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1.1 I PRINCIPI DEL PROCESSO INQUISITORIO E LA MANCANZA DI MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENT

CAUTELARI

Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità: la verità è direttamente proporzionale al potere del soggetto inquirente, quindi, quanto più potere gli venga dato, tanto meglio viene accertata la verità. Nella persona dell’inquirente si cumulano tutte le funzioni processuali: è contemporaneamente giudice, accusatore e difensore dell’imputato; ha quindi completa supremazia sull’iniziativa processuale e sulla formazione delle prove. Gli altri soggetti processuali, l’offeso, ma, soprattutto, l’imputato, erano meri oggetti del giudizio, non avevano poteri, in quanto risiedevano tutti nel ruolo del giudice.

Dal principio del cumulo dei poteri nelle mani del giudice derivano le principali caratteristiche del sistema inquisitorio che caratterizzò il nostro ordinamento, prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Tra esse è utile, ai nostri fini, ricordarne alcune, ad esempio, l’iniziativa processuale di ufficio del giudice; oppure l’iniziativa probatoria che gli garantiva pieni poteri coercitivi nella ricerca delle prove; la segretezza dell’attività svolta dal giudice che doveva garantire la ricerca del vero senza possibili ostacoli rappresentati da diverse ricostruzioni della vicenda da parte dell’imputato. Ma, per arrivare a comprendere la completa assenza dell’esigenza motivazionale dei provvedimenti cautelari, bisogna sottolineare come in questo modello processuale esistesse, in primis, la presunzione di reità dell’imputato: ciò significa che

37 bastano pochi indizi perché un individuo venga considerato colpevole, l’unica possibilità di salvarsi da una condanna è quella di riuscire a convincere il giudice della sua innocenza nel momento in cui viene chiamato a discolparsi, se non riesce in tale compito, verrà condannato, anche se l’accusa risulti basata su semplici indizi.

In quest’ottica processuale il sistema inquisitorio prevedeva un istituto di carcerazione preventiva, di cui, peraltro, faceva largo uso, molto differente da quello odierno: mentre oggi la custodia cautelare in carcere viene applicata solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e solamente nel caso in cui nessun altro rimedio preventivo sia soddisfacente, nel sistema inquisitorio la custodia cautelare in carcere veniva adoperata in via preventiva, nel caso in cui semplicemente non sussistessero prove d’innocenza dell’indagato ed aveva anche la finalità di anticipare la pena che in seguito alla decisione verrà irrogata al colpevole; è facile comprendere che, se bastava il sorgere di indizi di colpevolezza per emettere quasi automaticamente un provvedimento cautelare, una motivazione dello stesso non fosse necessaria, il passaggio tra l’individuazione degli indizi e la limitazione della libertà personale era quasi automatica, tant’è che il provvedimento che emetteva ogni tipologia di mandato38 veniva emesso dal giudice

con la forma del decreto, che si distingue dalla sentenza e

38 Era questo il termine con cui veniva identificato, nel codice abrogato, un provvedimento di cattura, di arresto o di accompagnamento.

38 dall’ordinanza proprio perché non ne è necessaria la motivazione, se non quando ciò sia espressamente richiesto dalla legge.39

§ 1.2 L’AVVENTO DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E DEL MODELLO ACCUSATORIO

Con l’avvento della Costituzione si afferma la necessità di apportare dei cambiamenti nel sistema processuale, per rispettare i principi che il dettato costituzionale sostiene è necessario orientarsi verso un sistema almeno parzialmente accusatorio. Questa esigenza si concretizzò in seguito all’entrata in funzione della Corte costituzionale, in seguito alla quale presero avvio due differenti iniziative riguardo alla procedura penale: da una parte furono compiute parziali modifiche al codice di rito del 1930, dall’altra si iniziò a propendere per la scrittura di un nuovo codice. Il primo orientamento è prevalso almeno fino alla fine degli anni ’60, in questo lasso di tempo fondamentale fu l’azione della Corte costituzionale, che impose al legislatore di adeguare le norme del codice di stampo prettamente inquisitorio ai principi costituzionali. Ciò che avvenne, poiché non c’era tempo sufficiente per discutere nuovi istituti, fu il ripristino di garanzie per l’indagato già sperimentate nel codice liberale del 1913, una tra tutte la scarcerazione automatica per decorrenza dei termini del mandato di cattura, per il quale, tra l’altro, furono limitati i casi di obbligatorietà. L’effetto complessivo delle varie modifiche

39 G. CONSO- G. GREVI, commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 1982, pag. 805.

39 apportate fu quello di pervenire ad un sistema di tipo misto, con prevalenza accusatoria.

