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Il concetto di categoria nel campo della percezione fonetica è strettamente legato ai laboratori Haskins. Lavorando sulla rappresentazione acustica del parlato fornita dallo spettrogramma, un’analisi cioè incentrata su tempo-frequenza-intensità, di alcune realizzazioni di [d], in contesti fonetici differenti, Delattre, Liberman e Cooper (1955) si scontrarono sulle diverse manifestazioni sonore di uno stesso fonema, e già tre anni prima Liberman e colleghi (1952) avevano osservato come la stessa configurazione acustica di un suono potesse essere riferita a differenti fonemi a seconda del contesto fonetico in cui inserito. Ancora Liberman, Harris, Hoffman e Griffith (1957) adoperarono il primo sintetizzatore (Pattern Playback), per creare un continuum, composto dalle tre categorie /b/, /d/, e /g/ seguite da vocale, ottenuto incrementando l’attacco della frequenza della seconda formante in punti regolari. Sottoponendo la sequenza continua agli ascoltatori, gli studiosi riscontrarono che le risposte si ripartivano in tre categorie separate. Grazie a un test di discriminazione ABX17 Liberman et al. verificarono che gli stimoli classificati in diverse categorie venivano meglio discriminate, laddove gli stimoli percepiti lungo una stessa categoria venivano riconosciuti con più difficoltà, nonostante le differenze, da un punto di vista fisico, fossero comparabili e fossero al di sopra della soglia di discriminazione uditiva.

La funzione risultante rivelava picchi ai confini fonetici, e avvallamenti all’interno della stessa categoria. Tale relazione è stata chiamata “percezione categoriale”, identificazione mediante l’attribuzione di categorie.

Come ben precisato in Repp (1984) vi sono diverse interpretazioni dell’aggettivo ‘categoriale’. Quello letterale innanzitutto, che si riferisce all’utilizzo di particolari categorie in risposta ad uno stimolo, e che, per questo aspetto, non può essere senz’altro considerato un fenomeno esclusivo del linguaggio, e soprattutto non impedisce l’esistenza di altri tipi di percezione. Dal punto di vista del fenomeno invece, si riferisce all’esperienza di discontinuità dovuta a una serie di cambiamenti dello stimolo tra confini di categorie, laddove non si verificano

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I test ABX costituiscono una tecnica per indagare e comparare due stimoli sensoriali al fine di individuarne le differenze. I soggetti ascoltano tre stimoli separati da un secondo circa di silenzio, il terzo stimolo è sempre la ripetizione di uno dei due, e all’ascoltatore viene chiesto di rispondere indicando se il terzo stimolo è uguale al primo o al secondo.

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cambiamenti percettivi evidenti all’interno di una categoria. “Categorical perception refers to a mode by which stimuli are risponde to, and can only be responded to, in absolute terms, Successive stimuli drawn from a physical continuum are not perceived as forming a continuum, but as members of discrete categories. They are identified absolutely, that is,independently of the context in which they occurr. Subjects asked to discriminate betwen pairs of such ‘categorical’ stimuli are able to discriminate between stimuli drawn from different categories, but not between stimuli drawn from the same category. In other words, discrimination is limited by identification: subjects can only discriminate between stimuli that they identify differently” (Studdert-Kennedy et al 1970:234).

Nel modello ideale, elaborato da Liberman e colleghi, la percezione categoriale presume quattro caratteristiche semiindipendenti:

1- Le probabilità di categorizzazione cambiano improvvisamente lungo il continuum, le funzioni di identificazione cioè presentano una salita piuttosto ripida. La massima salita corrisponde al confine di categoria (che può essere definito come il punto in cui le risposte tra le due categorie adiacenti sono equiprobabili).

2- Le funzioni di discriminazione mostrano un picco al confine di categoria, gli stimoli, cioè, sono più facilmente discriminati quando ricadono nei lati opposti del confine, che quando ricadono nello stesso lato18. All’interno di ciascuna categoria la discriminazione è determinata da livelli di probabilità.

3- Le funzioni di discriminazione sono predicibili a partire dalle probabilità di classificazione, indipendentemente dal contesto in cui essi sono osservati (Repp 1984). Ma i dati reali non rispecchiano perfettamente questa descrizione ideale, ed alcuni criteri si sono rivelati più importanti di altri, come ad esempio la presenza di un picco coincidente con la localizzazione del confine di fonema19. Questa caratteristica è essenziale per la definizione della percezione categoriale, sebbene possa non essere di per sé sufficiente nel caso in cui gli altri criteri vengano violati.

