Ogni indagine sulle responsabilità penali derivanti dall’omesso impedimento dei reati – sia quella in concreto che si svolge nei tribu- nali, sia quella in astratto sviluppata dalla dottrina penalistica198 – deve
“fare i conti” con la nozione di «posizione di garanzia». La prima ela- borazione di tale concetto si deve alla dottrina tedesca che, anterior-
198 A seguito della riforma del diritto societario del 2003 (sui cui cfr. supra, cap. 1,
§2.3) sono stati pubblicati svariati studi monografici sul problema della responsabili- tà dei controlli societari. In particolare cfr. N. PISANI, Controlli sindacali e responsa-
bilità penale nelle società per azioni: posizioni di garanzia societaria e poteri giuri- dici di impedimento, Giuffrè, Milano, 2003; F. CENTONZE, Controlli societari e re-
sponsabilità penale, cit., A. NISCO, Controlli sul mercato finanziario e responsabilità
penale. Posizioni di garanzia e tutela del risparmio, Bononia University Press, Bolo-
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mente al 1975, doveva risolvere il problema della punibilità delle c.d. omissioni improprie199: non trovando esse un’esplicita regolamenta- zione nel codice tedesco di allora, se ne era riconosciuta la tipicità as- similandole alle fattispecie commissive corrispondenti, sul presuppo- sto, ipotizzato da un’impostazione teorica che è andata consolidandosi e che ha trovato anche una traduzione normativa200, che l’omittente fosse titolare di una posizione peculiare, quella del “garante” (in tede- sco Garantenstellung), che in quel contesto fondava l’attesa di una sua attivazione. Le stesse teorie venivano recepite dalla dottrina italiana a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, nel tentativo di spiegare e cir- coscrivere la clausola di equivalenza, notoriamente indeterminata, dell’art. 40 comma 2, c.p.201.
199 Una distinzione fra reato omissivo proprio e improprio si deve per primo a H. LU- DEN (Abhandlungen aus dem gemeinen teutschen Strafrechte, II, Göttingen, 1840, p. 219), secondo cui il primo tipo di omissione si sostanzierebbe nella lesione di una
norma di comando e andrebbe distinta dai casi in cui sarebbe violata, al contrario,
una norma di divieto (il “divieto di causare un evento”): questa seconda tipologia, sarebbe allora una forma di delitto commissivo “mediante omissione” e perciò non una vera e propria omissione (da cui la definizione di unechte, cioè «impropria»). La teoria è stata abbandonata sulla base della considerazione che anche l’omesso impe- dimento costituisce la violazione di una norma di comando (di attivarsi per l’impedimento) e non di divieto. Degli altri criteri distintivi proposti si segnalano, in quanto seguiti anche dalla dottrina italiana: quello che si basa sulla struttura della
fattispecie e cioè sulla circostanza che il reato omissivo proprio si esaurisce nel man-
cato compimento di un’azione comandata, mentre in quello improprio, la realizza- zione dell’evento appartiene alla fattispecie, consistendo la condotta proprio nel mancato impedimento dello stesso (cfr. H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, All- gemeneir Teil, Duncker & Homblot, p. Berlin, 1978, 491 ss., prevalente in Italia, ad es. F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, Padova, 2017, pp. 129-130); quello che fa leva sulle modalità di tipizzazione della condotta, per cui i reati omissivi propri sono espressamente regolati nella parte speciale, mentre i reati omissivi impropri sono sanzionati da una clausola generale (ARM.KAUFFMAN, Die Dogmatik der Unterlas-
sungsdelikte, Otto Schwartz, Gottingen, 1959, p. 239 ss., e in Italia, G. GRASSO, Il
reato omissivo improprio, Giuffrè, Milano, 1983, p. 9 ss.).
