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PORCELLANA DURA E PORCELLANA TENERA

Nel documento IT A L IA N A (pagine 102-106)

O son pochi giorni, un gentiluomo mio amico, un p a­r ziente e sapiente ricercatore di memorie patrie, al quale dovremo fra poco la pubblicazione di nuovi e importanti documenti intorno alla nostra famosa porcellana di Capodimonte, chiedeva che io gli spiegassi, così, a occhio e croce, la differenza fra la p a sta du ra e la p a sta ten era . “ Ho cercato di appurarla dai libri — egli soggiungeva — ma per quanto abbia frugato e rimuginato, non sono venuto a capo di nulla. ,,

Eravamo in mezzo di strada, fra un intricato via vai di p e­

doni e un succedersi continuo, affrettato di vetture. Udivasi tutto intorno un vocìo confuso, un turbinante bisbigliare. Scorrevano, sussultando, i circoli metallici delle ruote; scoppiettavano le fruste nella torpida aria estiva, e i cavalli, accaldati, passavano rapidi, annitrenti, percotenti, con ritmo impari e fragoroso, le zampe ferrate sui crudi selci della via dardeggiata dal sol d’agosto.

“ Eh — risposi all’amico — la domanda è assai semplice, ma la risposta non è poi tanto breve e tanto facile quanto lei crede; e in questo tramestìo poi.... figuriamoci. Conviene rive­

derci un altro giorno, a casa sua o a casa mia, sceglieremo due comode e soffici poltrone, ci approfonderemo in esse, accende­

remo, m agari, la sigaretta, e così, fra una boccata di fumo e l’altra, potremo discorrere a nostro agio. Intenderà, trattasi di ricapitolare la storia tecnica di due vaghe sostanze in cui furono impresse tutte le grazie, tutte le leggiadrie e le minuziose ricerche civettuole della più fine fra le finissime arti industriali che fio­

rirono nel secol tenero della cipria.

“ S arà una storia lunga a quanto pare.

“ Potrebbe essere lunga da formar materia di molti volumi, ma io m’ ingegnerò di fargliela brevissima, e di tesserla, così, leggermente, senza pretese scientifiche, senza intrichi di formule, altrimenti nè io potrei spiegarmi con poche parole, nè lei, scusi la sincerità, potrebbe intendermi. ,,

Ci stringemmo la mano e ciascuno tirò dritto per la pro­

pria via.

Due sere dopo, in un elegante salotto della nostrà città, una dama gentile — era la padrona di casa — venivami incontro a ricevermi, lieta, sorridente più del solito, senza però stendermi, come al solito, la mano candidissima. Io restai per un momento confuso, impedito come un collegiale che faccia appena le prime armi nella vita di società. Intanto mi avvidi che le dita gem­

mate della gioconda signora stringevano, premevano, asconde­

vano quasi, caute, lievi, qualcosa di eburneo e di scintillante fra le vaporose cascate di pieghe di una camicetta di crespo roseo ond’erano pomposamente vestite le ampie spalle di lei e la im­

prigionata vita sottile.

“ Principessa — diss’ io, inchinando la donna bella — ella assume questa sera un atteggiamento da fata; le sue mani na­

scondono un mistero.

“ Infatti — ella rispose, scandendo le parole, e accom­

pagnandole con un vago sorriso trionfale — la bellezza è sempre un mistero; guardi ,, e accostò a una lampada la preziosa, ri­

lucente materia.

Era una statuina di porcellana di Capodimonte, una piccola V enere, sorgente dalla divina conchiglia. Le valve del fatale gineceo erano dischiuse mollemente, come pel potere arcano di un letargo, e riposavano, lente, su un letto d’alghe, baciate dal flutto spumeggiante del mare. L a casta nudità nivea della dea era sottilmente suffusa di porpora carnicina, un color lieve, dol­

cissimo, vanescente, armonizzato col tenue riflesso aurino della conchiglia crinata e col verde glauco tenerissimo delle soffici fronde marine.

L a luce calda del lume filtrava, come onda vitale, attraverso quel gelido plasma quasi vitreo, e mesceva mirabilmente lo splen­

dore acuto dei rilievi con le ombre incerte delle curve profonde.

Quelle gentili forme muliebri erano modellate con una squisitezza e una grazia antica, con sapore ambiguo d’arte classica e ita ­ liana del quattrocento, e rievocano, ora, le greche baldanzose purezze delle figurine di T ànagra, dalle rosee membra, impri­

gionate nelle armiile d’oro ed emergenti dai disciolti pepli az­

zurrini, ora, le ingenue, trepidanti inflessioni corporee delle V e­

neri botticelliane. L a fragilità della sostanza, la volubilità femminile dello stile del tempo, che tutto inquinava e rammolliva, erano scomparse del tutto in quel felice sforzo supremo di un’arte imitativa.

