2. Di fenomenologia in fenomenologia: Heidegger
2.6 Percezione senza sensazione?
Heidegger, nell’Interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura di Kant sottolineana, prendendo a prestito le parole di Kant, l’ambiguità insita nella sensazione359, essendo essa riferibile, come leggiamo nella Critica del giudizio, a sensazioni soggettive e sensazioni oggettive. Nella Critica della ragion pura, invece, non si considerano le sensazioni soggettive ma: «si esaminano le sensazioni oggettive, il darsi di qualcosa di reale, di un contenuto oggettivo, di un quale. La sensazione soggettiva, invece, non è rappresentazione di una cosa, ma la rappresentazione di questa cosa nella sua relazione con il soggetto, la rappresentazione di come il soggetto si trovi intonato, è, insomma, sentimento360». Nella prima Critica sensazione significa per lo più intentum, è «quell’intuire che inerisce al venire incontro di dati dei sensazione è l’intuire empirico361». La sensazione è il dato che deve ricevere l’ordine dalla forma dell’intuizione.
Il dato che è oggetto di un’intuizione empirica è detto fenomeno, con cui è designato ciò che si fa a noi incontro, e se è “consaputo362” è percezione. La percezione è il sapere esplicito riguardo al farsi incontro degli oggetti dell’intuizione empirica. Il fenomeno, tuttavia, non si riferisce solo ad un soggetto conoscente, è anche qualcosa in sé. Heidegger, al fine di evitare possibili interpretazioni grossolane, aggiunge che 357 LFW, p.100. 358 LFW, p.101. 359 PIK, p.61. 360 PIK, p.61. 361 PIK, p.62. 362 PIK, p.62.
184 con cose in sé devono essere intese le cose stesse che si fanno incontro. Non dobbiamo pensare che esistano due ordine di cose: le cose per noi e le cose in sé. Sono sempre le stesse cose di cui parliamo, ciò che cambia è il modo del rapporto: per noi è l’intuizione finita. Ciò che resta precluso è un intuirle che non necessita della loro azione di farsi incontro, non possiamo mai arrivare ad una conoscenza assoluta di una cosa in sé.
I fenomeni con cui siamo in rapporto, gli oggetti dell’intuizioni empirica, possiedono in sé già: «un pensare, un comprendere e, in modo altrettanto essenziale, capacità di immaginazione363». Heidegger afferma che non è la sensazione l’essenziale della sensibilità, non riconoscendo in essa altro che il dato bruto, è escluso perciò che la sensazione possa avere una funzione di fondamento. La sensazione non è piegabile alla temporalità, solo nel momento percettivo, che è sensazione unita a coscienza, la sensazione si colloca nella temporalità. La sensazione, come abbiamo visto nell’analisi del testo kantiano svolto nel primo capitolo, non è solo il dato empirico a posteriori ma è quell’incontro immediato, quell’improvviso sussistere di qualcosa che prima non c’era, di qualcosa che non è “già” mai presupposto. La sensazione è la struttura della meraviglia, è ciò che ci fa sorprendere nell’incontro con il mondo, è quell’essere passivi e modificati nel rapporto con l’altro.
La sensazione eccede il piano della temporalità.
Heidegger risolve la sensazione con poche parole: «Ma proprio il riferimento ai dati di sensazione dei sensi non è sufficiente a caratterizzare l’intuizione come tale. Proprio questi dati dei sensi non costituiscono affatto l’essenziale della sensibilità. Questo è ciò che bisogna ora, in primo luogo, capire364». La materia stessa è tale
perché già formata dall’intuizione pura, la materia si mostra a noi in un ordine, perché: «in ogni intuizione risiede qualcosa di più del molteplice che è dato nella sensazione365». Alla sensazione, nonostante sia l’elemento non temporale della Critica della ragion pura, viene riconosciuto solo una funzione posteriore, un’esistenza prodotta, risultato del tempo:
questi rapporti, in cui il molteplice del fenomeno può essere ordinato o è effettivamente ordinato, non possono essere a loro volta sensazione, non possono cioè essere di nuovo qualcosa che ha bisogno di tali rapporti di ordine possibile. Quei rapporti, nei quali il
363 PIK, p.64. 364 PIK, p.64. 365 PIK, p.65.
185 molteplice si fa incontro in forma ordinata, non sono sensazioni. Queste appartengono alle
affezioni, a ciò che ci tocca, che ci fa qualcosa, a ciò che viene da qualche parte. Ciò che non
appartiene alle affezioni può, conclude Kant, venire solo da me stesso, dal mio animo, deve necessariamente appartenere alla spontaneità, «trovarsi pronto a priori nell’animo»366.
