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Possibili funzioni della CFC Legislation

Gli studi elaborati in dottrina hanno condotto allo sviluppo di varie possibili ricostruzioni della funzione che tale normativa può rivestire64.

Secondo un primo orientamento, l’obiettivo perseguito dalle CFC rules è quello di contrastare il tax deferral, in modo da evitare il differimento a tempo indeterminato della tassazione del reddito.

La seconda ricostruzione, invece, ritiene che la finalità sia quella di impedire la fittizia localizzazione dei redditi prodotti, o comunque riferibili al soggetto residente, all’estero.

Altra parte della dottrina, invece, ritiene che sia necessario ricostruire la disciplina normativa in materia di CFC in chiave anti-interpositiva. Secondo tale approccio la società controllata estera sarebbe un soggetto meramente interposto ai fini elusivi e, in ragione di ciò, il reddito da esso prodotto viene considerato ascrivibile al soggetto residente.

Le CFC rules, inoltre, perseguono la finalità di contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile, in modo da garantire una protezione degli stati nei confronti dei paesi che operano una concorrenza fiscale dannosa.

64Bertorello, G. (2004). La disciplina CFC: principi generali e nuove prospettive di

applicazione. Rassegna Tributaria. 3:804; Cordeiro Guerra, R. (2000). Riflessioni critiche e spunti sistematici sulla introducenda disciplina delle controlled foreign companies (art. 127-bis del Tuir). Rassegna Tributaria. 5:1399; Dominici, R. (2003). Considerazioni sul regime delle CFC. Corriere Tributario. 38:3123; Dominici, R. (2004). Le innovazioni al regime delle CFC, in Aspetti Internazionali della Riforma Fiscale, a cura di Garbarino, C., collana Comparative and International Taxation. Kluwer Law editore, 365 e ss; Franzè, R. (2002). Il regime di imputazione dei redditi dei soggetti controllati non residenti (cd. "Controlled Foreign Companies Legislations"), in Corso di Diritto Tributario Internazionale, V. Uckmar (a cura di). CEDAM. Capitolo XXIV, 759 e ss; Nuzzolo, A. (2003). La disciplina CFC tra attività di controllo dell’amministrazione finanziaria e disapplicazione, alcuni spunti di riflessione anche alla luce del progetto di riforma della tassazione delle società. Il Fisco. 32:4995; Stevanato, D. (2000). Controlled Foreign Companies: concetto di controllo e imputazione del reddito. Rivista di Diritto Tributario. 7-8:777; Stevanato, D. (2002). La delega fiscale e la CFC Legislation. Il Fisco. 18:2730.

Capitolo 2

Introduzione della prima CFC

Legislation in Italia: L’art. 127-

bis del Testo Unico delle Imposte

sui Redditi

2.1 Ragioni alla base dell’introduzione della

normativa

Il sistema tributario italiano, nei primi anni del 2000, fu caratterizzato da riforme radicali, riguardanti principalmente le imposte dirette delle società. La globalizzazione e l’appartenenza all’Unione Europea resero necessario un allineamento alle normative dei paesi più avanzati, in modo da garantire una maggiore competitività dell’ordinamento italiano.

del 28 dicembre 2001, si mossero i primi passi verso la riforma in materia di tassazione dei redditi prodotti dalla società che, nel 2003, comportò l’introduzione dell’IRES.

Tale riforma, tra l’altro, introdusse degli istituti rilevanti sotto il profilo internazionale. Si pensi al regime opzionale del consolidato mondiale, rivolto ai gruppi di società transfrontalieri; alle norme in materia di thin capitalisation, participation exemption, e alla riformulazione del credito d’imposta.

All’interno di questo quadro rientra anche l’introduzione della normativa CFC. Il fenomeno della costituzione di società estere in paesi a fiscalità privilegiata da parte di soggetti residenti in paesi ad alta fiscalità, al fine di differire o ridurre il proprio carico fiscale, rappresentava, nell’ultimo decennio del 1900, una delle principali problematiche che il Governo italiano si trovava ad affrontare sotto il profilo tributario1.

In assenza di restrizioni alla circolazione dei capitali, l’elemento della localizzazione assume primaria importanza. La logica economica, infatti, è volta al raggiungimento del maggior rendimento a fronte dell’investimento, ciò anche in funzione della domanda dei consumatori e della disponibilità di manodopera ed infrastrutture. Per questi motivi la scelta del luogo di stabilimento è frutto di una scrupolosa valutazione che tiene conto, innegabilmente, anche degli aspetti fiscali da essa derivanti2.

Fino all’introduzione dell’art. 127- bis del Decreto del Presidente della

1Perlini, L., Pollari, N. (2001). Luci ed ombre delle recenti disposizioni fiscali interne a

portata ultraterritoriale: il nuovo art. 127-bis del TUIR. Il Fisco. 2:300.