“ Questa statuina è una gemma — dissi, riponendola nelle mani protese della donna gentile, radiante di beatitudine.

“ L ’ho acquistata stamani, e non la darei, veda, neppure in cambio di un vezzo di perle. Peccato che non abbia marca.

Non porta il giglio azzurro?

“ No.

“ Non il giglio incusso, o roseo, o dorato?

“ Nè il giglio, nè altro.

Ebbene che importa? l’atto di nascita sta impresso nella pasta. Si figuri che il giglio vi sia, e la sua piccola Venere è bell’ e battezzata.

“ E non potrebbe esservi invece l'en n e con la corona?

“ No, davvero. Ella invilisce il suo piccolo tesoro. Se por­

tasse l'enne sarebbe, si figuri, una p a sta du ra ferdinandea, e in­

vece la sua statuina è un C arlo terzo autentico, una p a sta ten era della più bell’acqua.

D E C O R A T I V A E I N D U S T R I A L E 9 9

“ Scusi... che cosa è una p a sta ten era ? che cosa è una pasta d u ra ?

La mia interlocutrice ed io stavamo a sedere, una di faccia all’altro, in due comode, soffici poltrone, arrotolando sbadatamente fra le dita una sigaretta orientale. Il salotto era ancora deserto:

tutto intorno era pace. Dall’ampio cappello del lume effondevasi una luce incerta, come di ambra semi-amorfa, sulle seriche pa­

reti listate di fascie alterne, lucide e opache, di un grigio caldo indefinito. Diifondevasi la luce sul terso pavimento di marmo candidissimo, che rispecchiava, come un vetro latteo, i rastre­

mati, acuti piedi quadrangolari dei rigidi mobili, dalle bianche inquadrature lumeggiate di oro cedrino, e ridestanti i fasti orna­

mentali del primo Impero.

Era un’ora cheta di una dolcissima notte stellata, una di quelle ore in cui le sopite facoltà dello spirito si agitano a una minima occasione e si ridestano tutte, uniformandosi alla guida della volontà sonnolenta, come le mattutine nebbie autunnali assorgono dal fondo delle valli brune verso le vette rosee dei monti e seguono, lente, il corso dell’aria sublime commossa dal primo bacio del sole oriente.

Le sigarette bruciavano fra le dita inconscie, e lasciavano scaturire una sottil vena spirale di fumo azzurrino, librantesi quindi nello spazio, ed effondendovi un odor grato di resina asiatica. Io pensavo.... — aspirando il fumo dolce —... pensavo alla comune origine orientale di quella essenza resinosa e della materia che doveva formare il tema della piccola conferenza storico-tecnica...

pensavo alla precedente domanda dell’amico assente, mossa da un sano appetito di erudizione, e alla curiosità fuggitiva dell’a­ sul fondo immacolato della tela.

“ Principessa — io dissi, con l’accento di chi soggiace femminili quando essa lampeggia alla luce dell’intelletto. „

E parlammo delle allora trascorse feste popolari, dei vaganti battelli radiosi, del mirabile scintillio delle fiammelle elettriche ricingenti i larghi fianchi formidabili, le immani torri, le valide antenne superbe dei nostri gravi navigli di acciaio. Parlammo della magica flora pirotecnica, dischiusasi, in repenti baleni, fra il cielo e il mare del nostro divin golfo, il quale era lì, al tardo lume della immininente falce lunare, disteso davanti ai nostri occhi estatici, come una sognata visione olimpica, ampio, sereno, im­ conchiglie iridescenti dei molluschi, e dei tentacoli fosforici dei medusiarii, e dei lapidei rami corallini degli antozòi, fragile, dia­ vita rigogliosa, e crebbe, quindi, con tal vigore, che al mille dell’èra cristiana, circa cinquecento anni prima che si lavorasse la buona maiolica europea, la sola contrada di King-te-schin (lo Staff ord- schire della moderna Inghilterra) contava già tremila fornaci da porcellana e un milione di lavoratori. Nel 1518 i portoghesi, che, un anno avanti, avevano scoperto le coste del grande Impero Asiatico, portarono in Europa la porcellana cinese. Si vuole, anzi, che il nome porcella n a (in cinese tfe-k i) venga dal portoghese p orcella n a o p orcola n a che vuol dire stoviglia. Altri vorrebbero far risalire la introduzione della porcellana in Europa al tempo della dominazione bisantina, quando a Damasco erano importati i prodotti industriali del più lontano Oriente.

