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Le prime esperienze “spontanee” di disciplina dei referendum local

GLI ISTITUTI DI PARTECIPAZIONE POPOLARE NEGLI E NTI L OCAL

2.3. Le prime esperienze “spontanee” di disciplina dei referendum local

Nell'Italia pre-repubblicana, le uniche forme di referendum locali previste erano relative all'assunzione diretta di pubblici servizi da parte dei Comuni. La prima di tali disposizioni risale alla L. n. 103/190395, che

all'articolo 13 prevedeva lo svolgimento di una consultazione degli elettori del Comune per l'approvazione di ogni delibera comunale avente ad oggetto la municipalizzazione di un servizio. Il ricorso al referendum è stato poi reso facoltativo, in quanto condizionato – per effetto dell'art. 10 del R.D. 30 dicembre 1923 n. 3047, poi confluito nell'art. 12 del R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578 – all'opposizione di un ventesimo degli elettori del Comune, oppure di un terzo dei consiglieri comunali. Tali disposizioni sono state, in ogni caso, ritenute implicitamente abrogate ad opera dell'art. 343 del R.D. 3 marzo 1934, n. 38396.

In epoca repubblicana, prima dell'entrata in vigore della L. 142/1990, l'unico riferimento ad istituti di democrazia diretta (rectius: “istituti di partecipazione popolare”97) in ambito comunale – fatta eccezione per i

95 “Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni”, pubblicata in G.U. 3 aprile 1903. Le modalità di svolgimento del referendum erano disciplinate agli artt. 91 e ss. Del regolamento d'attuazione (R.D. 10 marzo 1904, n. 108).

96 “Testo unico della legge comunale e provinciale”. L'art. 343 richiamato disponeva infatti che le “deliberazioni dei Comuni, delle Province e dei Consorzi, integrate, ove occorra, con le prescritte approvazioni o comunque divenute esecutive, sono provvedimenti definitivi”, con la conseguenza che non residuava alcun margine per l'esperimento di consultazioni popolari. Cfr. B. Caravita, I referendum locali tra

sperimentazione, orientamenti giurisprudenziali e innovazioni legilsative, in Politica del Diritto, 1 del 1989, pp. 23-45.

97 O anche “partecipazione popolare istituzionale” in contrapposizione agli strumenti informali di partecipazione dei cittadini alle politiche pubbliche, ivi comprese le assemblee civiche autoconvocate, sondaggi, strumenti di pressione. Cfr. M. Luciani,

referendum sulle variazioni territoriali, dei quali si è già detto – era contenuto nell'art. 15 della L. 8 aprile 1976, n. 278 (Norme sul

decentramento e sulla partecipazione dei cittadini nella amministrazione del comune), che disciplinava due forme di petizione: la prima poteva essere

rivolta al Consiglio comunale dagli elettori del Comune, ma con l'esclusiva finalità di “promuovere il decentramento comunale” ai sensi della stessa legge; l'altra petizione, invece, poteva essere rivolta al Consiglio circoscrizionale in relazione agli “affari di sua competenza”.

Solo per la petizione “circoscrizionale” si prevedeva un minimo di sottoscrittori “pari a non meno di un decimo degli elettori della circoscrizione98”.

Entrambe le petizioni comportavano effetti obbligatori per gli organi a cui erano rivolte: infatti, il quarto comma dell'art. 15 disponeva che: “Il consiglio comunale e il consiglio circoscrizionale devono, entro sessanta giorni, esprimere proprie determinazioni in ordine al contenuto della petizione, secondo le modalità previste dal regolamento approvato dal consiglio comunale”.

Se si considera che tra gli affari di competenza del Consiglio circoscrizionale rientrava anche l'espressione di “pareri, su propria iniziativa o su richiesta dell'amministrazione comunale, sulle materie di competenza del consiglio comunale”99, di fatto sarebbe stato possibile richiedere una

petizione su qualunque materia afferente al governo del Comune. Potrebbe dunque sorprendere che, mentre l'oggetto delle petizioni comunali fosse così ridotto, quello delle petizioni circoscrizionali fosse al contrario tanto ampio. La ratio della norma va rintracciata nell'intento di favorire la partecipazione dei cittadini proprio attraverso le circoscrizioni: un organo politico intermedio, tra il Comune e i cittadini residenti, con poteri prevalentemente consultivi ed in grado di convocare “assemblee per la pubblica discussione dei problemi inerenti alla circoscrizione”100.

Proprio in quest'ottica, dunque, l'oggetto della petizione “comunale” è intende “una partecipazione che è praticata tramite istituti previsti e regolati dal diritto e che produce effetti rivolti direttamente alle istituzioni”.

