limiti imposti dalle idee del pangermanesimo e del panslavismo, minacce ben più concrete (nell'ottica degli autori della Penisola) alla stabilità dell'Europa. Il dibattito che coinvolge le riviste culturali presenta un aspetto esente da concezioni politico-militari ben precise, lasciando spazio anche all'analisi dei pericoli e delle possibilità che la lotta per la supremazia culturale in Europa apre a queste due correnti filosofiche, supportate tanto dalle classi intellettuali quanto dai governi dei due colossi centro-orientali, la Russia e la Germania.

8.1 Tra la minaccia tedesca e il pericolo slavo

In risposta alle polemiche nazionaliste sviluppatisi fin dallo scoppio della guerra con lo scopo di condurre l'Italia ad una conquista imperialista di territori nei Balcani, Salvemini già in agosto con l'articolo Fra la grande Serbia e una più grande Austria3 dimostra come all'Italia converrebbe una Grande Serbia piuttosto che un'Austria accresciuta di potenza, se non altro perché il neonato Stato balcanico dovrebbe cercare l'amicizia di Roma contro un sicuro revanscismo di Vienna. La solidarietà reciproca permetterebbe ai due Paesi meridionali di dividersi la difesa terrestre e marittima dell'Adriatico, e Roma, in possesso di una flotta da guerra, è in grado eventualmente di impedire alla Serbia di crearsela. La creazione di una Grande Serbia di circa 10 milioni di abitanti spaccherebbe il blocco austro-ungarico di 50 milioni di sudditi, riducendone la popolazione alla consistenza numerica di quella italiana, equilibrando così il peso relativo dei tre Paesi sull'Adriatico.

2 G. CAVAGLIÁ, Modernismo, turanismo, pannonismo, in Gli eroi dei miraggi, Biblioteca Cappelli, Bologna 1987, p. 108.

3 G. SALVEMINI, Fra la Grande Serbia e una più grande Austria, in L'Unità, anno III n.32, 7 agosto 1914.

Alla possibilità di un pericolo panslavista, vero cavallo di battaglia dei nazionalisti italiani mobilitatisi per una guerra imperialista per lo spauracchio di un revanscismo slavo, Salvemini contrappone la certezza costituita dal pangermanesimo. Una pesante intromissione di Pietrogrado negli affari serbi sarebbe da escludersi per il futuro, qualora Belgrado fosse abbastanza forte da condurre la propria politica estera, dato che tanto la Serbia “continuerà a fare in avvenire la politica dei suoi interessi e non la politica della Russia”,4 e guardando alla storia recente dei Balcani l'intellettuale è tranquillizzato nell'osservare come, ad esempio nelle recenti guerre balcaniche del 1912-1913, i Paesi del Sud-Est europeo hanno dimostrato di avere una volontà indomita e una propria politica, nei limiti del possibile indipendente da San Pietroburgo.

La Grande Guerra sembrerebbe l'occasione cercata dall'Italia fin dalla guerra del 1866 per completare la propria unità nazionale annettendo il Trentino, i cui contrafforti a ridosso della pianura veneta nascondono da quarantotto anni l'incubo di una minaccia austriaca, imputando al monopolio di posizione austriaco, tanto in Trentino quanto lungo l'Isonzo e le coste istriano-dalmatiche, l'insicurezza e la sottomissione che hanno caratterizzato i rapporti diplomatici tra Roma e Vienna nei cinquant'anni antecedenti al conflitto.

La penosa condizione dei cittadini italiani in Trentino, abbandonati da Vienna alle angherie dei tedeschi del Tirolo, tassati iniquamente, vessati dalla polizia, trascurati nei loro bisogni culturali, frustrati nelle loro richieste di autonomia, costituirebbe di per sé una motivazione valida per un intervento armato: Salvemini ammette di aver sempre considerato un'eventuale guerra risorgimentale una scelta sconsiderata, dovendo

“subordinare il destino dei 35 milioni di regnicoli alle aspirazioni di neanche un milione di irredenti”,5 ma giacché il Vaso di Pandora della catastrofe europea è stato aperto da altri, è necessario cogliere il momento storico, dato che l’Austria, febbrilmente impegnata sul fronte russo, inchiodata sui monti serbi dall'esercito di Belgrado, e forse un domani aggredita anche dalla Romania, non potrebbe opporre all'Italia se non una debole

4 G. SALVEMINI, Austria, Italia e Serbia, in L'Unità, anno III n.39, 18 dicembre 1914.

5 Idem.

resistenza.