La porcellana è fatta a base di una materia naturale —

ratteri chimici, minerologici e geologici? L a risposta sarebbe dif­

ficile e lunga. Ci basti sapere ch’ è una materia silicea molto

gonia terrestre. Una, anzi, proviene dal secolare, intimo disfaci­

mento dell’altra, in virtù di un lavoro assiduo, costante, di forze occulte, operanti nel tempo e nell’ambiente, e del quale la scienza non conosce, per ora, se non gli effetti sensibili all’analisi chimica.

La comunità dell’origine e la disparità dei caratteri concesse all’uomo di riunire ciò che la natura avea diviso.

L ’elemento feldspatico, sensibile, fusibile, vetrificabile al fuoco, indusse nel reluttante kaolino la virtù di semi-fondersi, di semi- vetrifi carsi, d’onde quel singolarissimo carattere fisico che distingue la porcellana da ogni altra specie di ceramica più ad essa affine:

custodia della nuova e candida pasta ceramica. I cinesi, infatti, l’acqua una poltiglia lenta, come latte coagulante, v ’immergono dentro gli oggetti di pasta lavorata, disseccata, e appena insal­ vampeggia, e la candida suppellettile, divenuta vivida, abbaci­

nante come un disco solare, cuoce, cuoce ancora, sotto il lapideo flusso rovente che la ricopre e la penetra d’ ogni parte, chiaro, splendido, come puro cristallo di montagna.

L a fluidità del petunze può essere accresciuta, a grado, a g rado. s e g u e n d o un’armonica scala di differenze, come una progressione matematica, giusta la composizione della pasta e il grado vario della sua cottura, può essere accresciuta, dicevo, essa riveste, sono sempre dense, imporose, e soprattutto dure, dure così che difficilmente potrebbero intaccarsi con una aguzza punta di acciaio. Di qui il gran pregio tecnico della porcellana cinese, e di quella che più le somiglia, di qui il nome di p a sta dura.

Era il tempo in cui grandeggiava la maiolica italiana, pas­

sata in Francia coi quasi leggendarii fratelli Contardi. Urbino, Pesaro, Casteldurante, Faenza, Cafaggiolo, Gubbio, e anche a l­

cune nostre città meridionali, gareggiavano superbamente di v a­

lore e di grazia; superbamente il Duca Guidobaldo della Rovere offriva, in regai dono, all’imperatore Carlo Quinto — il più pos­

sente re della terra — un fastoso servito da tavola di maiolica metaurense, e la piccola Deruta mandava al tranquillo cielo umbro i bagliori vermigli delle sue sessanta fabbriche di maiolica stannifera dai vaghi riflessi cantaridini. Era quel tempo, quando la nuova ceramica orientale, con i suoi teneri fondi albicanti, solcati di rondini e di flessuose zone vermiglie o del glauco color del mare, ombreggiati di verdi bambuse, cosparsi di porpuree rose canine, di garofani cariofi lli, e di mostri natanti e volanti, ricinti d’oro, fra l’azzurra scrittura delle onde e delle nubi, diffondevasi per l ’Europa tutta, impegnando una lotta fratricida con la rude, e superba, e pur bella maiolica nostrana. L ’orna­

mento cinese dissolveva a poco a poco il gusto dei nodosi, le g ­ giadri meandri, venutici dagli Arabi e dai Mori di Spagna, e le palpitanti ritorte dei grotteschi, rinati fra noi dall’antica arte pit­

torica latina. E pure non bastava la penetrazione e la sovrappo­

sizione della nuova forma ceramica decorativa all’antica forma;

volevasi all’antica sostituire la materia nuova. I veneziani, sin da tempo remoto, aveano composto quel vetro candido, semi-opaco, cui ancora si serba il nome di lattice. A Firenze, nel secol d’oro stampa, della modellazione. Basta questa semplice notizia tecnica per distinguere la porcellana ten era dalla dura. Se è una miscela rispetto ai mutamenti termici dell’ambiente. Il loro matrimonio è di quelli che non ammettono disparità di caratteri e insofferenze di umori. A pasta tenera, tenerissima vernice. E allora, alla sabbia feldspatica, al fondente alcalino si è aggiunto il piombo, e la co­

perta dura e durabile della porcellana orientale, splendida dello splendore sodo, intenso, profondo delle agate pulimentate, si è mutata in una coperta piombifera, analoga al vetro, avente del vetro il luccicar superficiale, vivace, stridente, e, come il vetro, facile a incrinarsi con una punta aguzza di ferro temprato.

