VITALE?
DILEMMI
DELL'UNIVERSITÀ
DI TORINO
di Dario ReiT
Che vi sia indifferenza fra Università e città a Torino è un giudizio assai comune. La difficile transizione che la città attraversa non sembra destare particolare discussione all'interno dell'Università, se si eccettuano gli accademici (pochi) che fanno politica nei partiti e nelle associazioni. D'altra parte si invidia alle città medie di terza Italia, o estere, una centralità culturale ed anche economica del loro Ateneo, che Torino neppur lontanamente coltiva. Formulazioni più attenuate parlano di rapporti episodici, di distanze da colmare1. L'occasione per un cambio di paradigma nelladefinizione dei rapporti viene oggi offerta, ma non imposta, dall'incontro di diverse esigenze fra loro indipendenti: l'attuazione dell'autonomia statutaria dell'Ateneo, (legge 168) e l'elezione dei nuovi organi di governo; le innovazioni didattiche del Piano quadriennale e della legge 341/1990; il Piano regolatore, con le sue ricadute sugli insediamenti universitari in città e nell'area metropolitana; la circostanza delle elezioni comunali, dove scienza tecnologia università sono risorse d'obbligo menzionate pressoché in ogni programma per la rinascita di Torino. Al di là degli appelli retorici, sussistono i prerequisiti di una collaborazione reciprocamente feconda? È diffusa la convinzione che il prodotto di ricerca e formazione che l'Università torinese fornisce si ponga a livelli adeguati rispetto alla media nazionale — con punte di eccellenza in alcuni settori — mentre le condizioni del lavoro accademico non fanno che degradare, insieme con il restringimento delle risorse materiali e organizzative, la senilizzazione del ceto docente, il difficile inserimento di giovani generazioni di studiosi2. L'autonomia statutaria non sembra destinata ad incidere nell'ambito che attira per converso le maggiori attenzioni di docenti e studenti: intendo la quantità e qualità dell'insegnamento attuato e i suoi risultati sociali, in termini di formazione
professionalizzazione tassi di successo e gettito di laureati adeguato ai fabbisogni del mercato del lavoro. L'autonomia conferita ai singoli Atenei in materia didattica non solo è vincolata
alla permanenza degli ordinamenti nazionali necessari a conferire titoli a validità legale, ma si scontra con il difficile raccordo fra la dimensione orizzontale — in cui eventualmente si persegua una progettazione didattica differenziata negli obiettivi di formazione validati a scala locale — e la dimensione verticale dei settori disciplinari — che seguita a governare la selezione a scala nazionale dei valori scientifici e influenza l'assegnazione di corsi, posti, concorsi3. La revisione statutaria in atto potrebbe invece risultare utile a compattare l'attuale frammentazione dei centri di attività didattica e scientifica; durante gli anni Ottanta gli istituti di Facoltà si sono ridotti del 62% (attualmente concentrati nelle due sole facoltà di Medicina ed Economia), il quadro delle biblioteche è rimasto polverizzato4, la dipartimentalizzazione incompiuta, mentre aumentavano centri e consorzi interni e misti, per realizzare attività non rientranti nelle competenze didattiche e scientifiche ordinarie (Tabella 1). Spetta al ridisegno statutario individuare le strutture necessarie (facoltà, dipartimenti, servizi comuni) alle quali conferire larga autonomia gestionale finanziaria e organizzativa, in modo da accrescerne le responsabilità, ridurre il sovraccarico della amministrazione centrale e favorire maggiore
trasparenza nei rapporti con i clienti (studenti e comunità in senso ampio).
Ma il convitato di pietra di ogni discorso sulla futura autonomia è la previsione sulle risorse. Dei 440 miliardi di lire messi a preventivo per il 1993, ben l'89,9% proviene da trasferimenti statali per stipendi, edilizia, funzionamento ordinario e ricerca istituzionale. Le risorse prelevate agli studenti attraverso tasse e contributi costituiscono oltre il 60% delle entrate disponibili senza vincolo di destinazione e assoggettate alle manovre di bilancio.