Tali risultati non furono però confermati da quelli di Fry, Abramson, Eimas e Liberman (1962), e Eimas (1963), da cui si ricavò una percezione, a cui ci si riferì in termini di “continua”, diversa a partire da un continuum vocalico /I/-/E/-/ae/. Conferme in questa direzione derivarono

18 Prendendo ancora, per esemplificare, differenze di VOT tra due stimoli, ad esempio, [ba, pa], si può vedere come

tale dimensione sia continua da un punto di vista fisico e discontinua nella percezione umana. Gli ascoltatori, infatti, percepiscono una demarcazione netta, abbiamo visto, intorno ai 20-30 ms (§ 1.1) tra il rilascio e l’attacco della sonorità. Prima di quel limite le repliche [ba] vengono percepite tutte come sonore senza riuscire a distinguerne le differenze, al di là di quel limite invece l’ascoltatore è incapace di distinguere le repliche [pa], ma in corrispondenza di quella linea di demarcazione si può sentire un chiaro cambiamento (Bates 1999).

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da altri studi che si focalizzarono su ulteriori proprietà delle vocali, come la durata o il contorno intonativo (Abramson 1961). In contrasto con la percezione categoriale di foni consonantici, sembrò esservi la percezione continua delle vocali, la cui identificazione non si rivelava netta come quella delle consonanti. Le vocali sembravano più soggette agli effetti di contesto, e la loro discriminazione avveniva attraverso l’intero continuum acustico. La classe fonetica non si è però dimostrata in tutti i casi irrilevante, dal momento che si sono riscontrati dei picchi al confine di categoria, ma sia intra che inter-categoria gli ascoltatori discriminano, cioè percepiscono, molte più differenze di quelle che essi riescono a identificare, cioè categorizzare. Tale percezione si era dimostrata già tipica anche di alcuni continua non verbali (Miller 1956). I risultati dunque sembravano rivelare due importanti risultati: la percezione categoriale è peculiare del parlato, suoni occlusivi e vocalici richiedono processi percettivi differenti (Liberman et al. 1967; Studdert- Kennedy 1970).

La percezione categoriale costituì, in seguito, uno dei pilastri su cui si sviluppò la teoria motoria. Rimase dunque per lungo tempo all’interno del laboratorio, fino a quando lo stesso tipo di esperimento fu ripetibile in altri laboratori grazie alla diffusione dei sintetizzatori.

Gli esperimenti pionieristici dei laboratori Haskins furono quindi seguiti da numerosi studi dello stesso genere, nel tentativo di osservare diversi tipi di contrasti fonetici20. Diverse indagini si rivolsero ancora alla discriminazione del VOT, che costituisce un robusto indice acustico, di valore fonologico per molte lingue. I risultati di Lisker & Abramson (1964), infatti, ottenuti esaminando la distinzione, mediante l’indice di VOT, tra occlusive sorde e sonore iniziali di frase in sei lingue diverse, hanno mostrato che i parlanti/ascoltatori suddividono l’estensione del VOT in modi diversi: ad esempio soggetti inglesi stabiliscono un confine tra /b/ e /p/ grazie a un VOT di +25 ms, laddove gli spagnoli vi riescono mediante un VOT di -20 ms. La capacità di discriminazione di confini tra categorie fonologiche sembrerebbe dunque legata all’esperienza di ciascuna lingua, da cui derivano vincoli fonotattici diversi.

L’attenzione si spostò allora su tutte le possibili circostanze in cui il fenomeno poteva manifestarsi, e furono allora presi in considerazione stimoli non verbali in condizioni sperimentali paragonabili, e i risultati furono analizzati da un punto di vista psicofisico (Lane 1965). Le conclusioni non sembrarono confermare quelle di Liberman, ma ciò non impedì che le sperimentazioni avessero seguito. Ancora altri studi applicati sulle vocali (Studdert-Kennedy

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Liberman, Harris, Kinney, and Lane (1961) rivelarono la percezione categoriale del contrasto tra /d/ e /t/ basata sull’indice ‘first-formant cutback’; Liberman, Harris, Eimas, Lisker, and Bastian (1961) arrivarono a simili risultati per la distinzione tra /b/ e /p/ indicata dalla durata della chiusura. Bastian, Eimas e Liberman (1961) dimostrarono anche che il modo di occlusione indicata dalla durata di chiusura era allo stesso modo percepita categoricamente.

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1969) non sembrarono confermare i risultati di Fry et al (1962), così come quelli condotti su stimoli non verbali, che rivelarono avere caratteristiche comuni con gli stimoli verbali percepiti categoricamente (Liberman, Harris, Eimas, Lisker e Bastian 1961).