L’unico aspetto che non fu toccato fu il principio del cumulo delle funzioni processuali, giudice e pubblico ministero continuavano a possedere, sostanzialmente, gli stessi poteri processuali.40 La

separazione delle funzioni avvenne solamente con l’istituzione del nuovo codice di procedura penale, nel 1988: il principio della netta separazione fra l’attività di parte del pubblico ministero e quella giurisdizionale tipica del giudice costituisce, infatti, uno dei cardini del nuovo processo e può essere intesa come una conseguenza logica della scelta del sistema processuale accusatorio.

L’approdo alla distinzione dei poteri del pubblico ministero e del giudice, nelle norme del nuovo codice, è strettamente connesso alla nascita della motivazione dell’ordinanza cautelare. Per prima cosa richiamiamo l’odierno articolo 291 cpp, dove viene ribadito che è sottratto al pubblico ministero ogni potere decisorio in tema di misure cautelari e viene esclusa la possibilità che dette misure possano essere adottate dal giudice indipendentemente dall’iniziativa del pubblico ministero: quest’ultimo quindi è, sotto questo profilo, richiedente senza legittimazione a disporre, mentre il giudice è soggetto decidente ma non ex officio.

Per quanto riguarda la motivazione dell’ordinanza cautelare, essa è prevista dall’articolo seguente, il 292 c.p.p., e, nello specifico, dal secondo comma, dove vengono elencati i requisiti dell’ordinanza

40 che viene emessa dal giudice, su richiesta del pubblico ministero; già nella formulazione originaria, prima dei vari interventi di modifica del legislatore, alla lettera c, veniva richiesta “l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza”.

L’elencazione dei requisiti che l’ordinanza deve contenere dimostra che le ordinanze con cui il giudice provvede in tema di coercizione personale devono rispondere ai requisiti tipici e propri di ogni provvedimento del giudice ed, inoltre, si è voluto sottolineare che talune componenti dell’atto, in particolare la motivazione, devono in questa materia rispondere a particolari criteri, non essendo sufficiente una completezza ed una non contraddittorietà meramente formali.

Nonostante la disposizione della lettera c appaia come la maggiormente innovativa di tutto il comma, rispetto al passato, va tenuto in conto che il legislatore aveva già anticipato il nuovo codice di rito, con la modifica dell’articolo 264 del vecchio codice di procedura penale, abrogato con la legge 12/8/1982 n. 532 e la legge 5/8/1988 n. 330, con queste novelle, ed in particolare la seconda, viene notevolmente attenuato le differenze tra il vecchio ed il nuovo.41

Facendo un breve excursus su alcune delle modifiche apportate all’abrogato art. 264, in tema di motivazione, è da ricordare che l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali

41 Cfr. G. CIANI, sub art. 292, in commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, pagg 164 e ss.

41 destinati ad incidere sulla libertà personale, in accordo agli articoli 111 e 13 della Costituzione, fu specificamente previsto per i mandati di arresto, cattura e di accompagnamento dall’art. 9 della legge 18 giugno 1955 n. 517, che introdusse nell’art. 264 un nuovo comma di seguito al primo. Ciò soddisfaceva la convinzione, della dottrina e di una consolidata giurisprudenza, che la motivazione avesse la funzione, da un lato, di far conoscere al soggetto che verrà privato della libertà personale le ragioni per le quali ciò avviene e di poter quindi predisporre i mezzi necessari di difesa, e dall’altro, rendere possibile, in caso di impugnazione del mandato, il controllo del procedimento di valutazione degli elementi indizianti effettuato dall’organo decidente (il giudice). Questo obbligo di motivazione si esplicava secondo due tesi principali della giurisprudenza: in alcune sentenza l’obbligo veniva soddisfatto semplicemente indicando gli elementi di accusa o anche solamente il tipo di prova acquisito, senza necessità ulteriore di specificarne la fonte; in altre sentenze, invece, nell’obbligo veniva ricompresa anche l’indicazione della fonte di prova. L’apparente contraddizione tra le due tesi veniva superata con la precisazione, contenuta in alcune sentenze, che l’obbligo di motivazione di un mandato di cattura potesse ritenersi adempiuto anche con la sola indicazione dei fatti e delle circostanze indizianti, senza una necessaria menzione delle fonti probatorie da cui gli indizi sono stati desunti, dato che l’indicazione delle fonti è necessaria soltanto quando la circostanza indiziante non viene direttamente ed esplicitamente descritta. Quindi non si trattava di due tesi incompatibili ma di due distinti profili logici di un unico

42 criterio di valutazione sulla sufficienza della motivazione di provvedimenti restrittivi della libertà personale.

