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Dalla parte del coachee

Nel documento Essere per fare: il coaching (pagine 57-68)

Riporto qui di seguito le testimonianze raccolte, ognuna frutto di una sto- ria a sé, unica e specifca. Per rispettare la privacy dei coachees mi limite- rò all'uso dell'iniziale del loro nome.

4.2.1 G.

G. è una giovane imprenditrice nel campo del marketing e della pubblici- tà che, dopo le prime esperienze in diverse agenzie del Nord Italia e della Toscana, ha deciso di mettersi in proprio e creare da sola una piccola real-

tà rivolta principalmente ad un pubblico di piccole e medie imprese, so- prattutto tessili e di arredamento. Mi spiega che queste piccole imprese lavorano soprattutto con l'estero: ciò le consente di avere un approccio non proprio di nicchia, ma di respiro più internazionale. G. si pone oggi nella posizione intermedia tra il cliente e il creativo puro; il suo compito è creare campagne che rispecchino richieste e caratteristiche del richiedente e allo stesso tempo coordinare lo staff di creativi nella realizzazione dell'i- dea.

Cosa ti ha spinto a sentire il bisogno di un aiuto esterno?

Fondamentalmente, dopo anni di pieni successi dal punto di vista lavorativo in cui mai mi ero trovata a superare dei blocchi, mi sentivo sbalestrata, ero ferma in uno stato di crisi e frustrazione: sapevo che qualcosa mi impediva di esprimere appieno le mie potenzialità e capacità. Non capivo: io ero sempre io, l'architettura era sempre la stessa. Quindi cosa c'era che non stava andando in me? Come im- prenditrice di impresa individuale sentivo l'esigenza di lavorare sul mio talento, di ottenere il 100%. Non volevo imparare tecniche di persuasione o di public speaking, volevo perfezionare il mio approccio alle cose, ai clienti, alle situazioni, alle critiche e ai rifuti.

Avevi mai sentito parlare di coaching?

Alla parola coaching associavo solo l'ambito calcistico o sportivo in generale, onestamente non avevo idea che esistesse una fgura di questo tipo anche a soste- gno di realtà aziendali. Ho conosciuto la mia coach quasi per caso, perché vicine di uffcio. Faceva parte con me di un'associazione per le alte professioni: una realtà che unisce professionisti e imprenditori con un'idea di business. Mettendo a disposizione del gruppo le nostre competenze, creiamo una sorta di incubatrice di idee volta a colmare bisogni di supporto strategico o economico-fnanziaro; questo soprattutto in progetti di lancio di una start-up o di salto ad impresa vera e propria. Ci sono consulenti fnanziari, di marketing, di pianifcazione di inve- stimenti, di comunicazione strategica. All'inizio è stata lei a rivolgersi a me per un consulto e dovendo aiutarla nel creare un payoff per la sua azienda, avevo bi-

sogno di approfondire la sua professione. Fu così che iniziò a spiegarmi con preci- sione il meccanismo che metteva in atto e i benefci; da questo raccontarsi è nata poi in me una certa curiosità.

Inizialmente cosa ha catturato la tua attenzione e ti ha spinto ad appro- fondire in prima persona?

La differenza tra coaching e formazione. Ho partecipato a molti corsi di team building ma la relazione che si instaura è diversa: vengono fornite teorie, parole e concetti che, anche se sono da sviluppare insieme, restano comunque il prodotto di uno scambio unidirezionale. E così qualsiasi corso di formazione o aggiorna- mento fatto in passato. Il coach invece intraprende un percorso assolutamente personale e personalizzato. Il lavoro di coaching in realtà è il mio. Sono io, di fat- to, che faccio mie tecniche e strumenti, che poi rimangono in me. È come prende- re le medicine: esiste un momento in cui il tuo organismo deve imparare a soppe- rire anche senza. Per quanto riguardava me e la mia situazione trovai molti spunti interessanti; si parlava di sfruttamento del potenziale reale, di gestire e reagire di fronte ad una crisi e a zone d'ombra. È stato lì che ho deciso di agire. Ho pensato che se fossi rimasta ferma avrei sì continuato a lavorare e a cercare nuove opportunità, ma probabilmente avrei continuato nell'errore, non avrei mai potuto trovare da sola l'approccio giusto. Non avrei lavorato su di me, avrei solo svolto dei compiti.