Tuttavia tali scoperte non sminuirono l’importanza del fenomeno. I pattern acustici distribuiti lungo il continuum non sono arbitrari. Essi sono selezionati dalla serie di configurazioni che l’apparato articolatorio può produrre, e che il sistema uditivo è in grado di analizzare. Le categorie sono dunque naturali, nel senso che esse riflettono i vincoli fisiologici sia della produzione che della percezione. Affermare che il parlato sia percepito mediante un riferimento alle sue origini articolato rie significherebbe perciò anche ammettere che i gesti articolatori discreti delle occlusive producono categorie percettive discrete, mentre i gesti più variabili delle vocali producono categorie più variabili. Tale giudizio contiene in realtà molti punti deboli, e lavori diversi lo hanno dimostrato.

Come Stevens (1972) ha sottolineato, è necessario definire l’origine uditiva e acustica comune delle categorie fonetiche. E la percezione categoriale riflette una proprietà fondamentale di alcuni suoni del linguaggio, e allo stesso tempo ha fornito prove per la distinzione tra livelli uditivi e fonetici del processo.

Le categorie fonetiche non nascono da un semplice esercizio di discriminazione; i soggetti senz’altro sono capaci di apprendere a segmentare il continuum fonetico in categorie, ma anche la discriminazione all’interno delle categorie è relativamente alta. L’apprendimento e l’esercizio possono accrescere ma non sostituire le capacità discriminative, ed è probabile che un confine appreso risulti più instabile.

Non ci sono dunque ragioni univoche per supporre che le qualità percettive distintive siano peculiari dei continua verbali. Ma, come le qualità percettive distintive di un evento non linguistico sono legate alla sua modalità sensoriale, la qualità percettiva di un suono linguistico è fonetica. Ed è appunto in un codice fonetico che i suoni del linguaggio sono rapidamente e automaticamente trasferiti per la memorizzazione e il richiamo.

Stevens e Klatt (1974), seguendo Liberman, hanno esaminato la discriminazione uditiva di due variabili acustiche lungo un continuum di occlusive sorde e sonore: un ritardo nell’onset delle formanti, e presenza/assenza delle transizioni di F1. Attraverso diversi esperimenti, essi hanno confermato il contributo della transizione percepibile di F1 per la distinzione tra sorde e sonore. Focalizzandosi sulle proprietà acustiche all’interno delle categorie, piuttosto che sulle differenze acustiche tra loro, Stevens e Klatt hanno rivelato un aumento sistematico nel riconoscimento del confine percettivo tra sorde/sonore, passando da occlusive labiali, ad apicali, fino alle velari.

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Non il semplice concetto di regioni fisse di sensibilità acustica serve a spiegare la divisione categorica tra il continuum /ba, da, ga/, o per dare conto dell’invarianza fonetica tra contesti fonetici diversi, o ancora dello spostamento dei confini di categorie associato alle variazioni del parlante, o delle differenze nella determinazione dei confini di parola in una lingua straniera.

Per quest’ultimo aspetto si è proposto che parlanti di lingue diverse possano sintonizzare il loro sistema uditivo diversamente. La differenza di sintonizzazione può risultare da differenze interlinguistiche nella selezione di caratteristiche del segnale. Data la stretta relazione tra produzione e percezione, sembra dunque plausibile che tali differenze possano nascere da una complessa interazione tra parlare e ascoltare durante l’acquisizione del parlato.

La nozione di sintonizzazione presuppone l’esistenza di proprietà acustiche a cui il sistema uditivo può armonizzarsi. Il primo passo verso la definizione di tali proprietà è stata compiuto da Stevens (1972, 1973), il quale, attraverso analisi spettrografiche, ha osservato che caratteristiche spettrali, associate a cambiamenti di luogo di occlusione lungo il tratto vocalico, non cambiano continuativamente. Piuttosto ci sono ampi ‘plateaux’, in cui i cambiamenti del punto di costrizione producono un lieve effetto acustico, delimitati da improvvise discontinuità acustiche. Questi plateaux acustici tendono a correlarsi con i luoghi di articolazione in molte lingue. Stevens ha sviluppato i preliminari per un sistematico contributo acustico delle categorie fonetiche e dei loro confini. Il suo lavoro è importante per l’enfasi che pone sulle origini delle categorie fonetiche nelle proprietà peculiari della voce umana.

Le esperienze accumulate hanno condotto a focalizzare l’attenzione sulle relazioni tra le proprietà acustiche dello stimolo e il percetto fonetico, cercando dimostrazioni sperimentali alle relazioni degli indici acustici sia con i foni che con il contesto. Tali ricerche hanno generato nuove versioni della teoria motoria e hanno inoltre dimostrato un interesse crescente per le dipendenze legate al contesto (cfr 2.8).

1.7 Il ruolo della memoria e i modelli a duplice elaborazione nella percezione