98 Art. 15, terzo comma, L.278/1976.

99 Art. 12, primo comma, lett. d), L.278/1976. 100 Art. 12, primo comma, lett. b), L.278/1976.

limitato alla possibilità di richiedere forme di decentramento comunale: mediante l'istituzione delle circoscrizioni ed il conferimento alle medesime di maggiori funzioni, infatti, i cittadini avrebbero avuto la possibilità di ottenere un maggior grado di partecipazione alla vita della comunità.

D'altra parte, a voler interpretare l'oggetto delle petizioni comunali in maniera eccessivamente restrittiva, si perverrebbe all'assurda conclusione che i cittadini di Comuni di minori dimensioni – all'interno dei quali sarebbe stata inutile l'istituzione di circoscrizioni – avrebbero avuto minori possibilità di partecipare all'amministrazione del Comune, il che è palesemente contrario alla ratio della legge, ovvero l'intento di favorire la partecipazione dei cittadini al governo dei Comuni. Tale ratio emerge in maniera palese dal dettato normativo, fin dall'intitolazione della legge che fa espresso riferimento alla “partecipazione dei cittadini nella amministrazione del comune” ed è resa ancora più esplicita dalla lettura dei lavori parlamentari, che inquadrano l'approvazione della nella diffusa e crescente esigenza “di una libertà attiva che consiste nell'esercizio della partecipazione e del controllo e nell'attuazione di forme di autogoverno”101

Valorizzando quest'ultimo aspetto non è peregrina la tesi che i Comuni potessero disciplinare ulteriori forme di partecipazione istituzionale, nei limiti delle proprie competenze amministrative.

In questo quadro si possono spiegare i primi tentativi, da parte degli stessi Comuni, di introdurre alcune forme di referendum nei propri regolamenti già negli anni '80102 del secolo scorso e quindi con notevole

101 Cfr. relazione dell'On. Paolo Cabras nel corso della seduta della Camera dei Deputati del 5 aprile 1976 per la discussione del P.d.l. n.4387, pp. 27184 e ss. Ivi, l'On. Cabras affermava altresì che: “Il carattere di legge quadro di questo testo apre la prospettiva di un'attuazione ampia e di una sperimentazione articolata”. Il testo della relazione è reperibile all'interno del sito web http://legislature.camera.it.

102 Cfr. P. Barrera, Il referendum nei regolamenti comunali, in Democrazia e diritto, n. 1 (suppl.) 1990, pp. 71-90. L'A., durante il periodo di discussione dell'allora prossimo testo unico sull'ordinamento degli enti locali, segnala 11 regolamenti di altrettanti Comuni che avevano già negli anni precedenti disciplinato l'istituto referendario, evidenziando la maggiore “apertura” delle discipline locali rispetto alla diffidenza del legislatore statale. In particolare, mentre – come si vedrà meglio infra – la L.142/1990 avrebbe previsto il solo “referendum consultivo”, in alcuni regolamenti locali erano disciplinati referendum “propositivi” ed “abrogativi”.

anticipo rispetto alla riforma dell'ordinamento degli enti locali103. Le istanze

di partecipazione da parte dei cittadini, d'altronde, che in quegli anni si manifestavano vistosamente ad ogni livello, erano ancora più sentite e più pressanti nelle comunità locali, nelle quali il legame tra elettori e governanti è più intenso e ravvicinato104.

Il diffondersi di regolamenti comunali in materia referendaria ed il concreto svolgimento di numerose consultazioni spinsero la dottrina ad interrogarsi sulla loro ammissibilità, in assenza di una precisa disciplina legislativa105. Si sosteneva, da una parte106, che nel silenzio del legislatore

fossero del tutto legittimi i regolamenti comunali che disciplinassero forme di consultazione popolare. Ciò, infatti, sarebbe stato del tutto conforme al dettato costituzionale, data la notevole apertura rispetto agli istituti referendari (artt. 75, 123, 132, 133, 138 Cost.), pur all'interno di un modello, ivi delineato, di democrazia rappresentativa. Inoltre, la disciplina di istituti 103 E vale la pena di segnalare fin d'ora che, sulla base di dati raccolti ai fini della presente ricerca, tra i Comuni che hanno accettato di inviare informazioni dettagliate, si registrano almeno diversi casi di referendum consultivi svolti prima dell'entrata in vigore della L.142/1990, tra i quali si segnalano quelli nei Comuni di Genova e di Ravenna. In particolare, nel Comune di Genova si è svolta – in concomitanza con cinque referendum nazionali – in data 8 novembre 1987 una consultazione comunale recante il seguente quesito: “E' favorevole a una progressiva e graduale limitazione del traffico cittadino attraverso un sempre maggiore utilizzo del mezzo pubblico e un ragionato sviluppo delle isole pedonali?”. Anche nel Comune di Ravenna si è tenuto un referendum sul traffico cittadino, svoltosi il 18 giugno 1989. Per ulteriori approfondimenti sulla prassi delle consultazioni referendarie nei maggiori comuni si rinvia al capitolo dedicato. Altre consultazioni sul traffico svolte prima della legge 142/1990 sono segnalate in A. D'Andrea, Partecipazione e “diritti quotidiani”. Le