L'autofinanziamento attraverso attività esterne di consulenza e ricerca dà un gettito significativo ma limitato (nel periodo 1989-1992 di 5 mld/anno) (Tabella 2).
In vista dell'autonomia è stata fatta circolare la proposta di accorpare i trasferimenti statali (stipendi compresi) in un unico fondo globale, che sarebbe inizialmente trasferito alle
singole università sulla base della spesa storica corretta secondo parametri di riequilibrio. («In questo modo ciascun ateneo, e al suo intemo ciascuna facoltà, sarà dotata di un budget finanziario complessivo con larga autonomia nell'impiego delle risorse (possibilità di sostituire al margine le risorse che si liberano«)5. Non è dato comprendere se un simile orientamento persegua l'intento di accrescere libertà e responsabilità nelle scelte di bilancio dei singoli Atenei, o non preannunci (ciò che da qualche parte si teme) una stagione di disimpegno del governo centrale. In ogni caso diventa rilevante la capacità di elevare efficienza organizzativa e qualità di gestione, e di adottare strategie adeguate per la programmazione pluriennale delle risorse e degli investimenti. Rimodulazione della contribuzione studentesca, eliminazione di vincoli che frenano l'autofinanziamento, gestione diretta di grandi servizi (policlinico?), «vendita» alla città di strutture quali grandi
biblioteche, centri informatici e multimediali, laboratori di prove analisi e certificazione, centri linguistici, sono primissimi e parziali esempi di una politica espansiva delle entrate che si potrebbe praticare a Torino. L'autonomia pone inoltre la questione dei criteri e delle procedure per la scelta della dirigenza. La tradizionale nomenklatura accademica si accampa dietro il muro che separa le funzioni pregiate (ricerca e insegnamento) da quelle ritenute serventi e secondarie, se non inquinanti (logistica, amministrazione, servizi e finanza). Finché questo muro non venga intaccato, difficilmente si avvierà una transizione verso forme moderne di
autonomia. Ma non è affatto chiaro se la transizione potrà muovere consensualmente per autoriforma, o non pretenda impulsi che dall'esterno aiutino a squilibrare la «sgangherata torre d'avorio»6 per avviarla su nuove direzioni di sviluppo. Ferme restando, s'intende, le sicure garanzie per i valori appropriati di libertà scientifica e didattica.
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A1 cresceredell'autonomia aumenta di importanza la relazione dell'Ateneo con l'area economica e sociale dove è insediato. Attualmente i rapporti con soggetti estemi al sistema pubblico della ricerca (che include Cnr, Infn, Enea, Ministeri) si riconducono ai modelli della consulenza (fornita da singoli o gruppi ristretti), del contratto di ricerca mirato e della partnership attraverso accordi quadro, consorzi, collaborazioni permanenti; meno tematizzato (e modestamente praticato) è il modello della trasformazione in impresa dei risultati di conoscenza7. Una logica lineare di interazione (a domanda risponde) fra i produttori di ricerca ed i loro potenziali utenti non favorisce processi di comunicazione e mobilità aperta fra attori e luoghi del ciclo: ricerca di base-ricerca applicata-trasferimento tecnologico, nè consolida i reticoli che innervano un complessivo sistema ricerca-innovazione. La fragilità del mercato della ricerca
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fitti
In alto: Vladimir Dulov e Alexandr Faldin (fotografia: Mario Cresci).