Non bisogna temere una guerra che porti alla sostituzione di una più grande Austria con la Grande Serbia, al disarmo dell'Adriatico e a migliori confini verso Vienna e Belgrado, oltre che alla fine di “uno stato di disagio sentimentale, che da mezzo secolo ci umilia e ci disturba”.6 Salvemini mostra di fare della lezione di Mazzini e Tommaseo riguardo agli Salvi del Sud il proprio credo politico e la soluzione agli iniqui rapporti che condizionano la politica di Roma con Vienna.

Partendo infatti dalla constatazione della debolezza interna dell'Italia post-unitaria, e della forza e della maturità crescenti dei popoli slavi, secondo Mazzini, a cui viene dedicato relativamente ampio spazio dall'Unità durante tutti i dieci mesi di attesa per l'intervento militare, è quindi necessario che Roma cerchi il supporto delle piccole nazioni, in particolare “nell'alleanza colla famiglia Slava”.7 Ponendosi alla guida di un grande movimento liberatore dei popoli slavi meridionali, l'Italia avrebbe così la possibilità di utilizzare e indirizzare la forza latente delle popolazioni balcaniche, all'epoca (1871) neglette e ignorate nella propria lotta per la libertà dai gabinetti inglese e francese, e solamente per questo motivo costrette ad appoggiarsi al mastodontico colosso russo il quale, in base alla propria politica estera, deliberatamente alimenta il movimento panslavista per i propri scopi in Europa. Mazzini è infatti deciso nell'evidenziare come “la politica sostenitrice dell'Impero Austriaco e del Turco è, nelle sue conseguenze, politica russa e fomentatrice del panslavismo”,8 cioè che la forza propagandistica del panslavismo di matrice russa è direttamente proporzionale alla saldezza della Monarchia e della Sublime Porta.

La lezione di Mazzini sulla libertà dei popoli è accolta e diffusa dal collaboratore del foglio salveminiano Giorgio D'Acandia con l'articolo Russi e polacchi, in cui l'autore presenta e analizza i comunicati austro-tedesco e russo pubblicati allo scoppio della guerra per i polacchi sudditi dei tre imperi. L'autore dell'articolo è amareggiato nell'apprendere dei diversi battaglioni polacchi organizzati dai tre Imperi conservatori, fino all'estate 1914

6 G. SALVEMINI, Austria, Italia e Serbia, in L'Unità, anno III n.39, 18 dicembre 1914.

7 G. MAZZINI, L'Italia e gli Slavi, in L'Unità, anno IV n.2, 8 gennaio 1915.

8 Idem.

“insensibili alle grida del loro lento martirio”,9 battersi l'un contro l'altro, ribadendo che, una volta terminati gli orrori del conflitto, anche la creazione di una Polonia indipendente, oltre a porre rimedio allo scandalo di un popolo schiavo, porterebbe dei giovamenti anche sul piano geopolitico in quanto Stato-cuscinetto tra Russia e Germania, a dimostrazione del forte carattere democratico e mazziniano che la rivista salveminiana viene sempre più ad assumere parallelamente all'evolversi del conflitto.

Tra le tre potenze, quella russa sembra la più vicina, per razza, lingua e costumi, ai polacchi, ma l'autore si chiede se il colosso zarista, a guerra finita, sia veramente in grado di mantenere le promesse fatte nel comunicato, cioè di ricostruire la Polonia, non è chiaro se indipendente o come regno unito all'Impero tramite la persona dello Zar. È comunque evidente che, visto il feroce contrasto tra pangermanesimo e panslavismo che nell'estate 1914 si mostra in tutta la propria terribile furia distruttrice, tanto per la pacifica convivenza dei popoli quanto per lo sviluppo del colosso orientale, “uno stato libero e potente dalle rive del Baltico ai Carpazi oltre che centro propulsore di energie per il rinnovamento interno della Russia, servirà come punto d'unione e di concordia tra il germanesimo e lo slavismo”.10 G. D'Acandia vede nell'indipendenza nazionale l'unico vero obiettivo per i polacchi divisi nei tre imperi, mentre d'altro canto la vergogna europea di un popolo schiavo da centocinquanta anni deve essere cancellata con la resurrezione dello Stato polacco e con la nascita di una Giovine Europa.