Dimenticando la sensazione, si cancella il momento dell’imprevisto, quel qualcosa che colpisce la nostra attenzione e ci porta fuori di noi, in un movimento che include l’interno e l’esterno dell’animo. Infatti, Heidegger scrive: «Nel nostro intuire, in quanto lasciarsi incontrare con l’ente, risiede dunque per essenza un’assegnazione a quell’ente che è già sottomano367». Un sottomano che non colpisce nessuna “mano”.
Sentiamo solo quello che siamo pronti a sentire, negando la possibilità che l’imprevedibile possa palesarsi. La sensibilità è per Heidegger intuizione, tempo, la sensazione è poco più di uno scarto di produzione.
Scendiamo più nei dettagli. Heidegger considera il modo di darsi dell’oggetto in quanto cosa materiale, che avviene attraverso la facoltà sensibile, come recettività di un annuncio, l’annuncio della presenza delle cose stesse. La sensibilità è il modo di farsi-visione dell’altro, essa ci porta vicino a ciò che è altro. La sensibilità-visione è apertura alla presenza della cosa. La conoscenza del soggetto finito è necessariamente fondata sulla ricettività, perché solo questa è «apertura al mondo». L’agire è un annunciare368 il presentarsi di qualcosa che è già fin da sempre lì. La
sensazione, secondo la mia lettura, è invece l’irrompere di qualcosa che non è mai già presente, è essere passivamente disposti alla modificazione. La sensibilità nel suo momento affettivo è accettazione di ciò che ci viene incontro, è essere pronti ad accogliere qualcosa che ci modifica.
Per vedere più da vicino quale sia il ruolo assunto dalla percezione nel pensiero heideggeriano, è necessario rivolgersi anzitutto ai Problemi fondamentali della fenomenologia, dove il nostro autore, ricollegandosi anzitutto alla tesi kantiana «l’essere non è un predicato reale», esamina il tema della percezione, del percepito e dell’esser-percepito. Punto di partenza dell’analisi è la tesi kantiana prima citata contenuta ne L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763) e nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura. Heidegger afferma che l’obiettivo kantiano non è mettere in discussione la premessa
366 PIK, p.65. 367 PIK, p.56. 368 LFW, p.79.
186 maggiore: “Dio è, stando al suo concetto, l’ente perfettissimo”, né la conclusione: “quindi Dio esiste”, bensì la premessa minore: “al concetto di ente perfettissimo appartiene l’esistenza”369. L’essere, ovvero l’esistenza, non può essere un predicato
reale perché l’esistenza non appartiene affatto alle determinazioni di un concetto. L’essere non è un predicato reale perché «non è il predicato di una res. Non è assolutamente un predicato, ma è pura posizione370». L’esistenza non è un predicato reale, o, con la terminologia kantiana, non è un determinazione. Una determinazione è un predicato che si aggiunge al concetto del soggetto e lo amplia. Quindi con la tesi l’essere non è un predicato reale secondo Heidegger Kant afferma che l’essere, in generale, non è un predicato di alcuna cosa. Il celebre esempio dei cento talleri effettivi e pensati indicano che il concetto di cento talleri è in entrambi il medesimo, ciò che cambia è l’esistere, in particolare il ruolo della copula “è”: «I due sensi del verbo essere, la copula, concetto unificante, e l’esistenza, debbono perciò esser tenuti distinti371». Nella copula “è” si pone semplicemente in relazione il predicato con il soggetto, non dice nulla dell’esistenza della cosa, è «semplice posizione». Quando invece poniamo l’esistenza dobbiamo uscire fuori dal concetto: «dal momento che l’esistenza non è un predicato reale e quindi non può di conseguenza appartenere al concetto di una cosa, io non posso, sulla base del pensiero del puro contenuto concettuale, esser sicuro affatto dell’esistenza di ciò che è pensato nel concetto, a meno che insieme al concetto di una cosa io non consideri già e presupponga la sua effettività372». Quando è affermata l’esistenza di una cosa, non è posto un rapporto
con una sua determinazione, ma è posta assolutamente prescindendo da ogni relazione.
A questo punto l’argomentazione di Heidegger giunge a trattare della percezione373. L’esistenza, infatti, ha a che fare con la percezione che precede il concetto: « Ma
369 GP, p.29. 370 GP, p.30. 371 GP, p.35. 372 GP, p.37.
373 In questa parte del testo, verranno soprattutto prese in esame le pagine di Die Grundprobleme der
Phänomenologie. Per approfondire rimando a: M. Emerson, «Heidegger’s Appropriation of the
Concept of Intenzionality in Die Grundprobleme der Phänomenologie», Research in Phenomenology, vol.14, 1984, pp.175-193; C. Esposito, «Heidegger e la possibilità dell’ontologia. Da Sein und Zeit a
Die Grundprobleme der Phänomenologie», in Giornale di metafisica, vol.8, 1986, pp.89-117, ora in
ID., Heidegger. Storia e fenomenologia del possibile, Levante, Bari, 1992, pp.61-94; A. Angelino,
Introduzione (all’ed.it.di) Martin Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, il
melangolo, Genova, 1987; F. W. Herrmann, Heideggers Grundprobleme der Phänomenologie. Zur
“Zweiten Häften” von Sein und Zeit, Klostermann, Frankfurt a. M., 1991; tr.it. Heidegger e I problemi fondamentali della fenomenologia. Sulla “seconda metà” di Essere e tempo, Levante, Bari, 1993; E.
