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Sisifo 25

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maggio 1993

DOSSIER

TORINO

Al LETTORI

di Silvano Beiligni, Guido Neppi Modona, e Sergio Scamuzzi

Questo numero di «Sisifo» testimonia lo sforzo e t'impegno della «Fondazione Gramsci» di continuare ad investire in questo essenziale strumento di ricerca, di dibattito e di circolazione delle idee nel panorama culturale e politico non solo torinese. Ci conforta in questa scelta il rinnovato consenso suscitato dagli ultimi numeri di «Sisifo», documentato anche dalle

Vladimir Dulov, Perrrestrojka, 1989. Il riferimento è al segno § (paragrafo), tipico della burocrazia.

richieste di abbonamento e dalle numerose offerte di collaborazione.

Agli amici ed agli estimatori di «Sisifo» dobbiamo però segnalare che la

«Fondazione Gramsci», come d'altra parte tutte le istituzioni culturali, opera in un contesto reso sempre più difficile dai tagli della spesa pubblica e delle

contribuzioni private, che hanno colpito con particolare brutalità le

istituzioni e le iniziative culturali. E dobbiamo anche dire che la cultura costa e che non siamo più in grado di fornire gratuitamente il servizio culturale che «Sisifo» ha sinora utilmente svolto.

In questa constatazione vi è un po' di amarezza, perché forse ci eravamo illusi che i

tanti riconoscimenti ricevuti da «Sisifo», ed i sacrifici che sono stati fatti per mantenere in piedi la rivista, avrebbero trovato riscontri in un sostegno anche finanziario, non fosse altro che mediante l'associazione alla «Fondazione Gramsci». Continuiamo però a credere che nel difficile periodo di profonda crisi de! sistema politico, ma anche di grandi e stimolanti trasformazioni, il ruolo di «Sisifo» e della «Fondazione Gramsci» abbiano un senso ed un'importanza crescenti, tali da indurci a raccogliere la sfida culturale che stiamo portando avanti. Non a caso questo numero è dedicato ad una grande sfida, quella del

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futuro di Torino. Chiediamo dunque a tutti i lettori di «Sisifo» di partecipare alla

sottoscrizione volontaria di un contributo annuale, per consentire la continuazione della pubblicazione della rivista con una scadenza almeno semestrale. E' già in programma il prossimo numero, che verrà interamente dedicato alla cultura del dialogo e della tolleranza, nell'ambito delle iniziative del Comitato «Oltre il razzismo». Siamo costretti a ripeterlo ancora una volta: la cultura costa, ed è un servizio che nessuna libera istituzione, quale noi siamo, è più in grado di fornire gratuitamente.

I molti riconoscimenti ricevuti ci lasciano presumere che il nostro modo di fare cultura abbia incontrato l'adesione dei . lettori di «Sisifo»; a questi lettori chiediamo dunque un modesto contributo annuale di L. 50.000 per ricevere la rivista, mentre i soci della Fondazione Gramsci in regola con la quota per il 1993 di L. 100.000 continueranno a ricevere Sisifo gratuitamente.

DOSSIER

TORINO

QUESTIONE

TORINO

di Silvano Belligni

X

ln questo numero di «Sisifo», interamente dedicato alla «questione Torino», prosegue e si intensifica la propensione della rivista ad analizzare i problemi del territorio urbano e metropolitano, seppur da un punto di vista non localistico, valutandone ad un tempo la specificità ed il rilievo generale e nazionale. Torino — molti lo hanno rilevato — è città studiatissima sotto il profilo economico e sociologico, ed è stata spesso analizzata in profondità anche nelle politiche che l'hanno caratterizzata negli ultimi lustri. Sembra quasi che vi sia un'ironica correlazione tra la ricchezza e la qualità dei materiali di analisi che illustrano i molteplici aspetti della realtà locale e l'inerzia dei comportamenti amministrativi, l'assenza di politiche innovative, la chiusura asfittica ad ogni sollecitazione culturale e morale che nell'ultimo decennio hanno

caratterizzato la vita pubblica e l'iniziativa privata, sino a comporre il quadro di difficoltà e di declino che ci troviamo di fronte. Saranno fra non molto gli elettori, come si conviene in democrazia, a chiedere conto al ceto politico dei fallimenti e delle inerzie di cui sopra; e magari saranno i giudici, come è regola in uno stato di diritto, a valutare e a sanzionare eventuali comportamenti illeciti di amministratori e di privati. Nondimeno, permane in molti la sensazione che il vuoto di fiducia e di capacità di governo determinati dal modo in cui in questi anni è stata amministrata la cosa pubblica non potrà essere facilmente riempito, neppure con l'ausilio di nuove regole elettorali.

Quanto poi alle classi dirigenti economiche, corresponsabili almeno in parte dello stato di cose esistente, preoccupa il processo di rimozione e di autoassoluzione in corso al loro intemo. Questa tendenza ha malauguratamente trovato il sostegno di voci (o di silenzi) autorevoli dell'intelligentzia cittadina, non di rado eccessivamente acritica nei confronti delle responsabilità del mondo imprenditoriale: studiosi della società e delle istituzioni, operatori dell'informazione, opinion leader, quanti insomma avrebbero dovuto svolgere un compito di pungolo intellettuale e di vigilanza morale, sono stati spesso in questi anni distratti o corrivi verso quanto stava (o non stava) avvenendo. Credo che

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a questa funzione critica — da affiancarsi a quella più direttamente conoscitiva e propositiva — non sì dovrà per il futuro più abdicare, noi come altri.

I materiali che J j pubblichiamo

illustrano aspetti essenziali del disagio, delle esigenze, delle carenze della Torino attuale; in questo senso non sono privi dì un implicito o esplicito contenuto polemico rispetto al passato. Ma soprattutto — per scelta deliberata — essi pongono «costruttivamente» l'accento sui vincoli, sulle risorse, sulle opportunità reali o virtuali, settoriali o di sistema, che una qualsivoglia ipotesi di ricostruzione urbana non potrà

impunemente trascurare. Tra i numerosi aspetti che emergono e che il lettore interessato valuterà direttamente, ci sia consentito di evidenziarne uno, generale e

metodologico, che percorre trasversalmente molti dei saggi e che, se non sbagliamo, va in controtendenza rispetto a molte opinioni ancor oggi correnti.

L'esigenza generica di un radicale ricambio dì classe politica su cui ovviamente tutti convengono, — chi non vuole un governo di onesti e capaci? — nasconde a ben vedere opzioni alternative per quanto riguarda i contenuti, le priorità, le modalità della futura azione amministrativa. Mentre negli articoli che presentiamo resta sullo sfondo il pur decisivo rapporto da istituirsi tra equità ed efficienza, tra ragioni dello sviluppo e esigenze di tutela degli svantaggiati e di

contenimento del disagio, nel quadro della tensione irriducibile tra diritti di proprietà e diritti sociali, emerge invece con sufficiente nettezza la questione degli «stili» di governo da adottarsi. Non molti anni fa — qualcuno lo ricorderà — è prevalsa (anche a sinistra) la tesi della necessità di un modello di azione amministrativa flessibile e «leggera», centrata — contro le rigidità «sinottiche» del passato — sull'interazione «caso per caso» e di breve periodo, orientata allo scambio politico contingente e decentrato con i poteri di fatto, attenta al colloquio «pluralistico» tra interessi organizzativi,

sistematicamente fatti valere — ora lo sappiamo — a spese del patrimonio pubblico. Dove abbia portato

Aleksandr Faldin e Svettano Faldìna, Bravo!, 1988. questa tendenza alla

negoziazione diffusa senza progetti e senza principi, in Italia e a Torino, è sotto gli occhi di tutti. Per contro, l'esigenza che, quantomeno implicitamente, caratterizza molti degli scritti qui raccolti sembra tutt'affatto diversa: l'enfasi è spesso su una regolazione politica di sistema, che guardi a una dimensione temporale di lungo periodo, su governi capaci di autonomia e di strategia, non orientati a mediazioni spartitorie e meno esposti alle pressioni dei particolarismi organizzati, anche e soprattutto dei più forti. A qualcuno queste istanze «programmatorie» potranno apparire come retoriche

riproposizioni di parole d'ordine e di ideologie dirigistiche del passato: a molti di noi sembrano invece, se opportunamente calibrate sui problemi attuali, una condizione necessaria per invertire la tendenza al declino e un'occasione per restituire dignità e ruolo alla politica.

Ma su questo torneremo.