Cos'è per te una sessione di coaching?

È uno scambio. Quello che ti dà è uno strumento di analisi e comprensione. È come quando c'è qualcosa sotto la sedia: sai che c'è ma non lo vedi. Magari ti ba- sta solo metterlo sul tavolo, averlo davanti agli occhi. Non ti cambia la vita ma ne puoi prendere atto. Per me il coaching è stato questo.

In cosa consiste la parte attiva della sessione di coaching?

Ogni sessione prende il via dalla fssazione di un obiettivo. Da lì inizia l'esplora- zione del tema. La parte attiva sta nell'esercitazione; esattamente come in un esercizio fsico è necessario fare pratica, allenare la propria mente a riconoscere

dinamiche, convinzioni e schemi mentali. Potevamo addirittura simulare situa- zioni reali già accadute o future per capire come sarebbe potuta andare “se...” o per allenare il distacco e l'obiettività. Il meccanismo basilare è la domanda, ma nessuna risposta ti viene mai suggerita, tutto è fatto in modo da fartici arrivare in completa autonomia. Ecco perché puoi partire da un obiettivo e fnire la sessio- ne con un obiettivo diverso: la consapevolizzazione entra in gioco e ti permette di ridefnire priorità e di abbattere convinzioni, anche se potentissime.

Avevi provato altre strade prima di approdare nel coaching?

Sono sempre stata molto scettica verso il poco concreto, quindi ho sempre ricerca- to dei frutti tangibili nelle cose. Puoi spiegarmi tutte le teorie che vuoi, mettermi davanti allo specchio a ripetermi quanto valgo o insegnarmi tutte le tecniche del mondo, ma nella vita reale poi ci sono io e sono io a dover essere poi in grado di associare le due cose. “Mental coach” è un termine infazionato, ma secondo me è quello che più rende l'idea. Ti allena la mente a determinati ragionamenti e ri- fessioni; ti dà degli strumenti, non delle nozioni né dei consigli; ha un approccio “pull”. È qualcosa di concreto, è sempre un ciclo del tipo macro obiettivo-sche- ma-soluzione. E la soluzione viene da te.

In cosa ti senti arricchita oggi e quali atteggiamenti hai modifcato?

Per farti un esempio, c'erano volte in cui tendevo a compiacere certe persone, ad adottare un atteggiamento passivo e remissivo. Con altre invece mi ponevo in maniera troppo autoritaria. Ebbene, ne ho sempre fatto una questione di gerar- chia aziendale. Mi sembrava cioè di essere sempre me stessa ma semplicemente di rispettare i ruoli. In realtà rielaborando la cosa ho capito che erano dei segnali che percepivo dall'esterno che mi facevano attivare uno schema di comportamento re- missivo piuttosto che autoritario. Non dico che oggi questo non succeda mai. Semplicemente adesso ne sono consapevole, ho identifcato e scardinato questi meccanismi, ho allenato la mia mente; ad azioni intuitive e d'istinto adesso sosti- tuisco azioni consce. Allo stesso modo ho capito che la creatività è un qualcosa che riesco ad alimentare solo se sussistono determinate condizioni esterne. Mi

sono chiesta: “Il fatto che 5 presentazioni su 10 diventino contratti è un qualcosa che dipende dal mercato o dal prezzo o da me?”