200 Con la c.d. seconda riforma del codice penale tedesco è stata introdotto nel 1975 il
§13 del StGB (intitolato «Begehen durch Unterlassen», cioè «Commissione mediante omissione»). Non dissimilmente dall’art. 40, comma 2, c.p. italiano (cfr. nt. succ.), tale disposizione afferma innanzitutto l’equiparazione fra omesso impedimento e la sua causazione, ma, in più, la subordina anche alle condizioni che l’omittente debba garantire la non verificazione dell’evento (così dando validità normativa alle teorie sulla posizione di garanzia) e che l’omissione corrisponda alla realizzazione di un’azione della fattispecie legale. Cfr. G.GRASSO, op. ult. cit., p. 15 ss., spec. 27 ss. Per l’orientamento dottrinale in questione, cfr. infra, §1.1.
201 L’art. 40, comma 2, c.p. dispone che «Non impedire un evento che si ha l'obbligo
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Pur essendo ormai acquisita stabilmente dalla nostra giurispru- denza202, questa figura di creazione dottrinale soffre di notevoli incer- tezze, principalmente dovute all’assenza di una precisa definizione normativa203. Eppure, l’enucleazione dei suoi contenuti ha l’effetto di estendere o restringere la rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento (cfr., infra, §1.2): lasciare il precetto penale all’opera della dottrina, filtrata e stilizzata nelle pronunce giurisprudenziali, conduce alla preoccupante ma scontata conclusione che i confini della liceità dell’omissione siano affetti da una congenita vaghezza. Si mettono, co- sì, a rischio i più basilari corollari del principio di legalità nell’intervento penale, se, come sembrerebbe, l’assenza di azione – l’«inerzia» – può comportare conseguenze penali non del tutto preve- dibili.
1.1. Dalla teoria “formale” alla teoria “funzionale”.
In termini generali, la necessità di invocare una “posizione di garanzia” si lega all’equivalenza fra «cagionare» e «non impedire l’evento», che nel caso italiano è garantita dalla clausola contenuta nel citato art. 40, comma 2, c.p.204, e alla constatazione che tale equiva-
lenza non costituisce la traduzione normativa di ciò che è osservabile nella realtà: l’omissione, secondo un consolidato indirizzo, non causa naturalisticamente alcunché, in quanto è elemento privo di un’estrinsecazione materiale e quindi incapace di incidere sui processi
202 Per le prime sentenze che hanno aperto al riconoscimento espresso della «posizio-
ne di garanzia» sono da segnalare, Cass. Pen., sez. IV, 20 aprile 1983, n. 9176, in
Riv. it. medicina legale, 1984, p. 480 e, per importanza e completezza, Cass. Pen.,
sez. IV, 6 dicembre 1990, n. 4793 in Foro it. 1992, 2, 36. Per lo “stato dell’arte” in giurisprudenza sul tema delle posizioni di garanzia A. GARGANI, Le posizioni di ga- ranzia (Percorsi di giurisprudenza), in Giur. it., 2016, 1, p. 214 ss.
203 Tant’è che si era pensato di darvi consistenza normativa nei progetti di riforma del
Codice penale comunemente noti come “Progetto Pagliaro” e “Progetto Grosso”, cfr. rispettivamente l’art. 11 dello Schema di legge delega legislativa per l’emanazione di
un nuovo codice penale” (pubblicato in Ind. Pen., 1992, p. 579 ss.) e, ancora più
chiaramente, l’art. 16 dell’Articolato approvato dalla Commissione Ministeriale per
la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001 (reperibile in www.giustizia.it).
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causali205. In teorie più risalenti, a dire il vero, si era sostenuto che l’omissione avesse una propria dimensione naturalistica206, con tutte le
difficoltà che ne derivavano in ordine all’affermazione del nesso di causalità, ma è oggi indiscusso – nella dottrina italiana a partire dal Grispigni – che la natura dell’omissione sia squisitamente normativa e che essa consista nel «mancato compimento, da parte di un soggetto, di una determinata azione che era da attendersi in base a una norma»207.