Sotto: Alexandr Faldin, Il partito è la mente, l'onore, la coscienza della nostra epoca (Breznev amava ripetere la citazione di Lenin), 1988.
tecnologica in Piemonte è stata attribuita alle precarie * connessioni organizzative,
alla scarsità di domanda proveniente dalle imprese medio-piccole e all'eccessiva insistenza sull'applicazione industriale diretta, a scapito dei finanziamenti alla ricerca di base'. Questi limiti non sembrano superabili dal meccanismo, tutto sommato, casuale,delle committenze o da semplici politiche di informazione ed anagrafe delle ricerche. Una società metropolitana della conoscenza dovrebbe alimentarsi alla triade virtuosa ricerca-formazione-innovazione intesa come sistema: non affidata cioè alla interconnessione occasionale fra diversi luoghi, istituzioni ed attori della conoscenza, ma capace dì generare sufficienti e stabili masse critiche di produttori (interni/esterni al sistema accademico) attivate su «missioni» ed obiettivi di comune interesse. Certo nessuno a cui prema la competitività sistemica dell'area farebbe sua oggi l'antica certezza che: «a differenza dell'Università l'industria non può attendere». Determinante è infatti la capacità congiunta di produrre e valorizzare risorse permanenti: «è precisamente la ridondanza di conoscenze scientifiche pure ed applicate che fornisce una sorta di pool di opportunità e di competenze, dal quale attingono lo sviluppo e lo sfruttamento economico di nuovi paradigmi tecnologici»9. Ma la ridondanza va
programmata e valorizzata, e bisogna rendersi disponibili a sopportarne i costi.
Se si considerano i fattori trainanti dello sviluppo high tech in un'area a forte tradizione industriale come è quella torinese, si vede che un elevato grado di spontaneismo innovativo, non sostenuto da un elevato livello di risorse
istituzionalizzate, incontra strozzature insormontabili. Il mito di Tecnocity ha occultato questi punti latenti di crisi nella cosmesi di una esibita virtù, come se un distretto tecnologico virtuale assumesse tenuta strategica di sviluppo grazie al solo fatto di essere rappresentato o propagandato. Non a caso si osserva poi che la strumentazione mentale media della città è insufficiente e in ritardo, rispetto alla sofisticazione tecnologica dei processi produttivi, che
l'apprezzamento strumentale della tecnologia non si è consolidato in una cultura scientifica matura10. E si
teme la congiunzione fra povertà mentale e impoverimento economico, in uno scenario generale di declino.
y g Nel 1978 la Regione Piemonte, dopo ^ ^ ^ ^ avere costituito con i
due Atenei il Consorzio per il sistema informativo, stipulava con gli stessi una convenzione quadro, che li riconosceva al rango di preferenziali produttori di ricerche e servizi su temi di pubblico interesse.
Successivamente al 1985, fu prevalente l'azione del sistema delle imprese, attente alle risorse di conoscenza giacenti nel sistema universitario, alla proposta di nuovi curricoli e profili di formazione, e alla selezione funzionale di persone competenze e ambienti disponibili alle collaborazioni. Anche il modello delle relazioni selettive appare esaurito, e lascia il posto all'appello per
l'interdipendenza virtuosa e sistematica fra strutture di produzione e istituzioni di conoscenza. Un catalogo di esigenze riscuote consenso quasi unanime, quando propone:
— consistente incremento degli interventi per la formazione delle capacità produttive diffuse, con l'obiettivo di accrescere l'afflusso alla scolarità di tipo superiore e di ridurre lo spreco di motivazioni e intelligenze giovanili; — formazione superiore e riqualificazione del personale tecnico scientifico e organizzativo delle imprese e delle pubbliche
amministrazioni (scuola di alta amministrazione, corsi per il lavoro cooperativo e dei servizi, sostegno all'imprenditorialità giovanile ed al lavoro autonomo: campi questi ultimi a Torino quasi disertati);
— costituzione di centri di eccellenza e istituzioni superiori di ricerca applicata alla modernizzazione delle strutture produttive; laboratori consortili pubblico-privati; contiguità fra istituzioni scientifiche universitarie e imprese di elevata tecnologia, nell'ambito di parchi scientifici e tecnologici a localizzazione definita11; — progetti di ricerca-intervento che rispondano a bisogni urbani sottoserviti, come la protezione ambientale, il ciclo dei rifiuti e dell'energia, la
riqualificazione urbanistico-edilizia degli spazi periferici,
la rivitalizzazione sociale dei quartieri in crisi. L'elenco potrebbe allungarsi, ma non risolve il problema cruciale di individuare gli imprenditori di questi processi di innovazione, e le fonti delle ingenti risorse che li rendono praticabili. L'impiego dello strumento urbanistico da parte del governo locale, se vale a condizionare le proposte di innovazione in presenza di imprenditori determinati alle stesse, non è in grado di sostituire con mere opportunità localizzative progettualità insufficienti o assenti.
