«L’idolatria è il maggior crimine dell’umanità76», con queste parole Tertulliano apre
il suo trattato. La colpa più grande dell’uomo è farsi idoli, feticci da adorare e venerare77. Ma cosa accade se ad essere rappresentato, raffigurato è l’essere umano? E soprattutto, cosa accade se è questa immagine a prendere il soppravvento sulla persona stessa? La rappresentazione di noi stessi portata fino all’estrema spettacolarizzazione – processi strettamenti collegati, come già scriveva Tertulliano in De Spectaculis e in epoca più recente Guy Debord78 – ha fatto sì che l’uomo fosse sostituito dal suo riflesso. La nostra immagine ci ha quasi del tutto sostituiti, è il quadro di Dorian Gray a contare, non il soggetto.
Molto è stato scritto sul pericolo insito alla riduzione dell’uomo a struttura bio-fisica, ad una serie scientificamente determinabile di componenti e proprietà. Pensare all’uomo come ad una “macchina” in cui poter sostituire e rimpiazzare i singoli pezzi vuol dire mortificare l’irripetibilità del singolo individuo. L’essere umano così parcellizzato è un puzzle che non può essere completato. Tra me e la mia immagine avviene invece uno sdoppiamento, si crea un’altra entità che non coincide del tutto con la mia persona fisica. Non basta dire il «tutto è più della somma delle singole parti». Nella rappresentazione dell’io sono svanite le singole parti. È l’immagine a dominare, dietro questa resta un guscio svuotato79. L’immagine è l’alter-ego che si
manifesta e si oggettiva, è l’io finalmente conoscibile, che non lascia ombre. Se conoscere vuol dire rappresentare, l’uomo può conoscersi rappresentandosi come un oggetto tra gli altri. L’immagine che catturiamo di noi stessi sembra al servizio di questa esigenza. In quell’istantanea è riprodotto un oggetto infinitamente replicabile e ripetibile. L’immagine è però priva di quel mondo non oggettivabile che ci costituisce e che non può essere conosciuto in modo scientifico, anzi, che non può essere «conosciuto» affatto.
76 Tertullianus, De Idololatria. Testo critico, traduzione e commento a cura di J. H. Waszink e J. C. M. van Winden, Leiden, 1987.
77 Idolo che non è l’icona. Su questa differenza rimando a Marion J.-L., L’idole et la distance. Cinq
études, Grasset, Paris, 1977; trad.it.di A. Dell’Asta, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano, 2008.
78 G. Debord, La società dello spettacolo, [19671], Baldini Castoldi editore, Milano, 2008.
79 «Una bocca a loro e non parleranno, occhi a loro e non vedranno, orecchie a loro e non ascolteranno, naso a loro e non annuseranno. Le loro mani non toccheranno, le loro gambe non andranno, non mormoreranno nelle loro gole». Salmo 115.
65 L'esigenza primaria non può essere riaffermare ancora una volta i diritti dei “fatti”, della «bentornata realtà80», imitando il mondo delle scienze, bensì ripensare la
pluralità dei nostri modi di rapportarci al mondo e la correlativa necessità di una molteplicità di strumenti euristico-interpretativi che vorremmo possedere per “dire” quel mondo, e non ridurlo ad oggetto conoscibile e in qualche modo dominabile. Deve essere valorizzata l’espressione simbolica dell’uomo, con le sue regole, i suoi principi e i suoi valori.
Ricordiamoci che rappresentare per Baumagarten coincideva con il possibile, il rappresentabile è il determinabile, mentre l’impossibile è il contraddittorio, il nihil negativum o l’irrapresentabile. È la possibilità o meno di rappresentazione a segnare il confine tra possibile ed impossibile.
Tetens a sua volta ci diceva che gli oggetti fuori dell'intelletto non sono nient'altro che le stesse rappresentazioni nell'intelletto. Per sapere se queste rappresentazioni siano vere e reali non possiamo uscire dalle nostre rappresentazioni ma dobbiamo applicare un metodo per discernere tra le molteplici rappresentazioni quelle attendibili e rappresentare così le cose come sono. Possiamo ottenere rappresentazioni vere di oggetti reali.
Ma abbiamo scelto di seguire Kant. Il problema del rapporto tra ciò che in noi si chiama rappresentazione e l'oggetto è una domanda che Kant già si faceva nel 1772, come ci testimonia la lettera a Marcus Herz del 21 febbraio 1772. L'oggetto, per quanto concerne la sua forma, dipende dalla rappresentazione del soggetto, dalle intuizioni pure dello spazio e del tempo e dalle categorie. Nell’indagare questo complesso rapporto Kant mostra qualcosa di più: in quel mondo della rappresentazione si cela ciò che rappresentazione non è, ciò che non è un «riferirsi a», in quel fragile equilibrio tra sensazione, intuizione e categorie. Ciò che ci rappresentiamo ha in sé qualcosa in più dalla sua rappresentazione stessa, qualcosa che non può essere rappresentato ma che è presente nel rappresentato: la sensibilità. Essendo questa la storia del percorso compiuto dalla concezione della sensibilità a partire dalla posizione kantiana, nelle successive parti di questo lavoro ne saranno affrontate alcune differenti linee interpretative. Affronteremo dei pensatori di area «analitica» – per quanto già il termine analitico sia complesso e problematico – in particolare Strawson, Sellars e McDowell. Si tratta di esaminare come è stata
80 M. Ferraris, Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, 2012. Vedi il testo di D. Di Cesare, C. Ocone, S. Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo, il melangolo, Genova, 2013.
66 recepita la problematica intorno alla questione dei qualia: gli elementi irriducibilmente qualitativi dell'esperienza. Per Kant non possiamo parlare di esperienza oggettiva senza prendere in considerazione la sensazione, con la sua natura non-oggettiva ma oggettivabile. Come visto, le qualità sensibili appartengono ad un particolare genere di quantità: sono «quantità intensive» distinte ma non opposte alle «quantità estensive» spazio-temporali. Non è quindi il mondo della sensazione opposto al mondo dell’intelletto, non vi è un dualismo. Questo purtroppo non significa che la complessità del discorso kantiano non sia stato letto in tale direzione, o peggio, sia stata ridotto ad un unico termine della questione.
Vastissimi sono gli ambiti di ricerca relativi a ciascuno degli autori presi in considerazione. Non è data nessuna possibilità, evidentemente, di completezza né di esaustività critica. Saranno isolate le questioni relative al rapporto di questi filosofi con il nodo problematico a noi caro: la sensibilità nella prospettiva kantiana. In maniera circoscritta e limitata ciò che interessa mostrare è cosa resta della sensibilità “privata della sensazione”, o meglio interpretata come una sorta di concetto non ancora sviluppato, come se fosse un concetto minore. Dei singoli filosofi affrontati verranno anzitutto presentate le linee generali di pensiero, questo ci aiuterà a contestualizzare il ruolo rivestito da Kant all’interno di ogni singolo approccio. La scelta di esaminare Strawson, Sellars e McDowell e non altri filosofi analitici è la conseguenza del loro specifico indirizzo filosofico. Possiamo dire che, nonostante le evidenti differenze tra loro, la filosofia critica è qui vista come un intellettualismo da correggere. Solo rifiutando alcune teorie presenti nella Critica della ragion pura è possibile ottenere una dottrina coerente e valida. Tutto ciò però è il risultato del distorgimento del ruolo della sensazione nel pensiero kantiano, elemento non concettuale, non intuitivo, ma essenzialmente sensibile.