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SCENARI

PROGETTI DI CITTÀ

E POLITICHE

URBANISTICHE

di Roberto Gambino

X

Forse bisognerebbe

lasciare passare «il tempo della peste bianca», lasciar trascorrere «a nuttata», aspettare che smarrimento ed autoflagellazione della città abbiano esaurito i propri effetti, per ricominciare a parlare seriamente di politiche urbanistiche a Torino: se con questo vogliamo intendere politiche pubbliche responsabili, che non si limitino a correr dietro agli eventi e guardino con sufficiente lungimiranza al futuro della città. Ma d'altra parte non si può negare che l'urbanistica occupa un posto di primo piano nella crisi della città. Se si dà credito ai sondaggi d'opinione, gran parte delle insoddisfazioni e dei malesseri che la popolazione denuncia (dai servizi ai trasporti che non funzionano alle abitazioni che mancano) e dei cahiers de doleance degli operatori economici, fan capo a politiche urbanistiche attuate o non attuate. E, soprattutto, è all'urbanistica che sembrano rivolgersi molte delle attese della città, molte delle speranze di uscire dall'attuale fase di crisi e di disorientamento.

Per chi ricorda la crisi di dieci anni fa, che travolse sull'onda delle tangenti le amministrazioni di sinistra, la «domanda di piano» che sembra emergere dalla crisi attuale — apparentemente così simile e legata alla precedente — ha qualcosa di sconcertante. Dieci anni fa, nel coro di critiche che decretava il fallimento dell'esperienza di governo di sinistra (a Torino come in tante altre città) le esequie per la «morte del piano» avevano una parte importante. Le bacchettate che l'avv. Agnelli diede allora alla Giunta comunale, di fronte alle mense imbandite per celebrare il lancio dell'operazione Lingotto, nel grande stabilimento ormai vuoto, avevano per bersaglio non certo secondario l'idea stessa che il futuro della città potesse essere disegnato e in qualche misura gestito sulla base di un piano urbanistico della publica

amministrazione. Questa era invitata a gettare alle ortiche il piano che era stato preparato, a partire dal 1976, in coerenza con la

pianificazione territoriale (il Progetto Preliminare del 1980 non ebbe infatti alcun seguito) ed a ritrarsi, per dare spazio ad una nuova fase di «progettualità urbana» piena di lusinghe e di promesse, che i disegni delle «grandi firme» rendevano più credibili ed accattivanti. Una

polemica, in gran parte artificiosa ma largamente condivisa anche nell'ambito della cultura accademica e professionale, contrapponeva il «progetto», espressione creativa della qualità, al piano, espressione burocratica e vincolistica delle «quantità» (gli standard). La

deregolamentazione (spesso concepita «all'italiana», eco lontana delle ondate neoliberiste che investivano il mondo industrializzato) doveva consentire di affermare il primato del progetto, valorizzandone la capacità di cogliere pragmáticamente e tempestivamente le «occasioni favorevoli», ed anzi di creare esso stesso le occasioni. I grandi progetti di trasformazione dei «vuoti urbani» (le aree industriali dismesse, i grandi impianti urbani obsoleti) dovevano infatti servire non soltanto a tradurre in concrete operazioni le opportunità che «oggettivamente» e neutralmente la

ristrutturazione economico-produttiva veniva profilando, ma, ben prima (dal momento stesso in cui le aree interessate venivano dichiarate «vuote») dovevano servire a sollecitare le trasformazioni desiderate, ad indicare le prospettive di scambio e di contrattazione, ad esprimere opzioni potenti sull'uso di pezzi strategici della città'. Le politiche «per progetti»2

potevano e dovevano sostituire le tradizionali politiche «di piano». L'approvazione nel 1991 del Progetto Preliminare di nuovo Piano Regolatore, le forti pressioni che gran parte degli operatori economici e immobiliari stanno esercitando per una rapida approvazione del progetto definitivo, e più in generale la richiesta, variamente e da più parti espressa, di nuove regole urbanistiche e di strategie più complesse e lungimiranti per risalire la china ed uscire dalla crisi, sono indicative di un indubbio mutamento di clima. Molte ragioni possono essere affacciate per spiegare questo mutamento di clima. Tra le prime, va senza dubbio evidenziato il sostanziale fallimento della «progettualità» degli anni Ottanta sul suo stesso terreno, quello

dell'operatività promessa. C o m ' è stato dimostrato3 il

solco tra progetti e realizzazioni, tra parole e fatti, si è ancora allargato: ben poche delle «grandi occasioni» delineate all'inizio del decennio sono state effettivamente colte (lo

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y slesso progetto Lingotto, a più di dieci anni di distanza, è ancora quasi tutto sulla carta) e persino le operazioni, come tipicamente le linee metropolitane, che più sembravano essere state prigioniere dei precedenti disegni urbanìstici, non hanno fatto, dopo esserne state precipitosamente separate, significativi passi in avanti. La situazione di stallo (non certo solo a Torino-1) è

così grave ed appariscente da indurre a riportare nel piano — nelle sue ampie e generose promesse, ed ancor più nelle sue attese «anticipazioni»' — la fiducia per un rapido sblocco delle perduranti incertezze, per un rilancio del mercato immobiliare, per una ripresa economica ed occupazionale. Gli operatori e le imprese non sembrano più disposti ad accettare le latitanze del sistema

politico-amministrativo, l'incertezza delle prospettive, la carenza di regole del gioco; e molti di loro credono, o fingono di credere, che l'approvazione del piano regolatore sia la chiave che consente di riaprire i cantieri.

A questo si aggiunge oggi il sospetto che i grandi progetti e programmi speciali, maturati e decisi fuori di ogni logica di pianificazione e di gestione ordinaria e complessiva e spesso fuori di ogni logica «locale» (l'irruzione sulla scena locale di potenti «concessionarie» del parastato, legate ad imperscrutabili strategie politiche e finanziarie nazionali quando non a vere e proprie trame dei poteri occulti) siano stati potenti veicoli di corruzione. A torto o ragione, l'opinione pubblica comincia a vedere nella città «occasionale»«, che affida i propri destini alle grandi occasioni di trasformazione più o meno lucrosa, l'ombra di «tangentopoli». La delegittimazione della città «occasionale», la crisi della «progettualità urbana» degli anni Ottanta e la domanda di piano che ne consegue hanno tuttavia radici più profonde, che non sembrano pienamente avvertite dalla cultura politica e dalla stessa riflessione disciplinare. Esse attengono ai cambiamenti strutturali dei sistemi economici e territoriali e dei processi decisionali che li concernono.

Sullo sfondo, si delineano scenari relativamente noti e frequentati: la

globalizzazione dei mercati e l'internazionalizzazione di

molte dinamiche economiche, sociali e culturali, la crescente competizione interurbana che ne consegue, la progressiva «reticolarizzazione» degli assetti urbani e territoriali che accompagna la moltiplicazione degli «effetti rete» nei processi economici e sociali, la generalizzazione delle spinte diffusive che han preso il posto delle precedenti spinte

agglomerative (in apparente contraddizione con l'accentuarsi delle tendenze alla centralizzazione altamente selettiva di attività di comando, di funzioni rare e dei ceti ad esse collegati nei poli più importanti), l'indebolimento delle economie di prossimità ed insieme il riemergere dei localismi e dei valori etnolinguistici e culturali radicati nel territorio, la riarticolazìone dei poteri diffusi e l'irruzione di nuovi soggetti nei processi territoriali, l'inasprirsi delle emergenze ambientali ed insieme la modificazione dei comportamenti spaziali delle famiglie e delle imprese, ecc.'. Spesso, le

modificazioni degli scenari di fondo sono state segnalate da cambiamenti importanti e largamente inattesi dell'agenda politica delle amministrazioni urbane e regionali, come l'esplosione dei drammi delle minoranze, la pressione montante delle «nuove povertà», la domanda di verde e di spazi per il tempo libero nei tempi e nei luoghi della vita quotidiana. Ma, nell'insieme, non sembrano sufficientemente avvertite le conseguenze che tali modificazioni

determinano sui problemi che le politiche urbane devono affrontare in questo scorcio di secolo.

Tali problemi appaiono oggi segnati da alcune tensioni irriducibili, che sarebbe vano tentar di rimuovere: a) tensioni temporali, tra la continua accelerazione dei ritmi del cambiamento e la lunga durata degli effetti che ne conseguono, l'inerzia delle permanenze e dei «depositi materiali» dei processi sociali, l'esigenza crescente di «ancoraggio spaziale»... (ciò che resta sta diventando più importante di ciò che cambia8);

b) tensioni spaziali, tra globale e locale, tra la forza dominante delle dinamiche esogene ed il ruolo crescente degli sviluppi endogeni, tra la globalizzazione delle strutture di potere e degli apparati organizzativi e la possibile rivalorizzazione delle soggettività locali (fino all'utopia della «città di villaggi»«);

c) tensioni politiche, tra sistemi decisionali gerarchizzati e dominati dal grande capitale pubblico e privato e spinte

autonomistiche, tra complessificazione del mercato immobiliare ed attitudini «dialoganti» e cooperative dei soggetti decisionali.