A questa impressione non si sottrae la soluzione proposta per gli insediamenti universitari nel preliminare nel nuovo PRGC, che comunque invita a
riconsiderare alcune scelte di fondo per il sistema nell'area metropolitana.
Allargare il sistema a tutta l'area comporta di valorizare le sedi esterne a Torino (Grugliasco, secondo polo di Medicina a Orbassano, eventuali strutture artistiche e museali a Rivoli e Venaria), risolvendo le relative questioni di accessibilità e trasporti. Sembra opportuno favorire l'insediamento di strutture didattiche, per la
residenzialità studentesca e la ricerca, in quelle parti di città che sono
tradizionalmente povere di terziario superiore. Per quanto riguarda la zona Nord, è stata avanzata l'ipotesi di insediare (nella cosiddetta Spina 3) laboratori scientifici tecnologici che richiedono un adeguato rispetto ambientale; centri di ricerca misti fra università e industria; istituzioni universitarie disegnate ex novo, e non gemmate dagli attuali Atenei.
Per il Lingotto, oggetto di un piano particolareggiato anteriore al nuovo PRGC, si tratterebbe di verificare la congruenza delle attività universitarie insediabili con le altre funzioni del nuovo complesso. Personalmente continuo a ritenere il Lingotto adatto ad accogliere una sorta di «secondo Politecnico» del dopo-industria, che assecondi la ricerca di nuove forme di attività e lavoro (gestione, comunicazione, terziario d'impresa, servizi tecnologici, commercio e finanza internazionale, nuova editorialità e medialità, linguaggi soft fra arte scienza e progetto). Concentrare al Lingotto le attività che si aggiungono alla tradizionale base industriale della città e la completano, segnerebbe l'ironico destino di una
vecchia fabbrica, che si fa incubatrice della
diversificazione economico-culturale di Torino: un investimento della città sulla prospettiva di cambiare pelle, anche somigliando, dal punto di vista della proprietà, ad un Astolfo che insegue la sua pazzia sulla luna di un terziario improbabile^. Si tratta infine di restituire al centro aulico della città le sue decorose funzioni di rappresentanza culturale, conservazione museale e interscambio cosmopolitico, tutelando quella «sublime inutilità» di conoscenze non finalizzate a usi produttivi, che è giusto separi un sistema universitario rinnovato e autonomo da forme anche sofisficate di formazione professionale superiore.
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11 rapporto fra istituzioni scientifiche culturali e città si pose in modo peculiare in passato nel momento in cui, esaurita la funzione politico-militare e di governo, la città doveva affrontare la difficile conversione verso l'industrializzazione moderna. In tale scenario si mossero non solo interessi tecnici e applicativi, ma il tentativo di una conciliazione di alto profilo fra produttori di conoscenza e forme della cultura sociale". L'attuale ripresa d'interesse per la storia e la culturadell'istituzione universitaria rivela forse una risorgente domanda di identità, che chiede di essere investita nel processo di transizione in corso. Toma necessario pensare a sedi istituzionali di concertazione, siano esse comitati per lo sviluppo dell'Università torinese (come ne esistono per le città del Piemonte orientale); accordi di programma ex legge 142, con la Regione, gli enti locali e i futuri organi della Città metropolitana contratti di programma fra Ateneo autonomo e amministrazione centrale; convenzioni transnazionali con città e regioni europee; e combinazioni dei vari strumenti.