consultazioni locali sul traffico, in Democrazia e diritto, n. 1 (suppl.) del 1990, pp. 91-

107. V. anche infra al Cap. 4.

104 B. Pezzini, Il referendum consultivo nel contesto istituzionale italiano, cit., pag. 444 e ss.

105 A. Bardusco, Sui referendum locali, in Amministrare, n.1/2, 1989, p. 126; B. Caravita,

I referendum locali tra sperimentazione, orientamenti giuridici e innovazioni legislative, cit., p. 23; S. Bartole, E. Bettinelli, Trieste: cronaca e problemi di una consultazione popolare non svolta, in Il Politico, n. 4, 1980, p. 639; D. Nocilla, Trieste e la “Ragion Politica” in Diritto e società, n. 2, 1980, pp. 315-328; Vipiana, Referendum consultivi regionali e comunali, in Diritto e società, 1990, 239.

referendari avrebbe dato attuazione al principio di sovranità popolare espresso dall'art. 1 della Costituzione107 e sarebbe stata consentita dal

principio di autonomia degli enti locali contenuto nell'art. 5 e nell'originario art. 128108 Cost. I referendum, secondo questo orientamento dottrinale

avrebbero dovuto essere attinenti a questioni di esclusivo interesse comunale109, in ragione del principio della territorialità degli enti locali.

107 Cfr. Fois, Relazione al Convegno Il dettato costituzionale in tema di referendum (Atti

del 2° convegno giuridico promosso dal gruppo parlamentare radicale), 1978, 11 e ss.

Ma, in realtà, proprio dalla lettera dell'art. 1 Cost. è possibile rilevare argomenti che si oppongono all'introduzione di meccanismi di esercizio della sovranità per mezzo di fonti del diritto di rango subcostituzionale. Ed infatti, come noto, la Costituzione consente al popolo l'esercizio della sovranità nelle “forme e nei limiti della Costituzione”. Si è, tuttavia, affermato che la necessità di una legge costituzionale si rinvenga solo nell'ipotesi in cui “si voglia agire sul piano nazionale, cioé nel rapporto con gli organi titolari dell'indirizzo politico” (B. Pezzini, Il referendum consultivo nel

contesto istituzionale italiano, cit., pag. 436). Secondo un orientamento intermedio la

disciplina di referendum concernenti l'attività amministrativa può essere contenuta anche in leggi ordinarie, peraltro nell'ambito dei limiti ricavabili dal dettato costituzionale, considerando cioé che “il modello della democrazia rappresentativa per tutti gli enti cui si ritiene connaturato secondo i principi costituzionali non può essere svuotato per effetto di referendum, il referendum perciò non potrebbe certo venir configurato nell'ordinamento (o comunque inteso a livello di prassi) come istituto generale/doveroso/vincolante”, mentre in assenza di un dettato legislativo sarebbero comunque legittimi i referendum consultivi “non trattandosi né di potere d'impero né di porre vincoli rispetto all'agire […] almeno per quegli enti che godono di autonomia politica” (E. Codini, Referendum nel diritto amministrativo, 1997, in Digesto –

Discipline Pubblicistiche, www.leggiditalia.it).

108 Tuttavia, lo stesso art. 128 rappresentava un ostacolo all'introduzione “spontanea”, da parte dei Comuni, di istituti referendari di portata locale. Ed infatti, il testo dell'articolo in parola, pur riconoscendo che “Provincie e Comuni” quali “enti autonomi”, ne legava l'autonomia ai “principî fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”. Conseguentemente, in assenza di una previa legge statale che li consentisse, si sarebbe potuta sostenere l'illegittimità dei referendum comunali. Come noto, l'art. 128 Cost. è stato abrogato dalla L. cost. 3/2001, mentre il principio autonomistico è tuttavia stato ribadito – e rinforzato – nel novellato art. 114 Cost. che, al suo secondo comma stabilisce che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Nonostante la portata innovativa della disposizione sia stata

