Intervista numero 2: Centro Psico-Educativo di Lugano
J: Perfetto Può dirmi quali sono i gruppi terapeutici proposti qui al CPE di Lugano di cui mi ha parlato?
M: I gruppi non sono sempre uguali e sempre gli stessi, ma possono variare a dipendenza dei bambini ammessi e degli operatori presenti. Quest’anno scolastico ad esempio abbiamo avuto una decina di gruppi: il gruppo scuola per bambini di età elementare, l’atelier terapeutico detto anche photolanguage, il gruppo espressivo terapeutico (suddiviso in GET grandi e GET piccoli) in cui vi sono attività di psicodramma o di drammatizzazione, il gruppo osservazione, il gruppo giardino d’infanzia terapeutico in cui si leggono fiabe, si fanno attività di cucina, la pet-therapy e molte altre cose, l’atelier racconto sul modello di Lafforgue, la pataugeoire (attività di piscina sempre sulla base del modello di Lafforgue) ed infine le attività individuali. Quindi oltre ad attività in cui è presente il gioco, o il giocare un ruolo (come per il caso dell’atelier racconto o dello psicodramma) abbiamo anche molte attività corporee, in cui l’oggetto principale è appunto
Il lavoro educativo nell’accompagnamento peri traumatico con minori vittime di abusi
il bisogno del corpo e il riuscire a sentirsi, percepirsi (mi riferisco alle attività di piscina come mediatore terapeutico).
J: Ok, questa prima parte è finita. Adesso entriamo di più nel merito della mia ricerca, con la parte di domande relative l’educatore sociale e il lavoro con bambini vittime di abusi nel Centro Psico-Educativo. Sono coinvolte, in una presa a carico di bambini vittime di abusi, altre figure professionali?
M: Sì, collaboriamo con psicomotricisti, professionisti della pet-therapy, docenti esterni che si recano qui per il momento scuola, docenti di scuola, ispettori, direttori scolastici, docenti di sostegno così come gli assistenti sociali dell’Ufficio dell’Aiuto e della Protezione (UAP), l’unità di polizia, l’Autorità Regionale di Protezione (ARP), i curatori, gli educatori dei vari centri educativi minorili (CEM) ed eventuali psicoterapeuti dei servizi (ad esempio dell’SMP) e privati.
J: Quali pensa siano i punti di forza e i limiti del lavorare in rete con altre figure professionali?
M: Rispetto al passato i CPE sono più aperti verso l’esterno, questo sempre perché la presa a carico è diminuita e quindi per forza di cose si ha bisogno di collaborare con altre figure professionali. Io personalmente penso che in assenza di un lavoro di rete si rischia di appiattirsi; lavorare in rete ti permette di avere più punti di vista, più sguardi sul bambino, inoltre il bambino può confrontarsi con più figure adulte in contesti differenti; l’équipe inoltre ha modo di evitare di sentirsi detentrice della verità assoluta o semplicemente della miglior soluzione, si evita quindi la trappola del totalitarismo (per fare un esempio di questa trappola possiamo pensare alla situazione in cui un operatore pensa: “io ho sempre lavorato così e lavorerò sempre così, il mio è il giusto e quello degli
altri non va bene”, questo tipo di pensiero non va bene, manda un messaggio molto forte e
disfunzionale). Ancora, la rete aiuta a proteggersi dall’usura e dalla routine provocate da un lavoro ripetitivo in cui i progressi impiegano molto tempo per manifestarsi; in un lavoro multidisciplinare vi è il sentimento di partecipare ad un compito comune, di poter trovare insieme un piacere di funzionamento, ti permette di valorizzare il lavoro di tutti, rinforzare l’attenzione sul bambino, l’investimento affettivo del lavoro effettuato su di lui e, confrontandoti con altri professionisti, hai la possibilità mettere in discussione la tua identità professionale, il tuo agire, hai modo di monitorare la presa a carico rinforzandola laddove appare necessario farlo; confrontarsi con altre figure professionali ed aprire la relazione quindi anche ad altri colleghi che non siano sempre “gli stessi” ti permette di avere anche molti stimoli professionali. Attenzione però a non idealizzare troppo, nel senso che di pericoli, di limiti ce ne sono anche in questo caso; mi viene ad esempio in mente il rischio di avere una rete troppo numerosa: questo porta il rischio che si è in troppi e che non si riesca a comunicare; agli occhi dei genitori una rete troppo numerosa appare caotica, gruppi troppo numerosi poi rischiano di paralizzare il lavoro e potrebbe risultare
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impossibile trovare degli spazi adeguati e tempi necessari a contenere tutti gli interventi durante la riunione di rete.