Il coaching non ha fatto altro che portarmi davanti alla consapevolezza che tutto ciò che di negativo mi succedeva sul lavoro non era altro che una conseguenza del lato personale. È qui che il percorso ha subito uno shift: da focalizzata sulla carriera, sull'arrivare, sul crescere, ho capito che era necessario andare ad esplo- rare le altre due felicità, quella personale e quella delle relazioni. Ho capito che tutto nasceva da blocchi interiori che da tutto derivavano tranne che dal lavoro, nonostante siano comunque sfere inscindibili. Quando ho iniziato a capire che ciò che mi oscurava veniva da un bisogno più forte e nascosto, è venuta fuori mia fglia. Mai nella vita avrei pensato di fare un fglio, e questo perché mi ero tal- mente convinta che gli avrei dato solo il peggio di me che avevo soffocato comple- tamente quell'istinto. Quando ho iniziato ad andare oltre la superfcie, ho operato questo shift. Ho iniziato a scavare e a portare alla luce cose delle quali non ero consapevole. Analizzavamo una discussione in famiglia piuttosto che una riunio- ne di lavoro. E quando ho avuto davanti a me la chiara immagine di quello che la mia mente stava operando ho pensato “perché fermarmi adesso e magari rischiare di ricadere nelle solite dinamiche alla prossima diffcoltà?”

Per questo il mio percorso è durato così tanto e potrebbe benissimo continuare al- l'infnito: gli schemi che celiamo dentro di noi sono centinaia; derivano dall'in- fanzia, dall'educazione, dall'esperienza. Non sempre questi schemi sono utili, be- nefci e funzionanti, spesso ti affossano senza che tu te ne renda conto tanto sono interiorizzati ed automatici. Oggi io non sono al riparo da problemi, ma sicura- mente li vivo diversamente, so dargli il giusto peso e guardarli con distacco, so reagire in maniera consapevole, so rispondere invece che lasciarmi trascinare. So che quando sono fuori dalla zona di comfort perché un qualcosa mi sta richieden- do uno sforzo maggiore, devo accettare anche la sensazione di fatica e di disagio. Così l'ansia che ne deriva è divenuta positiva, creativa e comunque non prende mai il sopravvento: so che, una volta superato il momento, avrò allargato la mia zona di comfort. Perciò sì, capitano assolutamente dei momenti pratici in cui ti rendi conto di aver cambiato ottica, e quando sei allenato nemmeno hai bisogno che ti vengano fatti notare dall'esterno o dal coach stesso.

4.2.2 M.

M., è amministratore delegato e socio di un’azienda manifatturiera tosca- na. Ha iniziato il suo percorso di coaching ad Ottobre dello scorso anno e tutt’ora continua ad incontrare la coach circa una volta al mese per una sua esigenza di confronto. Ciò che emerge dalle sue parole è la volontà di essere un “manager illuminato”: un manager capace, responsabile e at- tento alla sua stessa crescita personale e professionale, teso a donare coe- renza e accompagnare i propri collaboratori nel ben-essere e nella piena realizzazione.

Conoscevi già il coaching?

Sì, l’azienda ha predisposto dei percorsi di questo tipo all’interno. Comprendeva- no sia sessioni di gruppo che individuali. La curiosità è sorta da lì ma a dire la verità non ne trassi alcun benefcio, non trovavo un flo conduttore. Ho comun- que deciso di approfondire ma per farlo ho scelto un coach esterno, e per fortuna ho instaurato da subito un rapporto di fducia. Posso dire che già nella seconda sessione stavo lavorando su me stesso.



Da dove parte il tuo percorso?

Parte da un bisogno: in un momento particolarmente complesso dal punto di vi- sta strategico-produttivo, l’azienda era sottoposta a cambiamenti e riorganizza- zioni. Parallelamente a ciò, mi sono trovato di fronte alla possibilità di scegliere tra un way-out che mi portasse a percorrere altre strade fuori da questa realtà e il proseguimento della mia attività attuale vagliando però delle alternative di rior- ganizzazione del mio lavoro.

Il mio bisogno era scegliere in maniera serena e allo stesso tempo non istintiva. Per far ciò ho sentito il bisogno di mettermi allo specchio ed elaborare quello che cuore e testa mi stavano dicendo. Avevo bisogno di un confronto con me stesso.

il punto di forza di questo percorso? E il momento in cui hai capito che stavi operando un cambiamento?