Alla luce di queste tensioni, alcune parole d'ordine, che avevano segnato il dibattito politico dei primi anni Ottanta, sembrano fuorviami. Prima fra tutte, quella della modernizzazione. È in nome della modernizzazione, intesa come la porta d'ingresso nell'agone delle grandi città competitive, che la «città del capitale» (nel significato complesso che gli dava Derrida'«) è stata

vittoriosamente contrapposta alla «città degli abitanti». È in nome della

modernizzazione che le ragioni dell'efficienza sono state contrapposte a quelle dell'equità, sbaragliando la filosofia del «riequilibrio» e le velleità riformiste degli anni Settanta e sostituendo alle politiche «per le periferie» disegnate dalle amministrazioni di sinistra quelle per il «ritorno al centro» propugnato dalle lobbies dominanti. Non casualmente, lo stesso Lingotto che aveva simboleggiato negli anni Trenta l'affermazione della linea «fordista» di Agnelli e di Gualino in nome della oggettiva superiorità della nuova razionalità produttiva, è stato assunto negli anni Ottanta a simbolo delle esigenze e delle opportunità del trapasso post-industriale «oggettivamente»

determinate dall'innovazione tecnologica e dalla

ristrutturazione economica internazionale. Per quasi un decennio, la sostanziale rimozione di ogni

preoccupazione sociale dalle politiche urbane e dai progetti di riforma urbanistica è stata presentata come il prezzo da pagare per attrezzare la città a vincere la gara internazionale, per irrobustire il sistema urbano in quanto «dispositivo di sviluppo» a beneficio di tutti. Una buona dose di

mistificazione ha infarcito il credo utilitaristico riflesso nella filosofia della modernizzazione. Si è infatti dimenticato, o finto di dimenticare, che «una città non può andare alla conquista delle reti intemazionali senza una solida base interna», costituita da «un ambiente interno multidimensionale» e un «tessuto connettivo» che abbraccia una molteplicità di componenti11; che soltanto

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l'attivazione di un sistema complesso di «relazioni sinergiche locali» e di reti cooperative poteva consentire alle imprese di rispondere positivamente alla crisi del modo di produzione «fordista» ed al declino delle economie urbane

manifestatosi a partire dagli anni Settanta12.

L'indivisibilità e la complessità del fatto urbano — fonte insostituibile delle sue più preziose esternalità — sono state sacrificate sull'altare di una malintesa modernizzazione. L'enfasi sui grandi progetti di trasformazione urbana e sui grandi investimenti infrastrutturali (l'alta velocità, il passante ferroviario, le connessioni autostradali ecc.: non senza accenti retrò, come il rilancio della inutile e assurda tangenziale est attraverso la collina) ha lasciato nell'ombra la rete complessa di fattori interagenti su cui si basa la «corporate identity» della città. La disarmante situazione dell'Università e del Politecnico, lasciati soli a tentar di risolvere drammatici problemi di sviluppo", di cruciale importanza per l'intera comunità regionale, l'afasia istituzionale sulla carenza di spazi e di strutture per le attività di ricerca scientifica e d'innovazione tecnologica, sono alcuni dei segni inquietanti

dell'inadeguata

comprensione dei problemi della città da parte del sistema politico e d t\V establishment metropolitano.

I recenti studi sui «milieux» consentono oggi di gettare luce sugli «accoppiamenti strutturali» tra sistema locale e sistema globale, sulle interazioni tra i sistemi di relazioni «verticali» che legano i soggetti locali alle risorse ed all'ambiente in cui operano, ed i sistemi di relazioni «orizzontali» con cui si affacciano sulle reti esterne di scambio e di produzione'4. Ma, in

prospettiva empirica, sono i fallimenti stessi e le contraddizioni insanabili delle politiche di modernizzazione a dimostrare che non può esistere una città del capitale che si sviluppa durevolmente a scapito della città degli abitanti: che i problemi degli abitanti (i servizi ed i trasporti che non funzionano, la mancanza di verde e di qualità) non sono cosa altra e separabile da quelli di una città che vuol crescere e contare a livello internazionale. La contrapposizione dualistica tra la città della

modernizzazione, dove si

investe e si innova, e la città ordinaria, abbandonata ad un destino di stagnazione, di decrado o di declino" è intrinsecamente inadeguata a reggere le sfide della competizione internazionale, ad assicurare un efficace inserimento del sistema locale nelle reti internazionali. Lo stesso marketing urbano" che molti vorrebbero promuovere, se non vuol ridursi a pura e semplice valorizzazione immobiliare o al tentativo dì accapárramento delle maggiori quote possibili delle risorse pubbliche nazionali, dipende dal rafforzamento dell'immagine e della qualità complessiva del sistema città: «solo una città che soddisfa chi già vi si trova può pensare di attirare nuovi attori»'"'.

Ciò porta ad interrogarsi sul senso stesso della qualità urbana, e sulle relazioni che intercorrono tra le ragioni della qualità, quelle dell'equità e quelle dell'efficienza nella costruzione e trasformazione della città. Relazioni assai strette, non appena si accetti l'idea che la qualità e l'immagine della città svolgono un ruolo decisivo nel determinarne la competitività e le possibilità di successo nei sistemi internazionali, non meno che nel rispondere ai bisogni ed ai diritti specifici e differenziati di chi nella città vive e lavora. Il

riconoscimento di queste interrelazioni sembra assai poco conciliabile con quelle interpretazioni riduttive che, nel corso degli anni Ottanta, hanno frequentemente riproposto una nozione di qualità urbana affidata al fascino imperscrutabile della pedigreed architecture, alla suggestione delle forme fisiche o, ben più spesso, delle rappresentazioni cartacee firmate, in assenza di riconoscibili progetti d'innovazione strutturale e di riorganizzazione funzionale. Al contrario, la ricerca di qualità urbana sembra profilare una inedita saldatura tra problematiche economiche, urbanistiche ed ambientali. Non si tratta qui di tributare un generico omaggio all'attualità della svolta ambientalista e di riconoscere con Bill Clinton che «la forza economica sarà sempre più dipendente da una decisa peiformance ambientale» e che «il conseguimento di un'economia sana e di un ambiente sano sono obbiettivi complementari, non contraddittori»'8. Si

tratta di riconoscere che ragioni ambientali e ragioni urbanistiche ed economiche

possono convergere nel fissare alcune scelte chiave per il futuro di Torino. Dieci o quindici anni fa, erano sopratutto motivazioni d'ordine sociale, urbanistico, territoriale (la riduzione degli stress e della congestione, il contenimento della terziarizzazione, della «gentrificazione» e dell'espulsione abitativa nelle aree centrali, la rivalorizzazione degli spazi periferici e la razionale utilizzazione delle risorse diffuse, la riduzione degli handicap delle aree e delle minoranze sfavorite, ecc.) che inducevano a strategie di depolarizzazione del centro e di ripolarizzazione delle borgate, delle barriere, e dei centri minori della periferia metropolitana, in un quadro di più ordinato sviluppo dell'intera regione". Molte di quelle motivazioni sono ancora attuali, perché i problemi da cui nascevano sono, in parte, ancora irrisolti. Ma a quelle motivazioni se ne sono aggiunte altre non meno consistenti, segnalate dalle varie emergenze ambientali. E il drammatico

aggravamento

dell'inquinamento acustico ed atmosferico a sconsigliare oggi (a chiunque diffidi dell'utilità e della sostenibilità economica e sociale di provvedimenti-tampone come quello delle targhe alterne) ogni politica che possa portare ad aumentare il traffico nel centro, e quindi ogni ulteriore addensamento di attività polarizzanti; è il progressivo degrado delle condizioni biologiche della vita urbana a porre ipoteche sull'uso dei «vuoti urbani» (perché non lasciarli vuoti?) e sul trattamento delle fasce fluviali (perché continuare a urbanizzarle, invece di rinaturalizzarle il più possibile?) o sull'uso della collina (perché non riprendere l'idea del parco — non di piccoli frammenti, o di striscie già compromesse, come la dorsale