J: Qual è la prassi da seguire al CPE in una presa a carico di bambini vittime di abusi?
M: Non esiste una prassi specifica, mi piacerebbe che ci fosse un Vademecum che ci dicesse cosa fare in certe situazioni; mi verrebbe da dirti che fondamentalmente nel nostro mestiere ci vuole una buona base teorica, ma una parte la si impara tutta dall’esperienza, purtroppo non esistono libri che ti dicono cosa fare e in quale momento. Si impara sul campo, provando, sbagliando, osservando gli altri colleghi, grazie ai vari stage o anche alle diverse supervisioni. Quindi non c’è una prassi da seguire, uguale per ogni caso; ma ci vuole un’attenzione generale particolare all’accoglienza, ad accogliere il malessere del bambino, proprio come per gli altri pazienti d’altronde, sempre però tenendo presente l’abuso avvenuto. Gli educatori qui, così come gli psico-educatori sono pronti ad accogliere il bambino che manifesta il suo malessere.
J: Com’è organizzata e gestita la presa a carico da parte del CPE nella casistica di bambini vittime di abusi?
M: Si crea un ambiente di fiducia allo scopo di accogliere le eventuali esternazioni dei bambini e si cerca il più possibile di evitare eventuali ulteriori eventi traumatici; ci vuole sempre un’attenzione particolare quando il bambino si mostra provocatorio o aggressivo e – faccio un esempio pratico ma le situazioni sono diverse – va in bagno, per questo bisogna stare sempre in due col bambino, per evitare che si creino quelle situazioni di ambiguità o le occasioni per cui il bambino può fraintendere le intenzioni degli operatori e accusarlo di un qualsiasi reato; bisogna avere inoltre un occhio particolare, vigilare sempre bene, specialmente quando il bambino sta in relazione con gli altri coetanei e ha modo di manifestare comportamenti aggressivi verso se o verso gli altri.
J: E a quali aspetti della presa a carico quotidiana di un bambino vittima di abusi dareste maggiore importanza?
M: Bisogna, secondo me, stare sempre in posizione di attesa di quei segnali significativi da parte del bambino; così come bisogna riuscire a trovare la giusta distanza relazionale e, sempre secondo me, è importante evitare che i bambini si isolino. Trovo importante anche avere un occhio particolare quando i bambini sono soli, o quando gli operatori sono occupati ad, ad esempio, aiutare un altro bambino, e non possono sorvegliare la situazione ed impedire il succedersi di eventuali ulteriori danni. Da ultimo direi che bisogna fare molta attenzione quando l’operatore è particolarmente stanco (capita raramente ma a volte, verso la fine dell’anno scolastico o a pochi giorni dalle vacanze può capitare), perché potrebbe reagire agli stimoli in maniera non totalmente consona o opportuna, e a questo bisogna dare la giusta attenzione in una simile presa a carico.
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J: Grazie. Vorrei sapere ora qual è l’intervento dell’educatore sociale al CPE, sempre nella presa a carico di bambini vittime di abusi
M: L’attività principe è il gioco, in questo l’educatore è molto presente; devo dire che mi riesce un po’ difficile rispondere in maniera esaustiva a questa domanda, perché qui al CPE l’educatore e lo psicoeducatore hanno un ruolo molto simile e quindi è quasi impossibile dividere le varie figure; si lavora in équipe e l’educatore sociale solitamente si differenzia in quanto è molto ricco di proposte per quanto riguarda le attività e gli ateliers. J: La domanda che le sto per fare è simile a quella precedente: come può la figura dell’educatore sociale apportare un contributo a questa presa a carico?
M: L’educatore come ho detto poco fa forse è più creativo, si differenzia forse solo perché ha più proposte per quel che concerne le attività e gli ateliers.
J: Quali pensi siano le strategie educative che possono essere messe in atto dall’educatore sociale che lavora con bambini vittime di abusi?
M: Deve assolutamente contenerlo senza però giudicarlo, lasciandolo libero di esprimere il proprio disagio o malessere, trovando la giusta distanza relazionale per instaurare un rapporto di fiducia. Tra le attenzioni che vengono date al bambino, oltre all’ascolto e ad un atteggiamento di accoglienza, l’educatore può usare come strategia quella appunto di mettere un quadro, delle regole al gioco quando esso rischia di non essere più funzionale, quando ad esempio il bambino si eccita troppo e rischia di non ricavare elementi positivi da quell’attività.