Ecco, in base alla disposizione in esame, non ogni inerzia, non ogni mero non facere al cospetto di un evento, viene ad essere conside- rato un’omissione equivalente alla causazione dello stesso: se per par- lare di “omissione” occorre che vi fosse una condotta attesa dall’ordinamento rimasta inattuata, perché l’omissione sia equiparata normativamente alla causazione dall’art. 40 cpv. c.p. l’inadempimento deve riguardare segnatamente un «obbligo di impedire l’evento» di cui alla fattispecie di parte speciale. Così, si capisce che l’identificazione della condotta omissiva esige una precisa delineazione dell’«obbligo giuridico di impedire»: la dottrina italiana ha rintracciato, per questo scopo, un terreno fertile nella figura del “garante” che, nel frattempo, era stata elaborata dalla letteratura di lingua tedesca.
Si potrebbe dire, infatti, che i limiti che presentava una lettura “piana” dell’art. 40 cpv. fossero gli stessi che tale dottrina tedesca op- poneva alla teoria “formale” dell’obbligo giuridico di impedire208, che
205 Per un’incisiva spiegazione di questo assunto T. PADOVANI, Diritto penale, Giuf-
frè, Milano, 2012, p. 136.
206 Si allude alla teoria dell’«azione interiore», secondo la quale l’omissione sarebbe
costituita dallo sforzo compiuto dal soggetto per trattenere i nervi motori (E. BE- LING, Grundzüge des Strafrechts, Mohr, Tübingen, 1925) e alla teoria dell’«aliud agere», per cui l’omissione si sostanzierebbe nella condotta tenuta nella realtà (natu-
ralisticamente apprezzabile) e diversa da quanto prescritto dal comando normativo (H. LUDEN,op. ult. cit., p. 250 e ss; in Italia era sostenuta da E. MASSARI,Il momento esecutivo del reato, F. Mariotti, Pisa, 1923, p. 55 ss.). Per una breve sintesi, G. FIAN- DACA, Omissione (diritto penale), in Dig. disc. pen., VIII, 1994, p. 545 ss.
207 Così, fra i primi in Italia, F. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, II, Giuffrè, Mila-
no, 1947, p. 34. Nella dottrina tedesca, la tesi era consolidata da tempo (cfr. F. VON
LISZT, Lehrbuch des Deutschen Strafrechts, Guttentag, Berlin-Leipzig, 1884, p. 116).
208 La teoria nasceva sulla base dell’assunto, di ispirazione liberale, che il cittadino
non potesse essere chiamato a rispondere delle omissioni che in via d’eccezione, nei casi in cui il legislatore l’avesse richiesto espressamente. La teoria si fa risalire alle
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difatti si ritiene aver ispirato la disposizione italiana in commento209. L’assunto fondamentale della teoria formale può essere compendiato nell’affermazione che nessuna omissione è punibile se non vi è alla ba- se un uno specifico fondamento normativo; tuttavia, una volta che esso sia stato individuato, altri presupposti non necessitano di venire in ri- lievo: un riferimento giuridico-formale alla base dell’obbligo impediti- vo si pone, cioè, come condizione necessaria e sufficiente per fondare la punibilità dell’omesso impedimento. L’art. 40 cpv. dispone, in effet- ti, che si riscontri niente più di un «obbligo giuridico di impedire».
In contrasto con questo assunto, prenderà corpo nella dottrina tedesca la teoria “funzionale”210, che postula la necessità di un ricono- scimento in capo all’obbligato della «posizione di garanzia», cioè, in via di prima approssimazione, di un vincolo che grava sul soggetto a protezione di un determinato bene o interesse211. Si aggiunge sin d’ora
che, quanto ai contenuti, l’obbligo di garanzia dovrebbe ritenersi tale solo se il garante è anche munito dei «necessari poteri giuridici di vigi-
affermazioni di questo tenore di A. FEUERBACH (Lehrbuch des gemeinen in Deu-
tschland geltenden peinlichen Rechts, Heyer, Giessen, 1805, §24-25) ed è conferma-
ta, in buona sostanza, dalla dottrina tedesca maggioritaria di inizio XX secolo (ad es. L. TRAEGER, Das problem der Unterlassungsdelikte im Straf- und Zivilrecht, in
Festgaben fur Enneccerus, Elwert, Marburg, 1913, p. 79 ss.). In Italia è stata per de-
cenni, prima dell’avvento della teoria funzionale, la teoria dominante, cfr. ad es., F. GRISPIGNI, op. ult. cit., p. 54 ss.
