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Performance: il performer e l'altro

2 4 La performance tra arte e vita

2.5 Performance: il performer e l'altro

Dopo aver definito a livello antropologico gli spazi e le modalità per le quali l'individuo è portato a svolgere delle azioni performative, ci concentreremo su alcuni linguaggi estetici dei Performance Studies, che in un certo senso rappresentano l'ibridazione tra azioni rituali e azioni ludiche. Il primo a dare la definizione di Performance Studies fu Richard Schechner che nel 1977 con la pubblicazione del saggio Performance Theory inizia a delineare un determinato campo di indagine. Lo stesso

anno della pubblicazione del libro Schechner ebbe l'opportunità di conoscere Victor Turner il quale già al tempo stava studiando i diversi tipi di performance, quell'incontro innescò un'intensa collaborazione che permise ad entrambi gli studiosi di indagare e osservare determinati fattori che accomunano le performance delle arti performative e quelle della vita quotidiana.

61 L.Gemini, L'incertezza creativa: i percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2011,

Come abbiamo visto la definizione delle arti performative risulta un ambito molto spinoso, questo tipo di pratiche che un tempo - come scrive Marvin Carlson - erano strettamente legate alla teatralità, hanno visto la sovrapposizione di azioni e situazioni artistiche multiple che non sempre possono essere definite in modo univoco.63 A tal proposito la studiosa Barbara Krishenblatt

Gimblett sostiene che il termine “performance” è un “concetto reattivo” che ha bisogno di essere ri- contestualizzato ogni qual volta si manifesta.64 A rendere ancora più complessa la situazione è lo

sviluppo tecnologico, che ha contribuito a modificare i linguaggi dell'arte e nel tempo anche il rapporto tra performer e spettatore.

Nonostante le diverse ibridazioni che si sono susseguite nel tempo, una elemento che accomuna le arti performative è la presenza di un attore/performer che entra in relazione con lo spettatore. All'inizio del Novecento il tipo di relazione tra le due parti è andato modificandosi, l'approccio inizia ad avere una prospettiva orizzontale e più interattiva. Le prime sperimentazioni sul corpo e sull'azione del performer avvengono in teatro, ambiente sempre più influenzato da studi antropologici-pedagogici e psicologici che conducono le performance ad acquisire una valenza rituale e rivelatrice dell'attore/performer. Come scrive Marco De Marinis:

“...due fra le acquisizioni del Novecento teatrale sono:

a) la concezione e l'uso dello spazio come dimensione drammaturgica, parte integrante della composizione dell'opera teatrale;

b) la concezione e l'uso dello spazio teatrale come spazio di relazione, luogo del rapporto attore- spettatore.”65

Questa notazione ci dimostra come la necessità di ricostruire drammaturgicamente lo spazio dell'azione non è indotta più solo ad uno scopo di rappresentazione del testo, ma ha un valore relazionale determinato dalla necessità da parte del performer di coinvolgere sempre di più lo spettatore creando un rapporto “alla pari”. La rappresentazione scenica dell'attore, lascia spazio alla presentazione, con lo scopo di creare un coinvolgimento intimo tra arte e vita. Infatti, con le avanguardie storiche l'arte rappresenta una questione sociale, che deve coinvolgere le persone in modo attivo. Per spiegare meglio questa visione, riportiamo le parole di Edoardo Sanguineti, in merito al pensiero di J.Cage sul connubio arte/vita:

63 M. Carlson, Performance: A Critical Introduction. London -New York: Routledge, 1996

64 B. Krishenblatt-Gimblett “Performance Studies” in Bial, H. (ed.) The Performance Studies Reader. London – New York: Routledge, 2002

“Quando Cage insiste sopra il superamento di qualunque divorzio e distanza tra arte e la vita, non intende per nulla militare in favore di un'estetizzazione dell'esistenza [..] Al contrario, il problema è quello di riversare sopra il vissuto quotidiano, nell'azione sociale di ognuno quanto l'arte addita in forma simbolica ma reale, fornendo modelli sperimentabili di nuove relazioni con gli uomini e con le cose.”66

Questa necessità di creare un collegamento arte/vita, viene manifestata attraverso la decostruzione dei luoghi d'azione, che non sono più quelli istituzionali (teatri, musei, gallerie), l'arte si struttura in spazi pubblici che possono essere gli stessi loft degli artisti oppure le vie di una città. Come si vedrà negli happenings di Allan Kaprow, tra i quali citiamo The Courtyard realizzato nel cortile di un albergo nel 1962, oppure quello di Claes Oldenburg Autobodies allestito in un parcheggio di automobili nel 1964. Interessanti sono anche le azioni svolte dall'Enviromental Theater narrate da Richard Schechner nel 1973. Questi, sono solo alcuni esempi di come l'arte viene trascinata fuori dalle sue “esecuzioni standard” e ci dimostra come il corpo dell'artista abbandona il palcoscenico per fondersi e coinvolgere in modo attivo i suoi spettatori.67