E saggio riconoscere che l'apporto eventuale dell'Università alla ripresa di Torino passa dalla capacità di adottare e farsi attribuire ambiti di influenza più forti e determinati, ma non discende in via automatica dalla rimozione di ostacoli o barriere che mantengono obsolete separatezze. Conoscenze ricerche applicazioni formazioni servizi — rilevanti al compito e coerenti all'esercizio di un
potere più alto e responsabile — non sono semplicemente lì, da raccogliere e indirizzare. Sono, con ben maggiore fatica, da estendere, costruire, talvolta
creare ex novo. È tempo tut-tavia, per quanto ciò sia sco-modo, di passare dalla diplo-mazia educata delle relazioni alla energia coraggiosa delle co-azioni.
Tab. 1
Sedi di attività didattica e scientifica
Anno d'inizio prima 83 83 e dopo oggi
Facoltà 10 — 10 Corsi di laurea 20 8 28 Istituti di facoltà 129 (-80) 49 Dipartimenti — 42 42 Biblioteche — principali — altre 4 nd nd 6 72 10 Centri interni 8 17 25
Centri in conv. con CNR, SSN, INFN 8 — 8
Centri e consorzi con altre Univ. italiane 2 41 43
Accordi di coop. con Univ. estere nd 108 108
Associazioni centri consorzi con enti esterni 2 15 17
Fonte: Notiziario Univ. di Torino, vari numeri 1992, 1993.
Tab. 2
Introiti delle attività di ricerca e consulenza per enti esterni (milioni lire)
Committente Totale 1989-92 Caso rilevante
Regioni 5271,8 Lab. analisi chimiche per Regione Piemonte
Comuni 389,0 Province 480,3
Ministeri 3944,5 Programma Aids Min. Sanità
Enti internazionali 1657,6 Programma Brite-Euram Cee Imprese pubbliche 1735,7 Ergonomia videoterminali
per Enel
Imprese private 4489,0 Montedipe Ditte farmaceutiche 1679,4 Farmitalia
Ussl 309,1
Dati fino al 10.11.1992, esclusi introiti per cliniche convenzionate. Fonte: Università di T o r i n o .
1 «In qualunque altra città d'Italia si sa che l'Università è al centro dello sviluppo sociale e culturale, qui a Torino no»: D. Rei,
Univer-sità universitari cultura di Tori-no, in E. Marra et a!.. Componen-ti culturali della qualità urbana,
Etaslibri Milano, 1989, voi. I, p. 330. Rimando a tale saggio per una analisi del Politecnico, che qui non prendo in diretta consi-derazione. V. anche Pds, Torino
città della scienza e della ricerca, dicembre 1991; Torino
Incontra, Una alternativa al
de-clino. 18 idee per lo sviluppo di Torino negli anni Novanta, 1992,
pp. 44-50.
- L'Università conta 1167 profes-sori di prima e seconda fascia, 723 ricercatori e assistenti, 1320 tecnici ed amministrativi, 70.308 iscritti ai corsi di laurea (dati fine 1992). Nel personale accademico le donne erano il 27,1% (8% in prima fascia), i «giovani» sotto i 40 anni il 37,3% (3,7% in prima fascia), i nati fuori del Piemonte il 29,8% (33,4% in prima fascia, tra cui i due rettori dal 1975 ad oggi); il 58% si concentrava per residenza in Torino centro, Cro-cetta, Po, Oltrepò e comuni con-finanti della collina (dalla ricerca cit. alla n. 1).Sulla produttività formativa, . A. Pennacini preside di Lettere, Il continuo calo di
laureati un'accusa contro gli ate-nei, «Il sole 24 ore», 13 feb. 1993.