Secondo un diverso orientamento110, invece, in assenza di una base

legislativa o costituzionale non sarebbe configurabile alcuna potestà dei Comuni di indire (e ancor meno di disciplinare) referendum consultivi, neppure su questioni di esclusivo interesse della popolazione locale111. Tale

tesi trova il suo fondamento nella negazione dell'argomento dell'esistenza di una norma generale esclusiva, in base alla quale tutto ciò che non sia espressamente proibito possa considerarsi lecito, e nel rilievo che,

ridimensionata da parte della dottrina e – soprattutto – dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, il riconoscimento di statuti, poteri e funzioni proprie di tali enti, ed il rinvio direttamente ai principi fissati dalla Costituzione, consentono di sostenere che gli Enti Locali (pur non “parificati” alle Regioni) possano esercitare il proprio potere statutario anche per sperimentare nuovi strumenti democratici, a condizione che siano compatibili con i principi costituzionali e comunque non in contrasto con le leggi statali che regolano il proprio ordinamento. Ad ogni modo, la questione sulla legittimità dei referendum locali ed anche “non” meramente consultivi, era già stata superata con la L. 142/1990, prima, ed il D.Lgs. 267/2000, poi.

109 B. Caravita, I referendum locali, cit. Secondo l'A. sarebbero ammissibili referendum consultivi comunali, solo laddove siano relativi a questioni di interesse locale e che non travalichino i confini del Comune. Ad esempio, sarebbe “inammissibile” una consultazione avente ad oggetto la chiusura o meno di una fabbrica in quanto “gli interessi in questione non sono specificamente propri della popolazione di quel Comuni, ma fanno capo a gruppi assai più ampi di popolazione” (p. 28). L'A. fa comunque salva l'ipotesi in cui i Comuni sottopongano a referendum l'esercizio di propri poteri di proposta o iniziativa sulla base – ad esempio – degli Statuti regionali: in questi casi, l'oggetto del referendum pur travalicando l'ambito comunale, verterebbe in realtà “sull'opportunità che il Comune, in quanto portatore dell'interesse della collettività locale” si faccia promotore di specifiche iniziative (p. 29). In definitiva, l'oggetto del referendum locale, per Caravita, avrebbe potuto anche eccedere, in concreto, i limiti territoriali del Comune, in presenza di un interesse della comunità locale (Contra, assumendo, invece, una coincidenza tra competenze comunali e raggio di azione dei referendum comunali L. Vandelli, Consultazioni popolari a livello

locale: prospettive e ipotesi, in Regione e governo locale, nn. 3/5, 1986, pp. 1 ss.). Nel

caso Farmoplant (TAR Toscana, 11 luglio 1988, n. 1016, su cui v. infra), i giudici hanno ritenuto ammissibile proprio un referendum avente ad oggetto la chiusura di una fabbrica inquinante: è bene rilevare che, in quel caso, il referendum aveva riguardato contemporaneamente tre Comuni, sulla base di altrettante delibere dei rispettivi Consigli comunali.

110 D. Nocilla, Trieste e la “Ragion Politica”, cit. Ivi, l'A. (p. 319) rileva che “lo stesso art. 1 non prevede che i soggetti delle varie comunità (statale, regionale, provinciale,

nell'ambito del diritto pubblico, operano i principi generali di legalità e tipicità degli atti112. Non sarebbe stato quindi legittimo disciplinare, per i

Comuni, meccanismi di democrazia diretta in assenza di una base legislativa che ne individuasse, oltre alle forme, gli interessi pubblici. Più recentemente113 (sebbene in riferimento a nuovi istituti di democrazia

partecipativa) si è osservato che il principio partecipativo, in quanto espressamente menzionato nell'art. 3, secondo comma, Cost., legittimerebbe l'introduzione di strumenti di partecipazione politica114.

La giurisprudenza amministrativa, dopo una prima serie di pronunce contrarie all'ammissibilità dei referendum comunali praeter legem115, si è

orientata nel senso dell'ammissibilità degli stessi116, rilevando che “fatta

salva la ipotesi in cui la normativa ponga al riguardo una normativa specifica ed esaustiva – l'Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità nella individuazione degli elementi da acquisire (e sul modo come acquisirli) ai fini dell'adozione dei provvedimenti preordinati alla

comunale) siano interrogati al di fuori delle ipotesi e delle forme previste dalla Costituzione medesima: la regola essendo che la volontà della popolazione venga a manifestarsi per mezzo della rappresentanze elettiva, salvo che per quegli istituti di democrazia diretta espressamente menzionati dalla Costituzione medesima”. In senso analogo, v. C. Mortati, Commento all'art. 1, in G. Branca (a cura di), Commentario

della Costituzione, C. Esposito, Commento all'articolo 1, in La Costituzione italiana (Saggi), Padova, 1954.