C’è stato più di un momento; la cosa che ho più apprezzato è che toccavo con mano il lavoro che stavo facendo. La cosa più incredibile che mi accadeva era arri- vare alla sessione forte di convinzioni che credevo essere granitiche e uscirne con il 90% di queste che erano state totalmente smontate e spazzate via. Questo per- ché non erano così forti come credevo essere, erano probabilmente dei semplici condizionamenti che non mi appartenevano davvero.

Cosa ti insegna il coaching? 


Mi insegna a scegliere tra il buono e il non buono delle mie convinzioni; lascio maturare le buone e sciolgo le non buone: è una crescita continua.

Con che atteggiamento ti presentavi alla sessione?

Sicuramente con una grande e profonda volontà. Perché il coaching funzioni bi- sogna essere bravi in due. Partecipare al coaching non è suffciente, è necessario esserci, lavorare, allenarsi, lasciarsi andare.

E come ne uscivi?

Come se fossi appena uscito da un frullatore. Alla domanda che accompagna il termine della sessione “Cosa ti porti via?”, ho sempre risposto che ancora avrei dovuto capirlo. In quell’ora e mezzo entrano in gioco talmente tante parti di te, tanti spunti, tante sensazioni, che non ne sono mai uscito indenne, se così si può dire. Mi ha sempre lasciato una quantità enorme di materiale su cui rifettere, pezzi da ricomporre, convinzioni da rielaborare. È anche questo a rendere il coa- ching potente, quello che ti lascia quando te ne vai e la responsabilizzazione che senti nei confronti del lavoro che stai facendo. A volte addirittura ti sembra di fare 10 passi indietro dalla volta prima, ma la realtà è che quei meccanismi men- tali che intervengono nel tuo cervello per farti fare o non fare una cosa diventano sempre più deboli. Sei fuori dalla comfort zone.

Sì, una in particolare. La mia coach mi chiese di mettere in pratica la follia, di esagerare, di provare a vedere dove sarei arrivato. Accorgermi di quanto nella vita di tutti i giorni ci auto-limitiamo e quanto invece potremmo lasciarci andare, sperimentare, uscire dalla zona di comfort. È stata un’esperienza molto potente: mi ha fatto capire quanto ancora potrei esser capace di fare.

E nell’ambito lavorativo che problemi incontravi?

Fondamentalmente non mi sentivo stimolato. Ho sempre avuto un atteggiamento accondiscendente, cercato la mediazione, raramente ho espresso me stesso e ho fatto sentire la mia voce. Sono sempre stato molto attento all’opinione altrui, sen- tivo l’esigenza di sentirmi dire che ero capace, che ero un buon manager. Ma sul lavoro non è così scontato che certi feedback arrivino.

Cosa ti ha dato il coaching?

Il coaching non è una soluzione defnitiva ma uno sparti-acque, almeno per me: sfde e problemi continuano ad esserci e non si diventa né immuni né invincibili. Ciò che adesso ho che prima non avevo è la consapevolezza di chi sono, delle mie competenze e delle mie capacità. So mettere il mio valore sul campo, invece che sminuirlo perché non trovo l’approvazione che cerco. Sono forte del mio valore.

Ci sono state commistioni tra sfera professionale e privata?

Certo, continuamente. Il coaching scava nel profondo. Spesso e volentieri incon- sapevolmente sposti il faro e poni l’attenzione su un argomento totalmente ester- no al motivo per il quale sei lì.

Puoi farmi un esempio?

Una frase, una domanda che mi aiutò tantissimo fu chiedermi se avevo bisogno di sentirmi dire che ero un buon padre per sapere di esserlo. Ovviamente risposi di no, e l’invito successivo della coach fu di partire da questo per rapportarmi nella vita. E così feci. Ad oggi so di essere un buon manager, soprattutto so di volerlo essere. Che non mi venga detto poco importa.

Secondo te quali sono i limiti del coaching?

Secondo il mio parere l’unico vero limite, una volta incontrato il coach giusto ov- viamente, è la tua collaborazione al percorso. Se non sei motivato in quello che fai, sicuramente non ne trarrai niente, anzi probabilmente si interromperà prima del tempo.