Purtroppo gli orientamenti prevalenti in dottrina svuotarono il significato dell’obbligo di motivazione, l’obbligo si riduceva ad un mero riferimento al tipo di elemento di prova acquisito dalle indagini, senza specificarne la fonte né dimostrarne la fondatezza. Con l’intento di rendere più concreto l’obbligo di motivazione e contrastarne lo svuotamento in mere formule di stile l’art. 264 venne ulteriormente modificato ad opera dell’art. 10 della legge 12 agosto 1982 n. 532, che modificò il precedente testo che richiedeva solo una “sommaria enunciazione” in un obbligo che preveda una “specifica enunciazione degli indizi di colpevolezza ai sensi dell’articolo 252”. Da questa riforma si possono individuare tre affermazioni nelle quali si può riassumere il riflesso giurisprudenziale della nuova situazione normativa: la necessità di precisare il contenuto delle risultanze acquisite con l’indicazione degli elementi di riscontro; la necessità di evidenziare la rilevanza e la concludenza delle prove per quanto riguarda la colpevolezza dell’imputato mediante la spiegazione delle ragioni per cui viene riconosciuta sufficienza ed idoneità a tali prove (contrariamente alla precedente esclusione della esigenza di qualsiasi indicazione in proposito); l’esclusione della necessità di indicare la fonte degli indizi, in particolare qualora si tratti dell’indicazione del nome di coloro che hanno reso dichiarazioni accusatorie, per evitare ritorsioni ed intralci alle ulteriori indagini, atteso il permanere del limite del segreto istruttorio. Va infatti sottolineato come permanga, nella nuova

43 norma, il segreto istruttorio quale limite della motivazione, la salvaguardia di tale segreto aveva giustificato una possibile sommarietà della motivazione tacendo la fonte o il contenuto di una prova, adesso, la giurisprudenza, inizia ad intendere il limite del segreto come operante solo per la fonte della prova, per tutelare l’istruzione in corso; con la riforma tra le esigenze antitetiche del segreto e quelle della motivazione si propende per la tutela a vantaggio delle seconde.42

Tornando all’analisi dell’odierno articolo 292, la nuova disciplina dell’ordinanza cautelare è, comunque, divenuto più stringente, rispetto alle modifiche passate, l’obbligo di una rigorosa motivazione delle ordinanze con cui vengono disposte le misure cautelari, giacché il legislatore, non solo, ha indicato come obbligatori gli elementi oggetto della motivazione ma, anche, il contenuto della stessa.

Poiché ai sensi dell’art 273 c.p.p. comma 1 gli indizi di colpevolezza devono essere gravi, gli elementi di fatto cui fa riferimento la disposizione in esame devono evidenziare tale gravità; debbono cioè essere tali, per la loro univocità, certezza ed efficienza probatoria, da far ritenere probabile, allo stato degli atti, la colpevolezza del prevenuto.

L’accentuazione dell’esigenza di determinatezza della motivazione dei provvedimenti cautelari si verificò con l’introduzione del tribunale della libertà e la prima modifica all’art 264 comma 2 c.p.p. abr. ad opera dell’art 10 della legge 532/82, la

44 motivazione dei provvedimenti di cattura diviene, dunque, strumentale anche al nuovo meccanismo di controllo. Poiché il riesame non è configurato come semplice sindacato, ma si estende alla rivalutazione di tutte le risultanze processuali, al fine di verificare la congruità del provvedimento nel caso concreto, i motivi, allora, hanno soprattutto la funzione di consentire l’individuazione dei punti su cui deve svolgersi il giudizio. La necessità di indicare i fatti specifici che autorizzano l’adozione della misura cautelare disposta esclude di certo la legittimità di motivazioni che si risolvano nel mero richiamo alle indagini di polizia giudiziaria ovvero nella semplice indicazione della fonte non accompagnata da quella del contenuto delle risultanze acquisite, che sola consente all’imputato di conoscere gli elementi di accusa; ma esclude anche la sufficienza di motivazioni fondate su dichiarazioni di testimoni o di coimputati dei quali vengano taciute le generalità. Poiché il fine ultimo della motivazione è quello di consentire all’imputato un tempestivo utilizzo dei mezzi difensivi a suo favore, è di fondamentale importanza conoscere chi lo accusa per, eventualmente, dimostrarne l’inattendibilità.

Tutto ciò induce ad affrontare anche un ulteriore, più generale e più delicato problema. Ci si deve cioè domandare se pure secondo il nuovo codice di procedura penale l’obbligo della motivazione, quando la misura venga adottata nel corso delle indagini preliminari, possa subire limitazioni derivanti dalla necessità di tutelare il segreto delle indagini stesse.