187 l’unico carattere dell’effettività è la percezione, che fornisce la materia al concetto374». La percezione ci conduce all’esistenza delle cose, al loro sussistere.
Tuttavia, l’esistenza non può essere ridotta alla percezione: « La percezione, intesa come percepire, non può venir identificata con l’esistenza. La percezione non è l’esistenza, ma ciò che percepisce l’esistente, il sussistente, ciò che si rapporta al percepito375». Deve essere distinta la percezione come atto percepiente, dalla percezione come esistente percepito. L’esistenza non si identifica con nessuno di questi due termini, bensì con l’esser-percepito di ciò che viene percepito. È grazie all’esser-percepito che incontriamo la cosa come percepita, come cosa scoperta, e questa risulta a noi accessibile, in quanto sussistente, sul fondamento della percezione. Tuttavia, l’esistenza non dipende dall’esser-percepito, poiché l’esser- percepito presuppone la percettibilità e questa necessita dell’esistenza dell’ente percepibile o percepito.
Kant interpreta quindi l’esistenza come percezione, ma la percezione non si articola solo in percepire e percepito, la percezione è anche esser-percepito di ciò che è percepito. Questi differenti significati hanno la loro ragione nella cosa che essi significano: il fenomeno stesso della percezione. La percezione è, in definitiva, quel dirigersi-verso, quell’essere-rivolti, che si ottiene dai tre momenti sopra menzionati. Questa struttura del dirigersi-verso è descritta dalla fenomenologia come intenzionalità: «Affermare che la percezione ha una struttura intenzionale significa in primo luogo che il percepire, la sua intentio, si relaziona ad un percepito, ad un intentum376». La relazione intenzionale non deve però essere vista come una relazione che sussiste solo in presenza dell’oggetto, l’intenzionalità è la struttura stessa del soggetto, il soggetto è già sempre orientato-verso: «Noi chiamiamo questa relazione con il termine “intenzionalità”: essa costituisce quel carattere apriorico di rapporto che è proprio ciò che designamo col termine di atteggiarsi377». L’intenzionalità è struttura dell’esperienze vissute e fa parte della dimensione soggettiva, che include anche il dirigersi-verso. Heidegger, a questo riguardo afferma che: « è necessario vedere che l’intenzionalità è proprio nient’altro che ciò in cui consiste la trascendenza378». Quindi, riassumendo, l’intenzionalità non deriva dal
der Phänomenologie de Heidegger», in Archives de Philosophie, vol.43, 1980, pp.99-120.
374 GP, p.41. 375 GP, p.42. 376 GP, p.54. 377 GP, p.56. 378 GP, p.59.
188 rapporto tra due enti, il soggetto e l’oggetto, ma è l’atteggiamento dell’esserci in quanto tale. L’intenzionalità non è immanente al soggetto, sta nella trascendenza, poiché il trascendere appartiene a quell’ente che esiste come intenzionale: «L’intenzionalità è la ratio cognoscendi della trascendenza. La trascendenza è la ratio essendi dell’intenzionalità nei suoi diversi aspetti379». L’intenzionalità, appartenendo all’esistenza dell’esserci, permette all’esserci di esistere rapportandosi al sussistente. E quindi:
Il percepire è un lasciar-incontrare affrancante ciò che sussiste. Trascendere è scoprire. L’esserci esiste come scoprente. L’esser-scoperto di ciò che sussiste rende possibile l’affrancamento di esso come ente che s’incontra. L’esser-percepito, vale a dire lo specifico affrancamento di un ente nel percepire, è una modalità dell’esser-scoperto in generale. L’esser-scoperto determina anche l’affrancamento di qualcosa nella produzione o nel giudizio su ... 380.
L’intenzionalità è nella sua essenza trascendenza dell’esserci verso l’essere dell’ente percepito e l’essere è posizione assoluta di qualcosa perché l’essere è ciò che è già compreso nella posizione di una cosa. La percezione è un lasciar venire incontro l’ente percepito rendendolo presente. Kant, non cogliendo l’essere-nel-mondo dell’esserci, non può effettuare questo collegamento con l’intenzionalità. La posizione di una cosa resta una mera relazione con un oggetto posto dalla facoltà conoscitiva del soggetto.