Questa porcellana tenera francese è detta a r tificia le, non so­

lamente per indicare la sua vera origine, ma altresì per distinguerla dalla porcellana tenera natu rale inglese. L ’Inghilterra, il paese classico per la terraglia (l’iron-stone-C hina) ha lavorata anch’essa la porcellana tenera. L ’antica porcellana di Chelsea del 1745, di cui la vita fu breve, e l’ altra, che, dal 1751 in poi, fu lavorata nella fabbrica reale di W orcester, erano fatte di argille bianche miste ad alcune roccie feldspatiche, fusibilissime per loro na­

tura, tanto fusibili da comporre una pasta vitrea e tenera quanto quella artificiale francese, e, come questa, venne coperta da una vernice piombifera, poco resistente all’acciaio. Ma torniamo di alcuni passi indietro negli anni, sino al 1709. Dalla Francia e dall’Inghilterra passiamo in Germania, penetriamo nell’oscuro laboratorio di un alchimista: Giovanni Federico Bottiger, il quale ha abbandonato i cari crogiuoli, covanti il segreto della pietra affondava le zampe in una terra bianca, saponacea, attaccaticcia, dalla quale il veloce animale si discioglieva a fatica. Schnorr la

D E C O R A T I V A E I N D U S T R I A L E 101 Vi si lavorava nel più profondo mistero, tutto intorno era muto,

deserto, le sentinelle vigilavano, i ponti levatoi si abbassavano solamente nel silenzio della notte, ed era minacciato del carcere cose che somiglia al diffondersi delle fiamme, al multiplicarsi della vita sotto l’impulso della giovinezza e della forza, derivarono successivamente la fabbrica del Gelz a Magonza, quella di Brun­

swick, di Franckental, di Nynphenbourg, di Ludwisbourg e le altre della Svizzera e del basso Reno, sino a quella di Berlino che menò tanta fama di sè verso il 1763.

Anche la Russia ebbe la sua fabbrica di porcellana, fondata dalla Imperatrice Elisabetta, presso San Pietroburgo, nel 1756, ed altre fabbriche erano nella Turingia, altre in Danimarca e nei Paesi Bassi, quando in Italia la piccola Toscana, quasi riannodando l’antica tradizione medicea, vedea nascere a Doccia, nel 1735, modesta, trepidante, la manifattura Ginori, ove ora di­ Vinovo, presso Torino, nel Napoletano quella di Capodimonte, fondata da Re Carlo III nel 1743, ed altre minori, qua e là, nella Toscana e nel Veneto. Per verità le tre maggiori fabbriche italiane non possono considerarsi come scaturite dalla grande sorgente tedesca. Le prime terre adoperate dal Ginori erano semplici argille bianche del Vicentino (kaolino di Schio o terra di Vicenza come ora chiamansi, o terra di Venezia, come chia- mavansi dalle nostre fabbriche napoletane del principio del secolo), argille bianche e non già vero kaolino da porcellana, come quello proveniente, in Sassonia, dalla caolinizzazione del granito. La fabbrica di Vinovo adoperava le terre magnesifere di Borgo- tradizioni della bella industria nostrana, vissuta pomposamente fra le ombre boschive del lieto colle regale. — Solo quando il figliuolo, Ferdinando IV, restituì alla città nostra l’onore d’una Reale Manifattura ceramica, Napoli cominciò a lavorare, prima a Portici, poi nel palazzo accosto alla R eggia, ora distrutto, quella porcellana dura segnata con l'N e la corona, decaduta poi ed estinta al tempo della dominazione francese: ibrida specie cera­

mica, fatta in parte con kaolino di Sassonia, in parte con terre turchese, del crisolito, del diaspro, della malachita, della corna­

lina, la Francia, dicevo, fu solo spettatrice del nuovo e grande movimento ceramico europeo, sin presso al 1 7 7 0, quando un caso, poco dissimile da quello di Bottiger, fece scoprire il kaolino a St-Jrieux da una povera Madame Darnet e dall’umile farmacista Villaris.

mentare dalle larghe fauci di quattro aspiratori.