209 È affermazione comune che la formulazione dell’art. 40 cpv. rappresenti la tradu-
zione letterale di una proposizione tratta da F. VON LISZT (op. ult. cit., 20 ed., Berlin, 1914, p. 138), in cui si legge: «Solo quando sussiste un obbligo giuridico di impedi- mento dell’evento, il non impedimento dell’evento è equiparato alla sua causazione». Cfr. ad es. G. GRASSO, op. cit., p. 101.
210 Pur esistendo già in Germania opere che riconoscevano importanza alla figura del
“garante”, la teoria “funzionale” prende le mosse innanzitutto a partire dal lavoro di J. NAGLER, Die problematik der Begehung durch Unterlassen, in Der Gerichtssaal, 111(1), 1938, p. 1 ss., che dà centralità alla «speciale posizione di doverosità, in forza della quale l’obbligato è posto in una relazione, socialmente rilevante e con l’esigenza di protezione del valore tutelato» (p. 53). L’autore fa ricorso alla figura del “garante” per trovare un “termine medio” fra azione e omissione, così da rinvenire la conformità dell’omissione alla fattispecie commissiva. Successivamente, come anche nella dottrina italiana (cfr. infra, §1.2 e nt. 232), verrà riconosciuta l’autonomia della fattispecie omissiva impropria da quella propria (ARM.KAUFMANN, op. ult. cit., p. 251 ss.).
211 È la definizione (all’incirca) fornita da F. SGUBBI, Responsabilità penale per
omesso impedimento dell’evento, Cedam, Padova, 1975, p. 234, primo autore in Italia
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lare e di intervenire direttamente sulla situazione di pericolo per impe- dire gli eventi lesivi degli altrui beni»212.
Già in base a questi brevi cenni si può notare, comunque, come l’apertura ad una concezione funzionale valorizzi una visione “sostan- zialistica” della ricerca delle fonti dell’obbligo di impedire: l’indagine non si lega più strettamente all’individuazione di puntuali obblighi formali nascenti da un atto produttivo di diritto, ma guarda alla posi- zione del soggetto e alle sue relazioni con altri individui e con beni giuridici bisognosi di protezione – vedremo, cioè, ai doveri e ai poteri del “garante” – che rappresentano l’insieme dei fatti che descrivono l’esistenza della posizione stessa.
Da un altro punto di vista, il riferimento ad una funzione socia- le dell’obbligo è capace anche di spiegare il perché dell’equivalenza: il garante riveste una posizione qualificata, che lo vincola alla tutela del bene affidatogli verso i pericoli rappresentati dalle forze naturali o dal- le condotte di terzi; egli avrebbe dovuto, e potuto, attivarsi per impedi- re la lesione del bene, ma è rimasto inerte.
Gli aspetti che si sono poc’anzi accennati, cioè le fonti dell’obbligo e la spiegazione delle ragioni del fenomeno della respon- sabilità penale per omesso impedimento dell’evento, rappresentavano, in effetti, i momenti teorici di maggiore criticità della concezione for- male.
Quanto alle fonti, veniva da chiedersi cosa dovesse accadere, seguendo la teoria formale, nel caso in cui, per esempio, l’obbligo im- peditivo avesse trovato la sua fonte in un atto negoziale poi riconosciu- to invalido213. O ancora quando, pur essendo l’atto valido ed efficace, non fosse ancora stato affidato in concreto un bene da proteggere al
212 Così I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorve-
glianza, Giappichelli, Torino, 1999, p. 79.