Posso chiederti alla fne qual è stata la tua scelta?

Ho scelto di scegliere. Ho scelto di fare quello che più mi piace, di scegliere in se- renità ciò che è più vicino alla mia volontà e non quello che mi porterà più presti- gio, soldi, stima o quant’altro. La scelta non mi fa più paura. Sento che la mia mente non cerca più di sviare, di proteggermi, di rimandare. Adesso porto avanti i progetti che sento miei, non ne approvo degli altri, ci metto del mio in questo senso.


Chi deve rivolgersi ad un coach secondo te?

Credo che qualunque manager dovrebbe. Il ruolo che ricopriamo ci sottopone a stress continui, mettere alla prova le proprie convinzioni e confrontarsi con se stessi non può che dare benefci, a noi e all’azienda che amministriamo. Credo sia anche una sorta di responsabilità, quella di lavorare su di noi per lavorare poi meglio in azienda, quella di conoscersi appieno per poi poter rapportarsi agli al- tri. Come puoi gestire dei dipendenti se non sai gestire te stesso?

4.2.3 V.

V. è un’impiegata con mansioni prevalentemente amministrative che svolge per aziende e liberi professionisti. A differenza di G., lei ha sentito un bisogno provenire sia dalla vita privata che da quella lavorativa. An- che lei ha conosciuto la sua coach instaurando dapprima una relazione di amicizia e solo in secondo momento di life coaching.

Sono del parere che di fronte ad un problema nasca sempre un bisogno ed un ideale ossia la ricerca di qualcosa. Questo perché ognuno di noi lega la felicità ad un qualcosa. Il mio bisogno era star bene e questo star bene per me coincideva col sentirmi più sicura nella vita e sul lavoro, di far sentire la mia voce più spesso, di essere meno “oscurata” dagli altri, di far emergere la vera “me”, la mia vera per- sonalità. Fondamentalmente stavo cercando la mia strada. Come avrai capito, il percorso poi ti apre tantissime altre porte, che siano nuovi obiettivi o nuovi punti di partenza.

Avevi preso in considerazione altre soluzioni?

Sì, era da tanto che sentivo che qualcosa in me non andava e dapprima ho scelto di affdarmi ad un percorso di psicoterapia; ho conosciuto più di uno psicologo ma senza ricavarne niente. Continuavo a non trovare risposte fno a quando ho capito che non dovevo cercarle fuori da me.

Cosa mancava nel rapporto che si era creato con lo psicologo?

Mancava proprio il rapporto, c’era solo uno scambio medico-paziente, non era una relazione alla pari: era come se sentissi di avere un difetto anziché un proble- ma, era un rapporto che non mi faceva sentire a mio agio. Sì, inizialmente può essermi stato utile perché mi consentiva di sfogarmi ma sentivo che non stavo muovendo dei passi verso una soluzione. Mi ascoltava e rispondeva con dei con- sigli ma erano consigli dettati dal suo vissuto, che magari una volta che li appli- cavo non sentivo miei, non mi calzavano. Notavo che una volta applicati non ero comunque poi in grado di affrontare gli scenari e le reazioni che queste azioni scatenavano. In più se avessi continuato avrei forse rischiato di divenire dipen- dente dalle risposte di un’altra persona. È stato così che ho deciso di smettere. E la mia testardaggine mi ha spinta a continuare a cercare.

Quanti e quali aspetti di te hai ripercorso?

Passavamo da argomenti molto ovvi ad altri ai quali mai avevo posto attenzione prima ma che si rivelavano poi sorprendentemente inerenti. Il risultato di tutto ciò è stato rendermi conto che il problema non era il resto ma ero io nei confronti

del resto. Aspiravo a diventare una ragazza sicura di sé e capace di dire ciò che pensa; ad essere più concreta sul lavoro, più consapevole, più presente. Non stan- do bene con me stessa inevitabilmente non attiravo persone verso di me. E il non piacere agli altri non essendo me stessa mi faceva stare molto male. Quando inve-

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