* del tecnico la porcellana cinese, madre della europea, non somiglia punto alla figliuola, nè per la tinta, nè pei caratteri fisici della pasta e della vernice, nè pei rapporti che passano fra questa e i colori degli ornamenti. Sì, anche i colori hanno legami occulti con la coperta vitrea della pasta, e dalla natura fisico-chimica di quei legami nascono profonde differenze tecniche e aspetti ar­

tistici variabilissimi tra porcellana e porcellana. I colori ceramici, fatti per resistere ad alte temperature, non possono esser tratti altro che dal regno minerale. Sono infatti ossidi metallici, ridotti a vetri colorati e coloranti, onde il nome di colori vetrifica b ili. della prima differenza si capisce facilmente, l’altra non potrebbe intendersi senza sapere che la porcellana orientale, considerata come dura rispetto alla nostra pasta tenera, è però assai meno’ pasta dura europea, dalla schietta coperta feldspatica? Pochis­

simi : l’azzurro di cobalto, il verde di cromo, il giallo di titanio, alle altezze termiche della vernice feldspatica, ebbene, facciamo che la superba vernice pieghi alla sola carezza del colore il candido corpo inconquistabile. E i colori furono mescolati a fondenti fusibilissimi, e così applicati, fusibilissimi a tanto povero fuoco da riuscir questo inefficace a commuovere la superficie della vernice, cui riesce indifferente quanto un bagno di sole o di acqua in bollore. Non penetrazione corporea, dunque, fra colore e vernice, non dissoluzioni termiche, non ricambii chimici, non sdoppiamenti e ricomponimenti molecolari, ma semplice aderenza fisica, semplice sovrapposizione per mezzo di un mastice vitreo, sensibile al calore di poche centinaia di gradi. Così furono di­

pinte le porcellane di Sassonia, di Vienna, di Berlino, le por­ minute squisitezze degli antichi alluminati, e ha trionfato della più fine arte della miniatura del suo stesso tempo, fra una festa di fiori, di corone, di nastri, di frutta, di uccelli, di amorini, di farfalle variopinte, e di carnali nudità procaci. Per essa, l ’umile copista paziente conquistò rinomanza quasi di artefice, riprodu­

cendo, con l’aguzza punta del pennello servile, sulle curve delle coppe e dei vasi, nei fondi dei vassoi, o sul piano vetroso delle tegole, ora un quadro di Ténier e di Van Oostade, ora le im­

mortali rappresentazioni pittoriche di Raffaello, del Correggio e del Domenichino. Tutto possiede, dunque, questa fortunosa e for­

tunata tecnica di pittura ornamentale e industriale, tutto, meno la saldezza e la durabilità (specialmente se l’oggetto ornato è un oggetto di uso quotidiano), meno, inoltre, quella fluida mescolanza di pa rti che l’occhio sente scaturire dal profondo della materia

trebbe assomigliarsi a una pianta dalle saldi radici, dall’incrolla­

bile fusto, dai poderosi rami intricati e sfidanti le tempeste,

cui una raffica di vento basta a spogliare delle vaghe foglie c a ­ duche. L a pasta tenera invece, con i suoi teneri colori, la maio­

lica, superba delle sue tinte, determinate di numero, ma intere, ma vigorose e profonde, potrebbero paragonarsi, una, al docile ulivo dalla persistente chioma argentina, alla palma fenicia, l’altra, ondeggiante, sul nudo tronco secolare, la sempre verde gloria del

tezze, i capricci e le insinuanti graziosità, ne supera indubbiamente le grazie e la gentilezza. Certo non a un proposito deliberato del pittore Caselli (il primo direttore artistico della nostra R eal Fabbrica), non ai consigli del chimico Livio Ottaviano Schepers (primo direttore tecnico), non al gusto magnifico di R e Carlo, recante qui in Napoli le supreme pompe del trono spagnuolo, non all’indole artistica del tempo, ancora pregna delle esuberanze del barocco (benché cominciassero a essere in voga le nuove teorie critiche del Winckelmann, inculcanti lo studio dei classici e il ritorno alla greca misura della forma), non, infine, al bisogno di dare alla nostra novella produzione un carattere proprio, ca­

pace di distinguerla dalle altre, e specialmente dalla suppellettile di Sassonia, portata qui dalla R egina M aria Amalia W alburga col suo ricco corredo di nozze, devesi l’avere assunto, la nostra prima porcellana, quel senso di aggraziata timidità, starei quasi per dire, di pudore ornamentale, in cui si asconde il segreto

DIPINTI ORNAMENTALI NELL’ORATORIO DEGLI SCROVEGNI

Nel documento IT A L IA N A (pagine 102-106)