La questione della comprensione, o meglio della pre-comprensione, è il punto focale e finale della riflessione heideggeriana sulla tesi kantiana dell’essere. La modalità della possibile scoperta di ciò che sussiste dev’essere già presente, lo scoprimento percettivo deve già comprendere qualcosa come la sussistenza. Nell’intentio della percezione dev’esserci già preliminarmente la comprensione della sussistenza. E quindi l’ente scopre il sussistente in quanto compreso in anticipo, preliminarmente, e l’ente stesso può venir scoperto solo se l’essere dell’ente risulta già aperto – solo se io già lo comprendo381.
In conclusione, l’esser è percezione, la percezione è rapporto tra intentio e intentum. L’intentum, che è il percepito, deve essere compreso nel suo esser-percepito. La
379 GP, p.60. 380 GP, p.65. 381 GP, p.67.
189 trascendenza non è intenzionalità, perché l’intenzionalità si basa sulla trascendenza dell’esserci, che è comprensione dell’esser-nel-mondo. La percezione non è l’esistenza, a differenza da quanto affermato da Kant, perché la percezione richiede già l’esistenza dell’ente percepibile o percepito, che è quindi preliminare. Ed allora, come già si adombrava nel modo di considerare la sensazione, si disvela solo ciò che già da sempre c’è, e il nuovo, l’imprevisto è escluso dall’orizzonte di Heidegger, non è percezione, e quindi non ne possiamo fare esperienza.
Heidegger si confronterà di nuovo con il problema della percezione e della sensazione, ne La questione della cosa, testo di un corso di lezioni tenuto nel semestre invernale 1935-36 all’Università di Friburgo, e pubblicato la prima volta nel 1962. In questo testo Heidegger afferma che Kant scopre il trascendentale della sensazione: scoperta stupefacente, strana, e difficilmente trattabile.
A differenza degli Assiomi dell’intuizione, il principio delle Anticipazioni della percezione non si riferisce alla forma, ma a ciò determina: il determinabile. La materia non è solo la materia esistente, ma è un concetto della riflessione, un concetto più universale e sullo stesso piano della forma. Trattando della sensazione Heidegger evidenzia adesso che la sensazione non è solo il sentito, ma è anche ciò che indica il qualcosa di incontrato, l’urto con ciò che ci è di fronte. Sensazione è quindi una parola polisemica, indica ciò che ha una posizione intermedia tra le cose e l’essere umano, l’oggetto e il soggetto. Heidegger riconosce così a Kant una profonda originalità, rispetto a tutte le interpretazioni passate sulla sensazione, e questa originalità deriva prima di tutto dalla nozione di realtà. Realtà nel fenomeno non è, per Kant, ciò che effettivamente esiste nell’apparenza, distinto da ciò che non esiste essendo parvenza e illusione. Il reale è il: «è il puro ed il primo necessario “qualcosa” in quanto tale. Senza il reale, senza la materia essenziale, senza cioè un “qualcosa” che lo determina come questo o quello, l’oggetto non è solo inesistente, ma in generale è niente382».
Accanto a questo significato, ne sussiste un altro, quello di realtà oggettiva, responsabile dei principali fraintendimenti della Critica della ragion pura. Il principio delle anticipazioni della percezione afferma che il reale corrispondente alla sensazione ha una grandezza intensiva, cioè un grado (A166). La sensazione non è, in queste pagine, analizzata sotto il profilo fisiologico, psicologico o empirico, ma in
382 M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kant Lehre von den transzendentalen Grundsätzen, Tübingen, 1962; trad.it. di V. Vitiello, La questione della cosa, Mimesis, Milano, 2011, p.185
190 base al suo ruolo nel rapporto di trascendenza. È qualcosa che rientra nel rapporto di trascendenza verso l’oggetto383, ed ha quindi un ruolo determinante l’oggettività
stessa. In questo grado c’è un’unità diversa da quella dell’intuizioni. Nella grandezza estensiva è possibile comprendere l’unità solo mettendo insieme molte parti, si procede dalle parti al tutto, mentre nella grandezza intensiva l’unità è percepita immediatamente. Questa unità può essere rappresentata solo approssimandola allo zero, e non è quindi composta di parti. Questo qualcosa può spaziare tra l’estremo di una presenza piena al vuoto dell’ambito spazio-temporale.
Heidegger sottolinea che il principio in questione non dice che è la sensazione ad avere un grado, altrimenti cadremmo un serio fraintendimento della Critica della ragion pura. Il principio dice che è il qualcosa che nella sensazione si spinge innanzi ha il carattere di una grandezza intensiva. È il reale ad avere un grado e di conseguenza anche la sensazione, la cui oggettiva intensità si fonda sulla realtà pre- data del sensibile.
Kant scopre così il trascendentale della sensazione.
383 Ivi, p.187.
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