2Compassi, A. (2005). Controlled foreign companies legislation: classificazione

e qualificazione dell’istituto. Rivista della scuola superiore dell’economia e delle finanze. Disponibile da http://www.rivista.ssef.it/www.rivista.ssef.it/sitee5e8. html?page=20050721071947452&edition=2005-07-01.

Repubblica 22 dicembre 1986, n. 9173, le uniche norme volte a contrastare la

localizzazione all’estero di società, motivate unicamente dal risparmio d’imposta, riguardavano l’indeducibilità di spese e altri componenti negativi del reddito di impresa, provenienti da paesi a fiscalità privilegiata4. Tali

norme, tuttavia, non produssero risultati apprezzabili sul piano della lotta all’erosione della base imponibile5.

Con la pubblicazione della Legge 21 novembre 2000, n. 342, si concluse il lungo iter parlamentare intrapreso con la presentazione del disegno di legge n. 4336 comunicato alla Presidenza il 15 novembre 1999, il cosiddetto collegato ordinamentale fiscale alla Legge Finanziaria per l’anno 2000. Tale provvedimento delineò importanti modifiche, la più innovativa delle quali fu l’introduzione dell’art. 127- bis del TUIR.

Rilevano, inoltre l’introduzione del comma 7- bis e 7- ter dell’art. 76 del TUIR, in tema di indeducibilità dal reddito d’impresa delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni tra imprese residenti e imprese domiciliate in stati o territori extracomunitari aventi un regime privilegiato, e l’abrogazione del comma 7 dell’art. 96- bis del TUIR, che impediva l’applicabilità del regime di esonero del 95% dei dividendi comunitari, in caso di società madri residenti in Italia, se controllate direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in stati dell’Unione Europea6.

3Testo unico delle imposte sui redditi, di seguito TUIR.

4Art. 76, commi 7-bis e 7-ter del TUIR, introdotti dall’art. 11 della legge 30 dicembre

1991, n. 413, e successive modificazioni.

5Disegno di legge presentato il 28 luglio 1999, n. 4185, in tema di Disposizioni antielusive

di carattere speciale per il contrasto all’elusione fiscale internazionale, 3.

6Circolare Assonime del 18 dicembre 2000, n.65 . Disponibile da http://www.diritto.

Dal Disegno di legge presentato il 28 luglio 1999, n. 4185, in tema di disposizioni antielusive di carattere speciale per il contrasto all’elusione fiscale internazionale, emerge che una delle ragioni giustificative poste alla base dell’introduzione della normativa CFC, fu quella di un riallineamento, da parte dell’Italia, ai paesi europei, e agli Stati Uniti, nel rispetto delle direttive OCSE e dell’Unione Europea7.

Come evidenziato nel rapporto OCSE in tema di Controlled Foreign Companies, già nel 1996 molti stati avevano adottato dei regimi CFC. Il Legislatore italiano, ai fini della formulazione della normativa, decise di ispirarsi al modello francese e a quello statunitense.

Il primo modello era caratterizzato, nella versione allora vigente, dall’individuazione dei paesi a regime privilegiato, ossia i paesi aventi un’aliquota fiscale effettiva inferiore ai due terzi dell’aliquota di imposta francese. Ai fini dell’applicabilità della normativa, il soggetto controllante doveva detenere almeno il 10% delle azioni o dei diritti di voto della società controllata localizzata in uno dei paesi individuati. Se tali requisiti venivano rispettati, il soggetto francese veniva tassato sull’utile della controllata estera, anche se non vi era stata un’effettiva ripartizione dei dividendi. Si prevedeva l’istituto del credito d’imposta per permettere la deducibilità delle imposte eventualmente già pagate all’estero. La normativa stabiliva, inoltre, che le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni non potessero pregiudicare l’applicazione della normativa.

7Si fa riferimento al Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, approvato

dal Consiglio Ecofin in data 1 dicembre 1998, in seno all’Unione Europea, disponibile da http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:31998Y0106(01), e al rapporto Harmful tax competition - An emerging global issue, approvato dall’OCSE in data 9 aprile 1998, disponibile da http://www.oecd-ilibrary.org/taxation/ harmful-tax-competition_9789264162945-en.

Come ampiamente esaminato nel capitolo primo, la normativa statunitense, invece, considera la realizzazione di determinate componenti reddituali, ritenute elusive.

L’approccio adottato dal legislatore italiano è stato criticato in dottrina, in quanto, non considerando le particolarità del sistema tributario italiano, si limita a seguire i modelli delineati dai paesi esteri e le direttive delle organizzazioni internazionali8.

L’abbandono di un sistema incentrato sulla tassazione dei dividendi una volta distribuiti, infatti, e l’adozione di una CFC legislation, in base alla quale si procede alla tassazione dei redditi prodotti dalla controllata, direttamente in capo alla società controllante, comporta delle conseguenze notevoli, che pongono in crisi alcuni tra i principi cardine dell’ordinamento tributario italiano, quali il grado minimo di connessione tra reddito e soggetto passivo, richiesto dal principio di capacità contributiva, e il principio della personalità giuridica come autonomo centro di imputazione della ricchezza9.