213 L’esempio classico è quello del casellante ferroviario che eccepisce la mancanza
di requisiti essenziali per l’atto di nomina in servizio al fine di sottrarsi da una con- danna per un reato omissivo nell’esercizio delle proprie funzioni, ad es. l’omicidio colposo dovuto ad un deragliamento evitabile (cfr. F. SGUBBI, op. ult. cit., p. 127 nt. 14).
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soggetto214. In entrambi i casi il “formalismo” verrebbe a tradursi in esiti insoddisfacenti: nella prima situazione non vi sarebbero responsa- bilità, essendo venuto meno l’obbligo giuridico, anche se in concreto ci si era assunti l’impegno a proteggere il bene; nella seconda, al contra- rio, si incriminerebbe l’omesso impedimento di chi, in realtà, non ave- va ancora ricevuto in affidamento un bene da tutelare. Ma se a queste perplessità si potevano tentare rimedi215, si pensi allora alla difficoltà di arginare la nozione di fonte “giuridica”: si tratta di un concetto tanto labile che la dottrina della teoria formale ha giustificato obblighi na- scenti dalla consuetudine, dall’assunzione volontaria di un obbligo (in- vocando la privatistica negotiorum gestio), o addirittura dalla “prece- dente attività pericolosa”216, così svilendo, di fatto, il requisito della
necessaria giuridicità formale dell’atto produttivo dell’obbligo.
Al profilo delle fonti si collega, poi, quello delle “ragioni” della responsabilità, che, abbiamo visto, trovano spiegazione nella conce- zione funzionale, ma non sono altrettanto limpide in una lettura mera- mente formale dell’equivalenza. Perché un obbligo giuridico di impe- dire rimasto inadempiuto dovrebbe equivalere a cagionare? Se un’omissione non può causare fisicamente alcunché, è difficile chiarire perché l’inosservanza degli obblighi di impedire sottesi all’omissione possa equivalere a cagionare un evento e, dunque, perché obblighi di agire extra-penali debbano essere trasformati in obblighi di impedire sanzionati penalmente. Non bisogna trascurare, invece, che i primi na- scono in altre branche dell’ordinamento per rispondere ad esigenze di
214 Si cita spesso, in proposito, la situazione della baby-sitter, assunta dai genitori per
vigilare sull’incolumità del figlio in loro assenza, che non si presenta a casa all’orario stabilito, quando invece i genitori, confidando nella sua puntualità, già si erano allon- tanati dall’abitazione (cfr. I. LEONCINI, op. ult. cit., p. 186).
215 Ad esempio, il primo caso era risolto dalla teoria formale con il richiamo
all’istituto privatistico della negotiorum gestio.
216 Ciò significa che colui che cagionava una situazione di pericolo per un bene giuri-
dico risultava poi obbligato ad impedire le conseguenze dannose del proprio agire, rispondendo di omesso impedimento. Concezione molto diffusa nella teorie formali in Germania (a partire da C. STÜBEL, Ueber die Theilnahme mehrerer Personen an
einem Verbrechen, Hilscher, Dresden, 1828, p. 58), in Italia, pur avendo avuto un pe-
riodo di seguito in dottrina (cfr. ad es, F. GRISPIGNI, op. ult. cit., p. 55) viene negata, nella sua validità, da quella più recente (per tutti, G. GRASSO, op. ult. cit., p. 277 ss.).
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tutela diverse da quelle del diritto penale e che sono già dotati, di per sé, di proprie conseguenze (i.e., sanzioni) coerenti in quel sistema di norme217: se una loro conversione fosse automatica, l’intervento penale assumerebbe le sembianze di un semplice inasprimento delle sanzioni dell’obbligo extra-penale, rinunciando, nei fatti, ad una propria auto- noma valutazione della violazione del diritto altrui. Non solo, un’equivalenza formalistica non può chiarire la distinzione fra un qual- siasi obbligo di agire e un vero e proprio obbligo di “impedire”: un me- ro riferimento alla fonte non è capace di operare una selezione degli obblighi rilevanti per l’impedimento, lasciando vuoto lo spazio concet- tuale che esiste fra un qualsiasi obbligo di “agire” e un vero e proprio obbligo di “impedire”218.