«panoramica», ma dell'intero comprensorio — che era stato già studiato negli anni Sessanta?). Nella prospettiva di una ripianificazione ecologica dell'intera area urbana, i grandi vuoti lasciati dalla deindustrializzazione, come la «spina» che attraversa la città sull'asse della ferrovia, come i grandi solchi fluviali del Sangone, della Dora e della Stura che si diramano come le dita di una mano dal grande arco del Po e della collina, sono risorse preziose, insostituibili: «corridoi d'aria», infrastrutture ecologiche per bonificare la

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città. L'area milanese è stata dal 1989 definita area «ad » alto rischio ambientale»,

oggetto di impegnativi e difficili programmi di bonifica, così come lo sono state o lo saranno molte altre aree ad alta

industrializzazione (basti pensare ai coraggiosi programmi per il bacino della Ruhr): perché aspettare che le condizioni dell'area torinese si aggravino ancora irreversibilmente, perché sprecare le risorse e le opportunità che oggi sono ancora disponìbili? Un ampio ventaglio di sfide progettuali sì profila, per chi voglia prendere sul serio la qualità del sistema Torino: per limitarci ad alcune, il riordino e la

rifunzionalizzazione dei trasporti pubblici (in una logica di rete, non di singoli interventi di cui negli anni si sono smarrite le ragioni), il rafforzamento del sistema complessivo degli spazi e delle strutture per la formazione, la ricerca e l'innovazione produttiva, la valorizzazione e il potenziamento del sistema del verde e degli spazi aperti che deve riportare la natura in città, restituendo condizioni sostenibili all'ecosistema urbano.

J

È difficile pensare

che sfide come quelle appena citate possano essere efficacemente affrontate nell'ambito del Comune di Torino. La rete dei trasporti deve rispondere alle domande di mobilità che si producono in un'area assai vasta, risultante dai veloci processi d'integrazione economica e sociale che, negli ultimi quarant'anni, si sono allargati dalla periferia della vecchia città self-contained alla prima e alla seconda cintura e ad aree ancora più esterne. È all'esterno dei confini amministrativi di Torino che cresce ancora la popolazione: è qui che migrano i nuovi poli commerciali e che tende a localizzarsi una quota rilevante del terziario avanzato e della produzione innovativa. Privilegiare l'accessibilità delle aree centrali favorisce la valorizzazione immobiliare e la concentrazione delle attività polarizzanti, ma contrasta con le tendenze e le preferenze delle famiglie e di un numero crescente di imprese, sensibili al progressivo allargamento dei campi d'estemalità positive e scoraggiate dalle estemalità negative delle aree centrali20.

Analogamente, ed a maggior ragione, la formazione di una

rete aperta di presidi formativi e di strutture per la ricerca scientifica di livello universitario, dì spazi per l'innovazione tecnologica e la ricerca applicata al servizio del sistema produttivo, è problema squisitamente metropolitano e regionale. Il

consolidamento ed il potenziamento delle strutture universitarie esistenti — articolate dentro alla città, in un rapporto di

imprescindibile e feconda integrazione, inconciliabile con le vecchie ipotesi di campus isolati — non sarebbe concretamente praticabile se non nel quadro di un'articolazione regionale del sistema universitario, che proprio in questi anni comincia a concretarsi e che le riforme in corso (dai diplomi intermedi alle scuole di specializzazione) presumibilmente favoriranno21; ed è

largamente all'esterno del comune di Torino, nel vasto e indefinibile territorio di Tecnocity, che si trovano le risorse e le opportunità più interessanti per la ricerca innovativa.

E ancora, quali che siano i criteri adottabili per definire l'ecosistema urbano torinese22, non v'è dubbio

che esso si allarghi assai al di là dei confini comunali, comprendendo spazi e risorse naturali (dalle aree collinari ai fiumi ai parchi naturali) e sistemi conurbati

congiuntamente interessati da una molteplicità di processi ambientali. L'ovvietà di queste e simili considerazioni sembra negare spazio ad ogni possibile tentativo di disegnare il futuro di Torino con strumenti come il Piano Regolatore Comunale ed, ancor più, di affidarne la gestione ad un soggetto così «confinato» nelle sue competenze come l'autorità municipale. Quanto al Piano, le critiche che da due anni hanno investito l'esperienza recentemente approdata all'adozione del Progetto Preliminare hanno effettivamente posto in evidenza come una serie di scelte assai discusse (l'eccessiva concentrazione di valori di centralità nella cosidetta «spina», lo scarso rilievo dato alla periferia, la sottovalutazione dei problemi ambientali ecc.) possa trovar spiegazione nella «miopia»

dell'approccio, rigidamente riferito alla realtà torinese. Quanto all'autorità municipale, la prospettiva disegnata dalla L. 142 sembra non lasciar dubbi sulla necessità e possibilità di trovare nell'«autorità

metropolitana» un soggetto collettivo di ben maggior credibilità ed efficacia. Bisogna tuttavia guardarsi dai rischi di una sterile fuga in avanti, suggerita dall'illusione che tutto si risolva con un opportuno «salto di scala» o con l'invenzione di un nuovo soggetto istituzionale. Non credo che i torinesi possano permettersi di rinviare ogni scelta urbanistica a quando sarà costituita l'autorità metropolitana e nuovi strumenti di piano potranno essere adottati. Ma soprattutto non credo che tali passaggi — certamente desiderabili — siano risolutivi.

Il dibattito riaperto dalla L. 142 sulle aree metropolitane ha ben mostrato come, dopo la rottura del «paradigma metropolitano» degli anni Sessanta, manchino oggi criteri univoci e sufficientemente condivisi per la delimitazione di tali aree e la configurazione del loro ruolo25.1 tradizionali

criteri economico-funzionali (che possono oggi applicarsi rilassando molte ipotesi semplificatrici smentite dagli sviluppi degli ultimi decenni, e sostituendo ad alcune nozioni classiche delle scienze regionali, come quella del gradiente urbano o della continuità spaziale dei processi di sviluppo, nuovi spunti teorici, come quelli suggeriti dalla teoria delle reti) sono tuttora assai utili per la comprensione dei problemi di governo: ma, ponendo in evidenza la natura essenzialmente dinamica, la discontinuità spaziale e l'imprevedibile variabilità dei processi di metropolizzazione, dissuadono dalla ricerca di forme e livelli di governo stabili, ottimali o definitivi. L'area torinese è oggi profondamente diversa da quella di dieci o vent'anni fa o da quella che diventerà tra dieci anni, ed è diversa a seconda dei problemi che si prendono in esame (abbastanza piccola se si considerano i sistemi di servizi locali, assai più vasta se si guarda ad esempio, al sistema di strutture in grado di definire il ruolo internazionale di Torino). I criteri fisico-strutturali possono e debbono essere rivisitati, soprattutto in riferimento alla possibilità di individuare gli ecosistemi metropolitani e di analizzarne gli squilibri ecologici: ma danno indicazioni assai diverse dai precedenti. Accanto a questi criteri di riconoscimento della realtà metropolitana, dovrebbero presumibilmente essere rivalutati i criteri

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simbolico-culturali, privilegiando le ragioni della durata, della permanenza, dell'auto-rappresentazione delle comunità politiche «territorializzate»: ma quanto conosciamo in proposito? La vicenda della delimitazione dell'area metropolitana torinese — come di gran parte delle altre — ha mostrato il prevalere di criteri politico-gestionali. Non v'è da scandalizzarsene, a patto che si evitino confusioni mistificatorie e che si tengano presenti alcune riserve. La prima è che non esiste (come dimostra l'esperienza internazionale) una dimensione ottimale del governo locale: essa varia in funzione dei problemi da affrontare e sarebbe sbagliato ritagliare le competenze istituzionali in funzione di una prestabilita (da chi?) lista dei problemi. Ciò è tanto più vero quanto più il governo del territorio si basi — secondo un orientamento ormai largamente condiviso, anche se ancora poco praticato — su politiche articolate «per problemi» anziché per aree di competenza. La seconda riserva è che, nella prospettiva della riforma aperta dalla L. 142, l'istituzione dell'autorità metropolitana è indissociabile dal riordino interno delle circoscrizioni territoriali dei comuni che ne fan parte (art. 20): solo così può maturare un autentico riorientamento dell'azione politica sulla base delle soggettività territoriali. La terza è che l'azione metropolitana non può in alcun modo sostituire l'azione regionale, che al contrario dovrebbe essere rilanciata e rafforzata (avvicinando le competenze delle regioni a statuto ordinario a quelle delle regioni a statuto speciale). Queste considerazioni potrebbero condurre a facili critiche sulla delimitazione metropolitana proposta nel 1992 dalla Giunta Regionale, che riecheggia la vecchia e fallimentare esperienza del Piano Intercomunale Torinese. Ma ciò che qui preme mettere in evidenza è piuttosto il fatto che le scelte urbanistiche del Comune di Torino non possono prescindere dal contesto metropolitano e regionale, nell'improbabile attesa di una palingenesi istituzionale. I contrasti che molti osservatori hanno, ad esempio, evidenziato tra il Progetto Preliminare di PRG di Torino e i programmi di sviluppo regionali non possono essere esorcizzati rinviandone la soluzione al

futuro governo metropolitano. Le scelte urbanistiche di Torino non possono evitare di assumere fin d'ora esplicitamente una prospettiva metropolitana e regionale, confrontandosi dialetticamente con le scelte che maturano a livello provinciale e regionale.

