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Le prime proposte di riforma

Nel documento Il bicameralismo in Italia (pagine 52-57)

5. L’assetto bicamerale nella I Legislatura repubblicana

5.2 Le prime proposte di riforma

La situazione appena descritta legittimò così tutte quelle richieste che miravano a sveltire e a rendere più fluidi i lavori parlamentari.

Tuttavia, le richieste di cui si parla non furono formulate mediante la proposta di abolire o modificare il sistema bicamerale (ciò avrebbe comportato una modifica della Costituzione, proprio nell’immediatezza della sua entrata in vigore), ma attraverso una modifica dei regolamenti o una migliore distribuzione dei compiti fra i due rami del legislativo.

Luigi Sturzo, per esempio, intervenendo ripetutamente su questi temi, in riviste e quotidiani dell’epoca, afferma già dopo un anno dall’entrata in vigore della Costituzione che, nonostante la parità completa dei due rami del Parlamento, occorre stabilire tra di loro “una diversità d’impronta di funzioni e di funzionalità”; il cambiamento doveva però avvenire sul piano della prassi parlamentare e della correttezza costituzionale: “Vale più una coscienza formata nel paese, una tradizione di corpo del Senato, un orientamento istintivo negli uomini responsabili, che cento leggi e cento articoli costituzionali”58.

L’anno successivo Salvatore Foderaro, pronunciando all’Università di Perugia un discorso dedicato a un primo bilancio dell’esperienza parlamentare, non nasconde l’esigenza di una parziale riforma che acceleri il processo normativo e favorisca la funzionalità operativa delle due Camere; e così, un altro esponente democristiano, Carlo Russo, sulla rivista “Civitas” avanza talune proposte di riforma procedurale per sveltire i lavori del Parlamento e renderlo più adeguato ai nuovi compiti nel campo delle riforme economiche e sociali.

58 Il discorso di L. Sturzo è tratto da P. AIMO, Bicameralismo e regioni: la camera delle

autonomie, nascita e tramonto di un’idea. La genesi del Senato alla Costituente, Edizioni di

Esigenze analoghe trovano riscontro anche nella dottrina giuridica; Alfonso Tesauro, in un articolo apparso sulla “Rassegna di diritto pubblico” del 1951, dopo aver sottolineato l’inutilità e la pericolosità insiste nel sistema bicamerale, afferma che “le lacune e le deficienze del lavoro legislativo, si possono colmare e riparare solo facendo in modo che la seconda Camera, nell’ambito delle direttive politiche tracciate dalla prima, sia dedicata esclusivamente al lavoro legislativo, completando nei particolari, e in profondità, il lavoro già compiuto nella prima…”59.

Ci troviamo quindi di fronte a una prima serie di proposte che, in base a un giudizio negativo sulla funzionalità del Parlamento (derivante dalla parità assoluta delle due Camere), puntavano a dei semplici “ritocchi regolamentari” o all’accentuazione del Senato come Camera di controllo e di perfezionamento tecnico-legislativo; in questa logica la correzione delle storture derivanti dal sistema bicamerale non si ponevano sul piano della revisione costituzionale, vuoi delle competenze vuoi della composizione delle Camere, ma veniva affidata alla sovranità interna delle assemblee ed alla modifica, imposta e guidata dall’esterno, del sistema informale dei loro rapporti.

Queste esigenze non trovarono però uno sbocco positivo, e i tentativi di fare del Senato la Camera del controllo legislativo più che della formulazione degli indirizzi politici non riuscirono ad imporsi.

Chi, invece, ebbe il coraggio di presentare un progetto di riforma del Senato più concreta già nei primissimi anni di Repubblica, furono Adriano Olivetti e Costantino Mortati, i quali suggerirono ben presto di creare una seconda Camera rappresentativa degli enti del territorio o comunque delle categorie e degli interessi economico-sociali, in modo tale da diversificare i due rami

59 A. TESAURO, Il sistema bicamerale nell’esperienza costituzionale, «Rassegna di diritto pubblico», 1951, I, p. 15.

del Parlamento, proprio come i membri della Assemblea costituente avevano a suo tempo tentato di fare.

Iniziando da Adriano Olivetti, il disegno che fu da lui presentato prevedeva una diversa modalità di formazione della Camera alta rispetto a quella prevista nella Costituzione, e avente come obiettivo quello di farle assumere una vocazione organica e funzionale.

Difatti, la Camera senatoriale avrebbe dovuto essere composta da: 156 membri nominati dalla Camera dei deputati nel proprio seno ed in rapporto a particolari funzioni politiche (giustizia, lavoro, assistenza, pubblica istruzione, urbanistica, ecc.); 45 membri cooptati dai senatori designati nel modo predetto e scelti entro speciali gruppi di professori universitari; 80 membri nominati dai consigli provinciali in ragione della loro appartenenza a determinate categorie (affari generali, giustizia, lavoro, ecc.) ed, infine, altri 60 membri scelti nelle componenti funzionali della pubblica istruzione, dell’urbanistica e dell’economia sociale; al presidente della Repubblica spetterebbe inoltre la nomina di 14 senatori, per quattro legislature, e in ragione di due per ciascuna delle (sette) categorie funzionali individuate dall’autore.