111 D. Nocilla, Trieste e la “Ragion Politica”, cit. 112 Ibidem, p. 321.

113 U. Allegretti, Democrazia partecipativa (voce), cit., v. in particolare p. 317 e ss. 114 “Dalla sua formulazione, certo, il Costituente non è stato capace di trarre […] le

concretizzazioni specifiche e precise che sarebbero state possibili: possibili astrattamente, perché la fase storica non era ancora giunta in nessun Paese, né dal punto di vista teorico, né da quello pratico, a estrarne le virtualità. Parlandone, l'Assemblea costituente […] lasciava alla storia futura il compito di assimilare le sue potenzialità e tradurle in atto”. U. Allegretti, ibidem, p. 318.

115 Segnalate da A. Torre, La giurisprudenza dei TAR in materia di referendum comunali, in Rivista ANCI, n. 10 del 1988.

116 Cfr. TAR Lazio, sez. II, 28 marzo 1986, n. 824, in Giustizia civile, 3/1987, p. 722 ss.; TAR Toscana, 11 luglio 1988, n. 1016, in Rivista giuridica dell'ambiente, 1988, p. 686 ss., con nota di N. Cerasa.

realizzazione degli interessi pubblici”117. La prospettiva assunta dalla

giurisprudenza amministrativa, dunque, nel legittimare le consultazioni referendarie indette dai Comuni, era quella degli Enti locali nella loro qualità di Pubbliche Amministrazioni. In quest'ottica, poteva dunque ammettersi un margine di discrezionalità amministrativa che, in assenza di espliciti divieti, avrebbe consentito una certa informalità118 nello

svolgimento dell'istruttoria di un procedimento amministrativo. Le amministrazioni locali, in definitiva, per mezzo di consultazioni popolari, avrebbero potuto acquisire, su una determinata questione, la rappresentazione della varietà degli interessi esistenti nella comunità, 117 TAR Toscana, 1016/1988, cit., punto 5 della parte motiva. Nel caso di specie, si trattava di un referendum relativo ad un impianto industriale a forte impatto ambientale, sito nel Comune di Massa. I quesiti referendari erano stati formulati dal Consiglio comunale di Massa ed era rivolto non ai soli residenti nel Comune di Massa, ma anche ai residenti nei Comuni limitrofi (Carrara e Montignoso, i cui Consigli comunali avevano deliberato altrettante consultazioni di contenuto identico) comunque interessati dalle esalazioni dell'impianto. I giudici avevano comunque precisato che “se l'inserimento nel procedimento di una consultazione referendaria ha lo scopo di demandare, al corpo elettorale, le scelte che la legge affida agli organi dell'Amministrazione, un tale inserimento non potrebbe sfuggire a censura in ragione del contrasto con l'assetto organizzativo dei pubblici poteri”. In altre parole, gli organi comunali non possono spogliarsi dei propri poteri demandandoli al corpo elettorale, la cui espressione può esclusivamente avere il valore di un parere che gli organi dell'Amministrazione potranno valutare assieme ad ulteriori elementi, al fine di assumere un provvedimento, del quale mantengono l'intera responsabilità. Nel caso de

quo i votanti si sono espressi al 70% per la chiusura degli impianti ed il provvedimento

del Sindaco aveva negato il rinnovo dell'autorizzazione dell'impianto. I giudici, pur ritenendo legittima la consultazione referendaria, hanno tuttavia annullato il diniego comunale, in quanto non avrebbe tenuto in debita considerazione ulteriori elementi dai quali si sarebbe potuto rilevare il corretto funzionamento della struttura. Quest'ultima fu comunque chiusa definitivamente poco dopo, a causa di un'esplosione (cfr. la nota di N. Cerasa alla sentenza in Giust. civ., cit., p. 704).

118 B. Pezzini osserva che che la “strada attraverso la quale la giurisprudenza amminsitrativa perviene alla giustificazione del referendum consultivo comunale è quella del riconoscimento e della valorizzazione del principio della informalità della fase istruttoria del procedimento amministrativo, ai fini della libera acquisizione e rappresentazione degli interessi in gioco, in funzione di supporto delle scelte comunque spettanti in via esclusiva all'organo elettivo comunale”,Il referendum

misurandone al contempo l'intensità.

2.4. Il referendum nei progetti di riforma dell'ordinamento degli enti