3 Le due idee di autonomia (della Università come ordine separa-to/delle Università come singoli Atenei) sono confrontate da F. Roversi Monaco in C. Roveda e R. V i a l e , c u r . . Autonomia
dell'Università e della ricerca.
Fondazione Rosselli, Edizioni La Rosa, Torino 1989, pp. 37-51.
4 «Conosco u n ' U n i v e r s i t à dove esistono ben 82 biblioteche...»: F. Ferraresi, E a Torino il
profes-sore diventò commesso,
«Corrie-re della Sera», 20 feb. 1993.
5 Ministero del Tesoro. Commis-sione Tecnica sulla spesa pubbli-ca, Il finanziamento del sistema
universitario italiano, documento
settembre 1992, p. 6. E anche P. Giarda, L'Università italiana tra
diversificazione inefficienza ed autonomia, relazione presentata
al Convegno di Brescia sull'auto-nomia (18-19 novembre 1992).
6 L'espressione è in 18 idee, cit., p. 49.
7 «It is not in the culture of Ita-lian academics to work closely with industry, seek industrial funds nor to establish their own
companies to exploit their ideas or inventions»'. D.N.E. Rowe, An interim Report on the Eurotorino Project, giu. 1992, p. 19. Per una
ricognizione esplorativa, D. Rei,
Dall' Università all' impresa. Nuovi imprenditori high tech a Torino, r a p p o r t o n o n p u b b l .
1989.
8IRES Piemonte, E industria
del-la ricerca. I produttori di cono-scenze tecnologiche per l'innova-zione industriale, Roseberg et
Sellier, Torino 1989. Sulla bassa intensità di investimento in ricer-ca di base da parte dell'industria torinese: Unione Industriale,
To-rino-Milano due economie a con-fronto, Torino 1987, pp. 110-111
(e 18 idee, cit., p. 44).
9G . Dosi, Innovazione
nell'indu-stria in Europa, in A. Ruberti,
cur., Europa a confronto.
Inno-vazione, tecnologia, società,
La-terza, Roma-Bari 1990, p. 20. L'altra citazione è del Rettore del Politecnico A. Capetti
(Univer-sità e industria. Dialogo per il progresso, in «Torino», mar.
1967, p. 47).
10 M.L. Bianco, La tecnologia a
Torino fra immagine e realtà, in
M.L. Bianco et al.. Il sapere
tec-nologico, Edizioni della
Fonda-zione Giovanni Agnelli, Torino 1990.
11 S. Conti Tecnologia ed
econo-mia urbana, in S. Conti e G.
Spriano, cur., Effetto Città, Edi-zioni della Fondazione G. Agnel-li, Torino, 1990, in part. pp. 103-4; SPRINT-Comune di Torino,
Studio per la creazione di un parco tecnologico e per la ricer-ca, denominato «Eurotorino», 1°
Rapporto, giù. 1992.
12 Sempre dalla luna si potrebbe scorgere al Lingotto una sede per l'ipotetico insediamento di fun-zioni proprie di una capitale na-zionale «espansa» sul territorio; o di una istituzione di ricerca e formazione della CEE (nei settori della qualificazione professiona-le, della qualità di vita urbana, energia e ambiente ecc.).
'3 «Dal 1870 al 1900 l'Università è vivificata dal culto della scien-za, non solo tra fisiologi, mate-matici, patologi, ma altresì fra storici, giuristi, letterati»: A. D'Orsi, Un profilo culturale, in V. Castronovo, Torino, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 498. Per gli interessi attuali, si veda il lavoro del Centro di Storia dell'Univer-sità di Torino (tra cui il progetto di una Breve storia da pubblicare entro il 1993) e la recente costi-tuzione dell'Archivio Scientifico e tecnologico, per l'inventario e la conservazione della strumenta-zione di interesse storico.