J: Come dovrebbe atteggiarsi/porsi dunque l’educatore sociale che sta in relazione con un bambino vittima di abusi?
M: Dovrebbe riuscire ad ascoltare il bambino, a porsi in un posizione di accoglienza e riuscire ad essere contenitivo. Ripeto che deve riuscire a trovare quella giusta distanza relazionale per non essere troppo fusionale col bambino, ne al contrario lasciarlo privo di attenzioni o di vicinanza. Bisogna avere sempre un atteggiamento generale di empatia ed accoglienza, ma anche tanta pazienza. Non si deve giudicare, ma far capire al bambino che ci siamo, sia per accoglierlo e contenerlo, sia per ascoltarlo qualora ne sentisse il bisogno, e che siamo disposti a accettare tutto quel che ha da dire.
J: Quali pensa siano i punti di forza e i limiti in un approccio individuale (relazione educatore – bambino abusato)?
M: In una relazione individuale il bambino potrebbe essere più spinto ad esprimere determinati contenuti o a comportarsi in una certa maniera che altrimenti non sarebbe emersa in un gruppo di più persone. Questo può essere sia un aspetto positivo sia un aspetto negativo (se ad esempio il bambino è intimorito dalla relazione individuale non si aprirà facilmente con l’adulto, potrebbe sentirsi minacciato, angosciato o potrebbe rivivere in una certa maniera la sensazione di essere impotente difronte ad un adulto).
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J: Quali programmi terapeutici specifici ci sono per l’accompagnamento di bambini vittime di abusi?
M: Non ci sono programmi specifici, sono come quelli detti prima, in base al bambino e alla sua situazione si valuta con l’équipe quale attività risulta più idonea a lui o lei. Potrei generalizzare dicendo che in ogni attività, in ogni momento al CPE vi è sempre presente il gioco. Autori come Winnicott hanno dato un grosso contributo alla comprensione del gioco del bambino e al gioco come via d’accesso al suo mondo interno, alle sue emozioni e alle sue paure; quindi nei CPE si gioca molto. Ci sono molti bambini che all’inizio non sanno giocare, si parte quindi da un livello molto basilare a cui manca completamente il piacere di giocare e il saper giocare (anche questa non è una cosa scontata).
J: Anche se dalle risposte precedenti ho un po’ già intuito la risposta, vorrei sapere quali sono gli obiettivi da raggiungere rispetto ai gruppi terapeutici del CPE funzionali alla presa a carico di bambini vittime di abusi?
M: L’obiettivo delle prese a carico del CPE è il reinserimento del bambino nel suo ambiente di vita abituale laddove questo è possibile, il dar loro delle cure nutrienti a livello relazionale evitando il più possibile che il bambino ripeti l’esperienza di rottura come quella avvenuta nell’infanzia ed è per questo che si vuole evitare il più possibile che gli operatori manchino durante la settimana, proprio per evitare eventuali situazioni in cui il bambino ripeta l’esperienza traumatica dell’interruzione o dello spezzamento. Ecco perché ritengo importante anche il pianificare il lavoro senza troppi turni e l’evitare le troppe mancanze dell’operatore, per dar al bambino quella continuità che durante l’esposizione al/ai fattore/i traumatico/i non c’era (senza voler colpevolizzare nessuno). Per concludere, nella cura non devono assolutamente essere ripetute esperienze traumatiche come quelle vissute in precedenza. Inoltre i vari giochi e le varie attività favoriscono la relazione tra i bambini e la parola, lo scambio, la comunicazione e, aspetto molto importante, favorisce la dimensione simbolica (è molto importante per i nostri bambini che inizino a lavorare con la fantasia; molte volte può essere un gran successo anche solo quando un bambino dopo tanto tempo che costruisce solo palline inizia a far diventare quella pallina, ad esempio, un animale; questo ci permette di conoscere meglio il bambino e capire ciò che ha dentro). Un ulteriore obiettivo molto importante è il permettere al bambino di giocare e imparare a giocare, rispettando gli altri bambini, i loro turni e le regole del gioco. Tramite il gioco inoltre, il bambino senza rendersene conto prova emozioni, sentimenti e lo scopo è quello di mettere il bambino nella condizione di riconoscere queste emozioni, di saperle nominare, condividerle e qualora fosse necessario anche elaborare o trovare una modalità per gestirle.
J: Avete in programma anche attività con impronta meno terapeutica e più artistica?