Le considerazioni appena sintetizzate, insieme ai mutamenti culturali che hanno svalutato l’individualismo liberale in favore dei va- lori del «solidarismo» e del «collettivismo» (nell’ambito tedesco, an- che quelli del nazionalsocialismo)219, hanno suggerito un cambio di
prospettiva che riportasse al centro la dimensione funzionale e materia- le della responsabilità omissiva e che ponesse, perciò, l’accento sul ruolo che l’individuo assume nella dimensione sociale: talvolta è, ap- punto, quello di garantire la tutela di un bene o un interesse dal verifi- carsi di situazioni lesive. In effetti, l’omissione ha di per sé una sua na- tura relazionale, se è vero che, in sostanza, consiste nella frustrazione dell’aspettativa di un comportamento dovuto220: la “ragione” di una re-
sponsabilità penale omissiva ben si comprende se all’aspettativa collet- tiva di tutela di quei beni o interessi particolarmente vulnerabili non è
217 Così G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè, Milano,
1979, p. 13 nt. 20; 27 ss.; 85 ss.
218 La critica rappresenta il leitmotiv dell’opera di I. LEONCINI, op. ult. cit., passim. 219 Sulla connessione fra costruzioni dogmatiche sull’omissione e i principi etico-
sociali propri della retorica nazionalsocialista F. SGUBBI, op. ult. cit., p. 7 ss., 40 ss.
220 Scrive G. FIANDACA, spiegando la definizione di omissione del Grispigni (citata
supra, nt. 207): «L’omissione assume significato […] in un’ottica socio-normativa;
essa presuppone un rapporto “interazionistico” tra soggetti» G. FIANDACA, Omissio-
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corrisposto l’intervento di chi era chiamato, in virtù della posizione che nei fatti rivestiva, alla loro concreta protezione.
Ragionando in questi termini, tuttavia, può finire per perdere di rilevanza decisiva la precisa individuazione di una fonte giuridico- formale dell’obbligo di impedire (che potrebbe, perciò, anche manca- re), per acquistarne, invece, quella di concetti più elastici come l’«affidamento di un bene», l’«assunzione di un ruolo» e, in definitiva, i presupposti della «posizione di garanzia». In questo senso, sulla scor- ta di un orientamento tedesco, autorevole dottrina italiana (Fiandaca) ha ritenuto che il dato qualificante dell’obbligo di impedire fosse da individuarsi nella «signoria su alcune delle condizioni essenziali del verificarsi dell’evento tipico», svalutando, con ciò, la giuridicità for- male suggerita dalla lettura dell’art. 40 cpv.221.
Senonché, il solo riferimento a categorie sostanziali, “realisti- che”, rappresenta un fondamento troppo poco determinato da cui far discendere responsabilità, a fortiori se penali. Una risposta alla do- manda «in che modo gli obblighi di garanzia vengono ad esistenza?» che si basi solo su considerazioni di natura sociologica, o sul mero ri- conoscimento di una “signoria sull’accaduto”, creerebbe senz’altro un grave vulnus ai principi di legalità e determinatezza che informano il nostro sistema penale. Al contempo, la rigidità della concezione forma- le portava con sé storture inaccettabili. Quale via, dunque, è quella pre- feribile?
1.2. La concezione “mista”. Riflessi dogmatici della posizione di ga-
ranzia.
Abbiamo appena constatato come entrambe le teorie (formale e funzionale), singolarmente considerate, comportino difetti difficilmen- te superabili se trapiantate direttamente nel nostro ordinamento.
221 G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, cit., p. 134 ss. e 162 ss.,
recependo la Herrschaftstheorie elaborata da B. SCHÜNEMANN (Grund und Grenzen