Il cosiddetto pericolo slavo, questione alquanto dibattuta in Italia per tutta la durata del conflitto europeo,11 viene discusso anche in un successivo articolo del socialista Ettore Ciccotti (1863-1939), già ospite in passato dell'Unità,12 estrapolato dall'Avanti!, in cui il politico elenca le ragioni per cui, piuttosto che contro una possibile, futura minaccia slava, sia necessario concentrare le forze europee nel combattere il concreto e presente pericolo

9 G. D'ACANDIA, Russi e polacchi, in L'Unità, anno III n.36, 4 settembre 1914.

10 Idem.

11 “Tra le preoccupazioni, le paure, le previsioni che suscita l’immane guerra presente, vi è anche il cosiddetto pericolo slavo.

È una preoccupazione da alcuni sinceramente sentita, da altri artificialmente fomentata e ingrandita come contrapposto e schermo alla più imminente ansia del pericolo tedesco”.

E. CICCOTTI, Il pericolo slavo?, in L'Unità, anno IV n.2, 8 gennaio 1915.

12 E. CICCOTTI, Le prospettive della guerra, in L'Unità, anno III n.36, 4 settembre 1914.

tedesco.

Anche se l'opposizione austro-tedesca alle altre popolazioni europee conferisce alla guerra il carattere di “una lotta per l’egemonia germanica sull’Europa e sul mondo”,13 Ciccotti esclude la possibilità che la Grande Guerra si traduca in un conflitto razziale della stirpe tedesca contro quella latina, e contemporaneamente evidenzia la vastità della cosiddetta famiglia slava, la quale racchiude in sé vari popoli distribuiti su un territorio molto vasto, differenti per cultura e obiettivi politici. Infatti, mentre la Germania è riuscita ad imporsi come uno Stato forte e disciplinato nel cuore dell'Europa, mettendo al servizio della propria politica di potenza tutte le forze morali e materiali del Paese, le differenze insormontabili che esistono nella razza slava, oltre ad alcuni elementi del carattere slavo evidenziati da Ciccotti, come ad esempio la versatilità slava nello studio delle lingue straniere, ne escludono qualsiasi reale velleità imperialista. La cultura russa è conosciuta e apprezzata da Ciccotti grazie alle opere di Gogol', Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj, i quali riescono a comunicare al lettore europeo tanto le caratteristiche peculiari dell'anima slava quanto a conferire ai loro capolavori un significato umano e universale. Infine, Ciccotti è tranquillizzato dalla natura stessa del popolo slavo, assai differente dal governo autocratico pietrogradese.

A tal riguardo, a chi paventa un rafforzarsi dell'autocrazia zarista in seguito ad un eventuale vittoria dell'Entente, il deputato indica come la recente storia russa dimostri decisamente come il Paese si avvii verso riforme in senso democratico, necessarie alla sopravvivenza del colosso orientale: ne sarebbero una prova la Guerra di Crimea (1853-1856), che ha condotto alla liberazione dei contadini, la Rivoluzione del 1905, che ha portato alla creazione di quel compromesso istituzionale che è la Duma, una prima forma di parlamento, mentre le necessità belliche del colosso orientale lo spingeranno a

“estendere la sua rete ferroviaria, a sviluppare quelle industrie, che si sono rivelate, per la Germania, un così vigoroso elemento di forza tanto in pace che in guerra”.14 Il deputato socialista ripone le proprie speranze verso una Russia più democratica nello sviluppo

13 E. CICCOTTI, Il pericolo slavo?, in L'Unità, anno IV n.2, 8 gennaio 1915.

14 Idem.