Af Alla luce delle considerazioni

^ * brevemente

richiamate, sembra utile tornare sulle ragioni che spiegano la «domanda di piano» emergente in questa fase critica di Torino. Esse infatti pongono allo stesso tempo l'esigenza di un ripensamento profondo del modo con cui la

pianificazione può tentare di rispondere alla crisi della città ed aiutare a costruirne il futuro. E un ripensamento che non può certo essere isolato dalla riflessione e dal dibattito nazionale e internazionale e che non inizia ora, ma ha già consolidato alcuni punti di convergenza.

Un primo punto che merita di essere richiamato riguarda lo spostamento dalla

concezione del piano (come oggetto singolo ed autoreferente) a quella del processo di pianificazione,

come processo dinamico e interattivo di un sistema complesso di piani ed atti di governo. Alcune leggi (in particolare la L. 431/1985, la L. 183/1989 e la L. 394/1991), introducendo nuove figure di piano dotate di speciali privilegi e fortemente interferenti con il sistema tradizionale della pianificazione urbanistica e territoriale, hanno reso ineludibile una concezione maggiormente sistemica e interattiva delle pratiche pianificatorie che soggetti diversi, con competenze diverse per settore e livello ed in momenti diversi, attuano sugli stessi territori. Tale concezione richiede certamente un riordino istituzionale (ispirato non già alle dipendenze gerarchiche della vecchia legge del 1942 ma alle autonomie interagenti volute dalla Costituzione) che riduca la confusione dei poteri, avvicinandoci all'assetto di altri paesi europei. Ma in ogni caso, perché il dialogo possa aver luogo, bisogna che i diversi piani possano «parlare tra loro», ed è in questa luce che va posto il rapporto tra il Piano Regolatore di Torino e quelli del contesto territoriale. Un secondo punto riguarda la conoscenza di campo,

Vladimir Dulov, Essere o non essere..., 1987. 8

(9)

In alto: Vladimir Dulov, Ognuno ha il diritto di esprimersi attraverso

la propria cultura, 1987 (manifesto dedicato all'indiano Léonard Peltier.

Dulov nel suo atelier a San Pietroburgo (fotografia: Mario Cresci). necessaria perché il dialogo

tra interlocutori diversi sia efficace (non a caso molte critiche di «miopia» che hanno investito il Progetto di PRG di Torino hanno posto in rilievo la carenza di analisi su temi di sicuro rilievo, come la struttura industriale o l'assetto delle periferie esteme). La rilevanza delle analisi valutative (delle descrizioni, delle interpretazioni e della comprensione delle realtà in cui si interviene) nei processi di piano è da qualche tempo, com'è noto, al centro del dibattito urbanistico24,

soprattutto in relazione: a) al progressivo spostamento dalla cultura dell'espansione alla cultura

della modificazione, che costringe a fare i conti, in modo assai più attento e pervasivo che in passato, con la «città esistente» in tutte le sue articolazioni territoriali; b) alla svolta ambientalista degli anni Ottanta, che, allargando all'intero territorio il principio della «conservazione innovativa», induce a ripartire dai dati ambientali, scientificamente analizzati, per la

ripianificazione territoriale. Entrambi i fattori assumono interesse peculiare nell'area torinese, per le ragioni che ho cercato succintamente di richiamare nel par. 2. Un terzo punto concerne l'esigenza di ridefinire le regole del gioco. Problema

d'attualità non certo solo per la pianificazione, in ordine alla riduzione degli sprechi, delle inefficienze e della corruzione. Ma che per la pianificazione assume un significato particolare, dopo il tramonto delle illusioni ordinatrici dell'urbanistica degli anni Sessanta e Settanta e dopo la devastante esperienza dell'«urbanistica contrattata» e delle «politiche per progetti» degli anni Ottanta. Restituire limpidezza e trasparenza ai processi di mercato, garantire gli interessi collettivi senza vincolare gli esiti degli imprevedibili processi sociali e senza interferire

arbitrariamente nelle interazioni tra le parti in gioco, individuare le poste ed il livello degli scontri senza illudersi di dominarli, è un compito «specifico» della pianificazione: soprattutto quando — come nel caso di Torino — si attraversa una fase di crisi e di

trasformazione che non consente certezze e che può profilare incognite drammatiche.

Ma un quarto punto concerne allora le strategie di rilancio, bonifica e trasformazione della città. Per uscire dalla crisi e ricominciare a costruire il futuro di Torino non basta fissare nuove regole del gioco: occorre un «progetto della città», un disegno strategico coraggioso e lungimirante e continuamente aggiornabile, capace di orientare le scelte di merito, i progetti specifici e le occasioni d'intervento. Un disegno basato su poche grandi scelte irrinunciabili di riequilibrio ecologico e di conservazione dei valori della città ma in grado anche di porre ipoteche sul riuso delle grandi risorse «libere» o liberabili, di fissare gli indirizzi delle «riforme urbane», risaldando le grandi utopie degli anni Settanta (sono davvero morte, insieme col progetto politico che le sorreggeva?) con le nuove utopie ambientaliste. E difficile pensare che la pianificazione possa lasciare ad altri questo impegno civile, rinunciare ad articolare con gli strumenti che le son propri una forte intenzionalità collettiva, a delineare quadri di riferimento coerenti su cui tentar la convergenza delle azioni che competono alla pluralità degli attori coinvolti. Ma esprimere una forte intenzionalità collettiva non significa pretendere di dominare gli eventi o di tracciare percorsi univoci di sviluppo che dalle scelte generali conducano implacabilmente fino alle più minute scelte attuative.

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illudersi di p r e v e d e r e l ' i m p r e v e d i b i l e o t e n t a r di s p e g n e r e l ' a u t o n o m a r e s p o n s a b i l i t à d e g l i attori locali. Al c o n t r a r i o , s e m b r a s e m p r e p i ù e v i d e n t e c h e s o l t a n t o a f f i d a n d o s i a s t r u m e n t i e ad a z i o n i di g o v e r n o flessibili, c a u t e e d i a l o g a n t i la p i a n i f i c a z i o n e p u ò s v i l u p p a r e a p p i e n o le p r o p r i e i n t e n z i o n i s t r a t e g i c h e . U n q u i n t o p u n t o c o n c e r n e i progetti di t r a s f o r m a z i o n e e riqualificazione: p i ù p r e c i s a m e n t e i p r o g e t t i « e s p l i c i t i » c h e (al c o n t r a r i o dei p r o g e t t i impliciti o s o m m e r s i , c h e g i o r n o p e r g i o r n o , s i l e n z i o s a m e n t e , c a m b i a n o il v o l t o e l ' u s o d e l l a città) e v i d e n z i a n o o p e r a z i o n i c o m p l e s s e , o r g a n i c h e od u n i t a r i e , di riuso e m o d i f i c a z i o n e f i s i c a o f u n z i o n a l e di p a r t i p i ù o m e n o i m p o r t a n t i d e l l a c i t t à e d e l t e r r i t o r i o a b i t a t o . L ' e s p e r i e n z a e u r o p e a d e g l i u l t i m i d e c e n n i h a d i m o s t r a t o c h e i p r o g e t t i di s i g n i f i c a t i v a t r a s f o r m a z i o n e u r b a n a p o s s o n o s v o l g e r e u n r u o l o i n s o s t i t u i b i l e n e l d a r f o r m a ai d e s i d e r i dei c i t t a d i n i " , nel r a p p r e s e n t a r e e r e n d e r d i s c u t i b i l i gli esiti attesi d a l l e t r a s f o r m a z i o n i s t e s s e , n e l c o s t r u i r e l u o g h i di c o n c e r t a z i o n e d e l l e s c e l t e di rilievo p u b b l i c o . M a l ' e s p e r i e n z a h a a n c h e e v i d e n z i a t o i r i s c h i d e l l e p o l i t i c h e « p e r p r o g e t t i » , s o p r a t t u t t o q u a n d o e s s e si s t a c c a n o d a l o g i c h e di p i a n o e si a f f i d a n o a l l ' i n d i m o s t r a b i l e a u t o r e f e r e n z i a l i t à dei s i n g o l i p r o g e t t i . E p e r q u e s t a r a g i o n e c h e q u e s t o q u i n t o p u n t o n o n p u ò e s s e r e s t a c c a t o d a q u e l l i c h e lo p r e c e d o n o . S o l t a n t o sulla b a s e di u n a b u o n a c o n o s c e n z a d e i q u a d r i a m b i e n t a l i e territoriali, in p r e s e n z a di c h i a r e r e g o l e d e l g i o c o e d i n f u n z i o n e di e s p l i c i t e e c o n d i v i s e s t r a t e g i e c o m p l e s s i v e , il p r o g e t t o u r b a n o p u ò c o n t r i b u i r e e f f i c a c e m e n t e a r i d i s e g n a r e il f u t u r o d e l l a città. 1 R. G a m b i n o « V u o t i urbani e nuove tecnologie», in «Dossier Torino» (a cura di R. Gambino, R. Radicioni. P. Tosoni), Spazio

e Società, n. 42/1988.