La connessione che l'artista vuole creare con lo spettatore/astante deve essere partecipata, sentita e volontaria, la performance deve mostrarsi come un flusso di azioni non costruite ma reali e spontanee. L'arte, come sostengono Steiner e Gurdjieff deve essere un veicolo di conoscenza, di verità, “uno strumento efficace di azione dell'uomo sull'uomo, perché fondato sulle leggi matematiche che collegano l'individuo all'universo.”68

La ricerca sull'azione fisica, intesa come azione cosciente-volontaria-reale, ha coinvolto tanto gli studi teatrali quanto le azioni performative in generale. Al di fuori dell'ambito teatrale, interessanti sono le osservazioni che fa Gurdjieff in merito a “la ricerca dell'azione cosciente”, questa consiste nel lavorare simultaneamente su tre centri dell'essere umano (fisico-motorio, emotivo-volizionale e intellettuale) partendo dalla conoscenza e dalla coscienza che si ha del proprio corpo. Secondo lo studioso a partire dal movimento cosciente e razionale, l'uomo può liberarsi dai condizionamenti corporei, emotivi e mentali, creati dalla società, che lo porterebbero ad un comportamento costruito e privo di spontaneità.69 Come scrive Edoardo Giovanni Carlotti:

“Il discorso sul corpo, nelle traiettorie anche diversificate che percorre la sperimentazione teatrale dell’ultimo Novecento è innanzitutto politico, sia espresso nei termini espliciti che 66 E. Sanguineti, Praticare l'impossibile, in J. Cage, Lettera ad uno sconosciuto, Roma, 1996, cit., pp 13-8: 13:4 67 M. J. Contreras Lorenzini, Il corpo in scena: indagine sullo statuto semiotico del corpo nella prassi performativa,

Tesi di dottorato, Bologna, 2008

68 M. De Marinis, In cerca dell'attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni Editore, Roma, 2000, cit., p. 220 69 F. Ruffini, I teatri di Artuad. Crudeltà, corpo-mente, Bologna, Il Mulino, 1988, p.14.

caratterizzano il progetto rivoluzionario del Living Theatre, sia contenuto nella dimensione di apparente isolamento dell’ultima fase del percorso grotowskiano: in altre parole è un discorso sulla vita, centrato sul corpo come plesso dell’esistenza individuale e collettiva, alla ricerca di una modalità dell’esperienza che, se non può offrire risposte definitive, permette di lavorare su ipotesi che aggiungano consistenza alle conoscenze umane sull’argomento. Dalla rappresentazione come metafora della vita, si passa a una concezione delle arti performative come laboratorio sperimentale di ipotesi sulle possibilità di trasformazione dell’esistenza, nei termini concreti di un approccio alla realtà che ha origine dalla ricerca su come il corpo si pone in relazione con lo spazio e il tempo, vagliando attentamente la qualità delle modificazioni indotte da condizioni ambientali e stratificazioni culturali.”70

Il corpo diventa così la migliore forma di espressione, oggetto di studi e ricerche da parte di molteplici personaggi del Novecento teatrale come Eugenio Barba, Peter Brook, il Living Thetre, tra questi colui che sancisce il passaggio dall'attore al performer è Jerzey Grotowski che nel suo ultimo periodo di attività, sostiene che l'elemento comune dell'attore e del performer è il coinvolgimento totale e profondo che avviene durante l'azione identificata come rituale. In merito il regista scrive:

“ll Performer, con la maiuscola, è uomo d’azione. Non è l’uomo che fa la parte di un altro. È l’attuante, il prete, il guerriero: è al di fuori dei generi artistici. Il rituale è performance, un’azione compiuta, un atto. Il rituale degenerato è uno show. Non cerco di scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più valide.” 71

E' importante notare come Grotowski in questo discorso non identifica la performance con un genere artistico in particolare, ma la considera in quanto atto, cioè un'azione che assume un valore rituale. Questa dimensione del rituale è presumibilmente riferita alla necessità di recuperare l'esperienza interiore che avviene mediate la compresenza e l'azione tra spettatore e performer.

Il recupero dell'esperienza nell'ambito artistico performativo, indotta dall'interazione tra performer e astante, secondo le teorie di Schechner si sviluppa attraverso due condizioni psico-fisiche:

70 E. G. Carlotti, Teorie e visioni dell'esperienza "teatrale": L'arte performativa tra natura e culture, Accademia University Press, Torino, 2014