A ben vedere, i vantaggi di un simile metodo sarebbero stati plurimi: con la scelta del primo gruppo di senatori si sarebbe attuato già un notevole filtro qualitativo e si può presumere, sulla base dell’esperienza norvegese, per molti versi analoga a quella prospettata da Olivetti, che tale esperimento avrebbe dato dei risultati soddisfacenti, anche per la sostanziale omogeneità politica che vi sarebbe stata tra Camera dei deputati e settore del Senato eletto da quest’ultima. La nomina dell’altra quota di senatori da parte dei consigli provinciali avrebbe portato poi il Senato ad una maggiore aderenza agli interessi e alle esigenze della vita «locale», mentre i professori universitari avrebbero garantito, con la loro presenza, quell’apporto di

competenza scientifica e di capacità tecnica indispensabile nella redazione delle leggi.

L’ideologia olivettiana, profondamente imbevuta dell’ottimismo tipico di un certo umanesimo neocapitalistico facente leva sulla competenza tecnica e sulla capacità organizzativa, non fu tuttavia ritenuta applicabile a causa del suo meccanicismo, il quale ne rese difatti impossibile applicazione nel clima politico moderato degli anni del centrismo60.

Passando poi all’ipotesi autonomistica di Costantino Mortati, si deve dire che egli, a pochi mesi di distanza dall’entrata in vigore della Costituzione, prospettò subito una modifica del sistema bicamerale che consentisse quell’indispensabile collegamento tra le forze sociali e Parlamento; il costituzionalista suppose infatti che, a fianco della Camera dei deputati (da eleggersi con un sistema proporzionale limitato, onde evitare una eccessiva proliferazione di partiti, e fornita di «competenza esclusiva in materia di indirizzo di politica generale, di legislazione non direttamente pertinente alla particolare e specifica regolamentazione dei rapporti economici e del lavoro»), si sarebbe dovuta avere una seconda assemblea, eletta in modo indiretto dalle organizzazioni professionali individuabili a livello regionale. Quella appena illustrata si trattò quindi di una concezione originale, che si differenziava da un lato dalle proposte favorevoli a una semplice rappresentanza delle categorie economiche a livello senatoriale, e dall’altro, dai progetti che puntavano a una qualificazione di uno dei due rami del Parlamento come Camera delle Regioni e degli enti locali.

Con Mortati, dunque, nel periodo andava tra il 1948 e il 1953, l’idea di costruire una seconda Camera legislativa, quale espressione politica (sia essa esclusiva o sia essa parziale) delle autonomie regionali e locali, trovava così una nuova e insperata fioritura, anche se essa sarebbe stata, alla prova

60 P. AIMO, Bicameralismo e regioni: la camera delle autonomie, nascita e tramonto di un’idea.

dei fatti, misera e parziale: di tutte le proposte formulate dalle grandi personalità dell’epoca (quali Giovanni Conti) e tendenti a ridisegnare il Senato come una Camera rappresentativa dell’istituzione Regione, nessuna trovò fortuna.

Un ostacolo non indifferente all’accoglimento dei progetti di riforma del Senato su base regionale e locale fu, senza ombra di dubbio, la mancata attuazione dell’ordinamento regionale: l’inattuazione costituzionale che le forze politiche di centro riuscirono ad imporre per lungo tempo e che riguardavano in particolar modo le autonomie regionali, rese vano e sostanzialmente velleitario ogni ripensamento del sistema bicamerale che trovasse uno sbocco e una soluzione in rapporto a tali enti; l’antiregionalismo che contraddistingueva larga parte della classe politica emarginò pertanto i fautori di una «Camera delle regioni».

In conclusione, quelle poche ed isolate istanze, che si richiamavano ai dibattiti e alle discussioni dell’Assemblea costituente e che cercarono di dar piena attuazione al principio della «base regionale», non ebbero alcuna possibilità di effettiva e concreta realizzazione: l’inerzia delle forze dominanti, e la (quasi) totale indifferenza che i partiti di sinistra dimostrarono verso le ipotesi di revisione costituzionale, preclusero la via ad ogni serio tentativo di riforma del Senato che riuscisse a superare l’ibrida e insoddisfacente soluzione data dai costituenti al problema della differenziazione dei due rami del Parlamento.

La situazione politica che contraddistinse la I Legislatura repubblicana, insomma, non dette assolutamente spazio a quelle proposte che andavano a configurare la Camera alta come il «Senato delle autonomie».

Nel documento Il bicameralismo in Italia (pagine 52-57)