2 B. Dente, L. Bobbio, P. Fareri,

M. Molisi, Metropoli per

proget-ti, il Mulino, Bologna, 1990.

3I R E S (a cura di R. G a m b i n o , C.A. Barbieri, M. Garelli, S. Sac-comani) Progettare la città e il

territorio, Rosemberg e Sellier,

Torino 1989.

4 L. Mazza «Conservazione e tra-sformazione; una redefinizione del piano regolatore», conf. per l ' O r d i n e degli architetti della Provincia di Parma, Parma 1993. 5 Un aspetto importante del Pro-getto di nuovo P R G di Torino,

1 9 9 1 , c o n s i s t e c o m ' è n o t o nell'individuazione di una serie di grandi progetti che dovrebbero «anticipare» in termini attuativi l'approvazione del PRG: cfr. M. Garelli «Pianificazione e progetti a Torino» in La città occasionale (a cura di F. Indovina), F. Ange-li, Milano 1993.

6 F. Indovina, La città

occasiona-te, op. cit.

7 Cfr. in proposito gli studi

rac-colti da G. Fuà per il Progetto Fi-nalizzato CNR «Struttura ed evo-luzione dell'economia italiana», Sottoprogetto La diffusione

terri-toriale dello sviluppo,

pubblica-zioni varie a cura di G. Demat-teis, F. Corsico, A. Fubini, R. Gambino, A. Peano, A. Zeppetel-la.

8 R. G a m b i n o « C a m b i a m e n t o e

permanenza» in Atti e rassegna

tecnica, n. X L V , 9 - 1 0 , 1991.

9 A. Magnaghi (a cura di). Il

ter-ritorio dell' abitare, F. Angeli,

Milano 1990.

10 J. Derrida, Oggi l'Europa,

Gar-zanti, Milano 1991.

11 P. Soldatos «L'espansione

in-temazionale delle città europee: elementi di una strategia», in

Ef-fetto città (a cura di S. Conti, G.

Spriano), F o n d a z i o n e Agnelli, Torino 1990.

1 2J.B. Goddard «Per un'analisi

della città nell'era della rivolu-zione i n f o r m a t i c a » , in Effetto

città, op. cit.

13 Dopo gli sforzi della fine degli anni Settanta, culminati nel cosi-detto Piano delle permute e solo in parte avviati a realizzazione, nessun progetto comune tra i vari enti interessati ha affrontato si-s t e m a t i c a m e n t e i p r o b l e m i dell'edilizia universitaria. L'uni-versità manca tuttora di un pro-g r a m m a o r pro-g a n i c o di s v i l u p p o delle proprie strutture, mentre il Politecnico, pur avendo ottenuto, dopo aspri contrasti determinati da interferenze di interessi politi-co-finanziari non locali, la desti-nazione urbanistica dell'area del-le ex Officine Ferroviarie di C. C a s t e l f i d a r d o p e r la p r o p r i a espansione, è tuttora alle prese con una solitaria vertenza con le F.S. per l'acquisizione dell'area stessa, per la quale ha da tempo predisposto i progetti ed ottenuto i primi finanziamenti.

14 G. Dematteis, «Possibilità e

li-miti dello sviluppo locale». In-contri pratesi sullo sviluppo locale, IRIS, Villa Medicea di A n i -mino, 1991.

i 5F. Corsico, A. Peano (le GAM:

Torino)...

" U n a vasta serie di contributi sul tema è stata raccolta in occasione del Convegno sul marketing Ur-bano promosso dal COREP pres-so la CCIA di Torino, nel 1992.

17 F. Corsico, «Marketing

urba-n o » , r e l a z i o urba-n e i urba-n t r o d u t t i v a al Convegno di cui alla nota 16.

18 II Corriere della sera,

10/11/1992.

19 Linee coerentemente esposte

dal Progetto Preliminare del

PRG di Torino, a d o t t a t o n e l

1980, e dal contemporaneo

Sche-ma di Piano Territoriale per il Comprensorio di Torino.

2 0T a l i linee di tendenza erano

state colte già agli inizi degli an-ni Ottanta nelle indagian-ni su un migliaio di imprese del terziario avanzato curate da C. Emanuel e

R. Gambino per la Regione Pie-monte.

21 R. G a m b i n o , « U n i v e r s i t à e

città: culture a confronto», Prolu-s i o n e p e r l ' a n n o a c c a d e m i c o 1991-92 del Politecnico di Tori-no.

22 Mi riferisco qui alla nozione

operativa di ecosistema urbano introdotta dal ministero dell'am-biente ai fini della costruzione del Quadro territoriale di

riferi-mento per le politiche ambienta-li, Roma 1990.

23 Vedi interventi al Convegno

organizzato dall'INU a Torino su Torino, area metropolitana; vedi anche INU L'urbanistica delle

aree metropolitane, Alinea,

Fi-renze 1992.

24 L. Mazza, op. cit. in nota 4.

25 C. Macchi Cassia, Il grande

progetto urbano. La Nuova Italia

Scientifica, Roma 1991.

(11)

TORINO

POSSIBILE

di Walter Giuliano

e Anna Segre

X

La città dei primati perduti, disorientata nei palazzi del potere imprenditoriale non meno che nei corridoi del potere politico, ha davanti a sè un'alternativa allarmante: il riequilibrio o il declino. Le strategìe condizionanti della Fiat sembrano guardare altrove, al Sud dell'Italia e all'Est dell'Europa, trasferendo progressivamente gli impianti fuori dell'area torinese. E già accaduto con il binomio Chivasso-Melfi, con i nuovi stabilimenti in Polonia, e accadrà ancora. 11 GFT ha scelto il Sud del mondo, trasferendo alcuni tra i suoi centri dì interesse produttivo nel sud-est asiatico e in altri paesi del Terzo Mondo. L'Olivetti appare intenzionata a seguire analoghi destini. Le nuove spietate concorrenze internazionali impongono politiche industriali che non tengono più in alcuna considerazione l'utilità sociale del lavoro, scegliendo unicamente la strada della massimizzazione dei profitti. Torino città fabbrica non esìste quasi più e poco o nulla le si è sostituito. Torino laboratorio della complessità non è mai nata. Insieme alla produzione è calata anche la popolazione. Ma siamo certi che gli indici quantitativi siano davvero segnali di un declino da intendersi in una accezione tutta negativa? Non potrebbe essere questa una congiuntura favorevole, un'opportunità per liberarsi dai condizionamenti, anche culturali, della civiltà dell'automobile e più in generale dei miti dell'industrializzazione e della crescita senza limiti, come valori positivi?

II modello di sviluppo industriale comune a quasi tutti i paesi del Nord del mondo non ammette limiti alla crescita, all'espansione delle produzioni e dei mercati e identifica la stagnazione con la recessione; l'arresto della crescita con la crisi, ignorando i limiti dello spazio e delle risorse del pianeta. Per contro riduce a sinonimi crescita, sviluppo e progresso. Questi equivoci di fondo hanno accumunato entrambe le correnti di pensiero emerse

dall'Ottocento, il liberismo e il marxismo.

Questo secolo, con la corrente di pensiero ecologista, ha invece introdotto un nuovo fattore che diventa superiore a tutti gli altri: la compatibilità delle attività e dei

comportamenti umani con lo

stato dell'ambiente inteso come un insieme di elementi naturali e artificiali strettamente interconnessi e condizionantisi gli uni con gli altri al fine di consentire il perpetuarsi della vita del pianeta e dei suoi ospiti. Non va peraltro dimenticato, nella nostra analisi, il fatto che la ricchezza non si crea solo con l'industria; l'industria di per sè non produce beni, li trasforma. Diventa dunque del tutto legittima e sempre attuale l'antica domanda sul cosa produrre, come produrlo e per chi. Il modo di produrre, l'organizzazione del lavoro, il prodotto e il suo impiego nella società industriale sono questioni troppo importanti per lasciarle unicamente nelle mani dell'impresa, subendone poi, senza discussione, i costi e le conseguenze. Ripensare l'impresa, la produzione, la circolazione delle merci, le merci stesse, l'orario di lavoro e di vita, il ruolo del lavoro, sono sfide alle quali occorre dare nuove risposte che tengano conto dell'impatto ambientale dell'attività umana. Attenzione e impegno scientifico vanno spesi anche sul terreno della ricerca tecnologica, affinché l'innovazione porti con sè modi e forme della produzione che non contribuiscano alla distruzione delle risorse e a nuovi inquinamenti. Piani di riconversione industriale e piani di mobilità del lavoro devono porre le premesse per costruire la possibile transizione verso un modo nuovo di produrre e verso lo sviluppo ecosostenibile. In questo la crisi può diventare opportunità. E deve consentire la ricerca di soluzioni radicali senza percorrere le pericolose scorciatoie che portano imprese e produzioni nocive all'ambiente naturale e alla salute pubblica a trasferirsi verso le aree marginali del pianeta, sempre più spesso terreni di una nuova e non meno deleteria

colonizzazione. In questa maniera non si farebbe altro che protrarre di qualche tempo l'agonia di un modello di sviluppo ormai

inadeguato, spostandone di qualche decennio il collasso definitivo. Occorre invece entrare nell'ordine di idee che il secolo che è alle porte deve essere il secolo della «non crescita», in maniera da trovare il punto di equilibrio di un nuovo sistema mondiale che garantisca la sopravvivenza del pianeta. Che significa porre le basi per una società con minore opulenza ma anche più equa.

(12)

senza privilegi e dunque senza povertà. L'elemento essenziale di questa battaglia che è prima di tutto culturale, sta nella sconfitta di quella che Illich chiama la «modernizzazione della povertà», il cui effetto è un aumento costante del tasso di frustrazione che supera ampiamente quello della produzione. Non appena determinati fattori, sino a quel momento privilegio di pochi, diventano alla portata delle masse, questi fattori diventano immediatamente devalorizzati e il limite della povertà si alza di un gradino, dando origine a nuovi privilegi inaccessibili, se non a una élite che continua a permanere tale. Si innesca così un processo di induzione dei bisogni che in realtà non sono tali e che riproducono la necessità della crescita materiale.

Quella che oggi bisogna mettere in discussione per dare soluzioni effettive e reali alla crisi, è la nostra visione del mondo e i modelli di comportamento sociale. Le soluzioni non possono più essere unicamente cercate nella scienza, nell'industria e nella tecnologia. Solo attraverso la messa in discussione del modello di sviluppo basato sulla crescita si possono trovare nuove strade per rilanciare lo sviluppo. La nuova organizzazione della materia indotta dal processo industriale è ormai in rotta di collisione con il mondo reale, la biosfera, da cui trae le risorse prime per il suo mantenimento e in cui scarica i prodotti di rifiuto. Per la prima legge delle termodinamica il processo di trasformazione delle risorse naturali origina prodotti di scarto, la cui tossicità è direttamente proporzionale alla crescita

dell'industrializzazione e che anziché rientrare nei cicli del mondo naturale vanno ad accumularsi con aumento dell'entropia.

Questo insieme di eventi, di fatto, ha sconvolto i due principi basilari del comportamento della biosfera: la sua tendenza alla stabilità e la sua capacità di autoregolamentazione. Per tentare di stabilire un riequilibrio tra tecnosfera ed ecosfera, restaurando il funzionamento dei sistemi naturali, è indispensabile una contrazione economica pianificata.

In questa visione l'attuale crisi diventa una vera e propria opportunità per invertire la rotta che conduce l'umanità dritta verso il collasso del pianeta. L'epoca dell'industrializzazione ha infatti dilapidato, in poco più

di un secolo, più risorse di quante ne siano state consumate

complessivamente negli altri periodi storici ed è impensabile che si possa continuare su questa strada. Come si può nutrire la popolazione mondiale se si ridimensiona il sistema industriale? Questa è la domanda che nasce spontanea in ognuno e che deriva da una delle convinzioni più radicate nel modo di pensare degli abitanti del Nord del mondo. Ma è una convinzione priva di fondamento, che nasce dal considerare erroneamente la disponibilità di cibo non già in termini globali ma di ogni singola nazione. Una concezione che ha prodotto quello scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo per cui i paesi industrializzati non producono di più rispetto a quelli sottosviluppati, ma costringono questi ultimi a privarsi del loro cibo in cambio di prodotti industriali che appartengono quasi sempre alla categoria dei beni prodotti per dare risposta ai bisogni indotti e che rafforzano il mito dell'industrializzazione quale unica via allo sviluppo.

J

Da questa premessa

indispensabile — che sta alla radice del ragionamento ambientalista che si fa carico del sistema globale all'interno del quale affronta il particolare e che sposta i termini del nostro ragionare sovvertendo radicati luoghi comuni — nascono prospettive diverse per immaginare la Torino di fine secolo; una Torino possibile per il nuovo millennio. Senza queste nuove coordinate si rischia di inseguire il contingente di questa crisi, in realtà preparandone altre dieci, cento, probabilmente sempre più gravi. E inquadrata in questo contesto l'attuale crisi non appare probabilmente preoccupante, così come appare del tutto fisiologica la contrazione delle produzioni nel settore automobilistico o quella della popolazione. Certo questo non significa, in attesa di futuro, trascurare il presente e non indicare risposte per l'oggi. Ma induce a darle, se possibile, già proiettate verso lo scenario che si andrà inevitabilmente delineando stante l'impossibilità di violare le leggi della natura senza subirne pesanti conseguenze.

In questa direzione non si può continuare a immaginare una Torino unicamente come città di produzione, ma

occorre pensare a una città polifunzionale, capace di esprimere attività e culture diversificate. Tanto più oggi, nel momento dell'incertezza sulle scelte future

dell'industria

automobilistica, che dopo gli stabilimenti potrebbe decidere di rilocalizzare altrove anche la mente dirigenziale e quella progettuale, tecnico-scientifica.

Per costruire le prospettive di una evoluzione

polifunzionale della città, non è indifferente il disegno territoriale che occorrerà ridefinire con il nuovo piano regolatore.

All'interno del tessuto urbano si sono liberati, a seconda delle stime, da 1 a 3 milioni di metri quadri. Si tratta per la gran parte di aree occupate da contenitori industriali difficilmente destinabili, sic et simpliciter, al recupero e al riuso. Se per alcuni, anche tenendo conto del pregio architettonico, ciò potrà avvenire, per altri si apre presumibilmente non solo il problema

dell'abbattimento, ma anche quello — forse più preoccupante — della bonifica ambientale del sito. Per farne cosa? Sicuramente per riqualificare sotto il profilo dei servizi sociali e del verde urbano (che non sia solo quello di

rappresentanza, magari su soletta di cemento per coprire percorsi ferroviari o grandi parcheggi) vaste aree del centro cittadino, ma anche della periferia già operaia. Altrettanto auspicabilmente, per reinsediarvi nuove forme di artigianato e di piccola industria compatibili con la presenza residenziale. La stessa strada che

occorrerebbe percorrere per il centro storico cittadino, oggi desolatamente consegnato quasi completamente nelle mani della terziarizzazione ricca che lo ha completamente svuotato di vita. Per tornare a conquistarlo alla vita occorre da un lato sottrarre agli stessi destini del passato quelle parti del tessuto urbano centrale ancora utilizzati a fini abitativi con il recupero, il risanamento e la

riorganizzazione del centro storico che mantengano le attuali destinazioni d'uso; dall'altro, infittire le occasioni di incontro culturale con spazi di socialità pubblici. Le possibilità di espressione, il recupero della manualità e della capacità di fare da sè, rappresentano strumenti molto importanti per ridare fiducia alle nuove 12

(13)

»

Viktor Kundysev, Il mancino di N. Leskov per il teatro «Len. Sover», 1981. generazioni, per metterle alla

prova, strappandole al disagio, all'emarginazione, alla noia metropolitana. La città deve inoltre dare finalmente risposte anche al problema della mobilità. Una risposta che anche qui dovrà sottrarsi alla sudditanza psicologica e culturale verso l'automobile per privilegiare veramente il mezzo pubblico. Forse Torino ha bisogno di mandare nel sottosuolo non tanto i convogli delle metropolitane con i suoi passeggeri, ma le automobili. Non bisogna continuare ad avere il timore di penalizzare l'automobile e così facendo rendere di fatto non competitivo il trasporto pubblico. La superficie della città, la Torino dei viali alberati, va restituita ai tram, ai filobus, ai sistemi di trasporto non convenzionali, alle biciclette, agli uomini e al loro bisogno di incontrarsi, di parlare, di sperimentare nuove forme di socialità. Le linee ferroviarie urbane devono essere convertite in linea metropolitane al pari di quelle locali che collegano la città con l'area della conurbazione metropolitana.

j t o Ed è proprio un'area vasta, ben oltre i ^ ^ ^ ^ confini

amministrativi, quella cui deve guardare la

Torino possibile. La pianificazione territoriale non può evitare di allargare il raggio di azione a tutta l'area conurbata che gravita sul capoluogo, non trascurando l'intero territorio regionale, e deve evitare di seguire input di corto respiro; al contrario deve saper tutelare e valorizzare le opportunità ambientali, in cui il tessuto urbano si colloca. Dalla prima visione nasce ad esempio l'opzione della spina centrale proposta dal Piano regolatore in discussione; un elemento che nelle intenzioni dei progettisti doveva essere parametro qualificante dimostra di essere già oggi desueto, prima ancora della conclusione dell'iter del Piano, proprio perché basato su un'ipotesi di

terziarizzazione del centro molto dubbia se non già, di fatto, fallita.

La seconda visione non può invece mancare di guardare ai preziosi fattori ambientali che l'area metropolitana, nonostante tutto, mantiene: la collina torinese, i parchi di Stupinigi e della Mandria, la collina morenica Rivoli-Avigliana, le aree residuali a parco lungo le aste fluviali che attraversano la città. Nel momento in cui tra i fattori localizzativi per le attività avanzate — spesso di tipo «leggero», a basso impatto

ambientale — assume sempre maggior importanza l'alta qualità ambientale, diventa importante puntare su di essa per un rilancio della proposta della città come polo tecnico-scientifico capace di attrarre le imprese dell'innovazione.

Certo i fattori ambientali naturali non sono sufficienti. Occorre produrre uno sforzo anche per alzare il profilo culturale della città, per migliorare la qualità della vita urbana.

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Torino mantiene

centri di produzione culturale non indifferenti, sia pubblici che privati, sia umanistici che scientifici. Ma paiono anch'essi soffrire di un momento di riflessione, se non di stagnazione. Incapaci di rispondere con coraggio imprenditoriale e con fantasia alla sfida dell'ultimo decennio del secolo. L'ambizione e lo sforzo intellettuale e imprenditoriale che hanno visto nascere nella nostra città il Salone del libro devono farne un elemento di traino per le prestigiose, ma un po' appannate, case editrici torinesi che hanno segnato un momento non indifferente della storia culturale del nostro paese. Né possiamo dimenticare la necessità di valorizzare anche il senso turistico, il patrimonio artistico, storico e architettonico della città e delle sue vicinanze. Guai se dopo aver visto via via allontanarsi le opportunità che pure, per prima, aveva saputo creare nei campi del cinema, delle radiodiffusioni, della moda, Torino dovesse continuare a rimanere — ma fino a quando? — ancora una volta solo con l'automobile. E non dimentichiamo che Torino è fucina della cultura della solidarietà, contro emarginazioni e intolleranze nuove e vecchie.

L'Arsenale della pace, il Gruppo Abele, le decine di associazioni di volontariato, laiche o confessionali, che operano nei campi dell'assistenza sociale e sanitaria, della prima accoglienza, della pace, della cooperazione internazionale, rappresentano centri di diffusione di nuovi comportamenti e di nuove consapevolezze che di fatto rappresentano i pilastri su cui costruire quel nuovo modello di vita che richiamavamo in premessa.

^ ^ Torino nella sua prospettiva di fine M W millennio deve anche

immaginare un suo ruolo proiettato all'esterno SfriJff rt»Minu«f/([ff Ha '.MCmHy* 7fj,y •H 1 f • IOHCKO» ameMAtt KocopytCw* 2)Wjyi ¿fattói Koporicts m-jim*-B.fiMurnp^sBA [Hoìd ApmHcmo. riOffnAHOBH<X 13

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più di quanto non abbia saputo fare sinora. Nella prospettiva europea, deve sapersi collocare al pari di altre città straniere, in una grande macro-regione delle Alpi occidentali. Le Alpi non più concepite come ostacolo, barriera da superare, da vincere, ma come grande regione cerniera dell'Europa, via di collegamento per lo scambio di persone, di merci, di idee.

E per realizzare questa prospettiva sarebbe limitante pensare sia sufficiente una ferrovia ad alta velocità che colleghi Torino con Lione. Forse non è nemmeno questa la soluzione ottimale, visto che le Alpi piemontesi si trovano piuttosto al centro dell'intersezione dei due archi di sviluppo europeo, la cosiddetta «banana» Nord-Sud e il cosiddetto corridoio mediterraneo, l'arco Nord Italia-Sud Francia-Penisola Iberica.

Una situazione che pone la nostra regione in una situazione geografica che può diventare strategica per il suo rilancio, ma che ne può anche segnare la condanna. Perché la tanto invocata alta velocità ferroviaria potrebe rendere ancor più periferiche le aree metropolitane di rango medio come Torino, Lione o Marsiglia, a favore dei nodi di livello alto, Barcellona, Milano, Parigi. Il Piemonte, all'interno della macro-regione delle Alpi occidentali, vanta indicatori di ricchezza territoriale da primato. Ma un sistema economico transfrontaliero ha bisogno di integrazione profonda tra i progetti di sviluppo dell'area in comune e questo progetto non può nascere dalla volontà di poche oligarchie di potere che trovano l'accordo per la realizzazione di una grande infrastruttura senza averne correttamente individuato l'utilità.

Solo la volontà concertata delle popolazioni che vivono quel territorio potrà saper trovare luoghi e momenti di incontro per decidere delle modalità del loro sviluppo, che dovrà essere non distruttivo, prima ancora che dell'ambiente naturale, dell'uomo e della società.

LA FIAT,

MA SENZA AGNELLI

di Sergio Chiamparino

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«I popoli cristiani mi sembrano offrire al nostro tempo uno spettacolo straordinario: il movimento che li trascina è ormai troppo forte perché sia possibile sospenderlo, ma non è ancora tanto rapido perché sia impossibile dirigerlo: il loro destino è nelle loro mani, ma presto sfuggirà loro». Questo straordinario affresco dell'Italia di oggi è stato in realtà scritto, da Alexis de Tocqueville poco dopo il 1830 nell'introduzione de «La Democrazia in America».

Torino, con la sua prossima scadenza elettorale può forse rappresentare il primo luogo altamente significativo in cui le forze che vogliono ricostruire il paese possono ancora tentare di dirigere quel movimento. Per questo è giusto partire

impietosamente dagli interrogativi di fondo; e quello che propone Tropea all'inizio del suo scritto su «Sisifo» dello scorso dicembre lo è: «è possibile immaginare Torino senza la Fiat e la Fiat senza Agnelli?».

La risposta che vorrei dare è la seguente: no, non è possibile nei tempi

ragionevolmente prevedibili immaginare un futuro di Torino senza la Fiat; si, è possibile, o meglio, è necessario che i destini della Fiat si disgiungano da quelli della famiglia Agnelli e dal blocco di interessi che attorno ad essa si esprime. In altre parole, la Fiat per quanto riorganizzata, cambiata, smagrita in alcune funzioni ed ingrossata in altre, deve restare a Torino. Le possibilità che ciò avvenga sono

(paradossalmente ma non troppo) pressoché direttamente proporzionali alla possibilità che si «defamiliarizzi» la struttura di comando della Fabbrica Italiana Automobili Torino.

Perché Torino non J j può fare a meno

della Fiat? Per la semplice ragione che le vocazioni produttive non sono un abbellimento culturale della struttura produttiva di una determinata area e, soprattutto, esse non si inventano.

Il radicamento economico, sociale e culturale della produzione automobilistica a Torino, lo known how e le risorse esistenti in questo comparto produttivo sono tali che il cercare un'attività trainante alternativa all'auto per Torino vuol dire oggi rinunciare a qualsiasi

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