L’articolo 292, a differenza dell’articolo 264 c.p.p. abr., che parlava di specifica enunciazione degli indizi di colpevolezza, compatibile

45 con il segreto istruttorio, non contiene alcun richiamo a detto segreto; se ne deve desumere che il legislatore abbia inteso risolvere il problema in maniera radicale, cioè non consentendo deroghe o limitazioni all’obbligo di indicare gli elementi da cui sono desunti i gravi indizi di colpevolezza, derivanti dalla necessità di tutelare la segretezza delle indagini. Questa affermazione trova conferma, oltre che nella formulazione letterale della norma, nella terzietà dell’organo deputato ad adottare i provvedimenti in esame e nell’accentuata posizione di parte dell’organo richiedente. Ciò significa che il pubblico ministero non possa presentare al giudice elementi che egli possa utilizzare per la formazione del proprio convincimento ma non inserire nella propria motivazione. Una differente conclusione allontanerebbe il sistema processuale dal modello accusatorio, voluto dal legislatore, e lo riavvicinerebbe a quello inquisitorio. Certamente si possono verificare casi in cui, per evitare compromissioni, sussista l’esigenza di non rivelare elementi o ulteriori prove ma, in tal caso, per tutelare questa esigenza, l’unico mezzo a disposizione del pubblico ministero è quello, appunto, di non rivelarli e, quindi, non utilizzarli neppure per richiedere la misura cautelare.

Sempre ai sensi della lettera c, nell’ordinanza con la quale il giudice dispone una misura cautelare deve essere contenuta non solo l’indicazione degli elementi di fatto dai quali gli indizi sono stati desunti, ma anche quella dei motivi della loro rilevanza. Questo obbligo era stato anticipato dalle modifiche all’art 264 c.p.p. abr., introdotte con la novella del 1988, ma già la

46 giurisprudenza, sempre più frequentemente negli ultimi anni, lo aveva ritenuto operante, affermando che non bastasse l’indicazione delle singole fonti di prova, ma occorresse spiegare le ragioni per le quali a quelle fonti si è riconosciuta un’efficienza probatoria idonea a giustificare il giudizio, allo stato, di probabile colpevolezza dell’imputato.

Poiché il legislatore ha richiesto, all’articolo 274 c.p.p., oltre ai gravi indizi di colpevolezza, la sussistenza di esigenze cautelari, il giudice, affinché possa concedere le misure in questione, ha l’obbligo di esporle nell’ordinanza. L’indicazione di tali esigenze, al pari di quanto avviene per gli indizi di colpevolezza, deve essere specifica; deve cioè contenere l’esposizione degli elementi di fatto dai quali sono state desunte, in relazione a quel che per ciascuna di esse dispone l’art 274 c.p.p.. In altri termini, il contenuto della motivazione e la sua adeguatezza vanno determinati e valutati alla luce di tale disposizione, che, almeno per quel che concerne le esigenze endoprocessuali (lett. a) e quelle extraprocessuali (lett. c), indica i parametri cui deve aversi riguardo per stabilirne la sussistenza o meno.

Vista la delicatezza della materia, il legislatore delegato, ha fatto spesso riferimento alla necessità di concretezza: così gli indizi e le esigenze cautelari devono giustificare in concreto la misura disposta. Ciò da un lato ribadisce che la motivazione su tali elementi non possa essere meramente apparente, dall’altro, a significare che il giudice, seguendo i principi di proporzionalità ed adeguatezza che regolano la materia (art 275 c.p.p.), deve indicare anche le ragioni per cui ha adottato una misura cautelare piuttosto

47 che un’altra, l’obbligo di motivare sarà tanto più forte quanto è più grave la misura cautelare adottata.43

Ricapitolando, il sistema accusatorio, che viene accolto nell’impianto del nuovo codice, si fonda sul principio in base al quale la libertà personale è la regola e la custodia cautelare un’eccezione. La Costituzione, attraverso il principio della presunzione di innocenza (art. 27, comma 2), impone che le misure cautelari non abbiano la funzione di anticipare la pena, né quella di costringere l’imputato a confessarsi colpevole. Inoltre, sempre con riferimento alla presunzione di innocenza e al rispetto delle libertà fondamentali in generale, sono previste una pluralità di misure cautelari, affinché il giudice possa scegliere quella più adeguata al caso concreto ed affinché la custodia cautelare rimanga la extrema ratio.44

L’applicazione della custodia cautelare solamente come ultima scelta, nel caso in cui le altre misure cautelari coercitive ed interdittive risultino inadeguate è espressione del principio di gradualità.

È interessante soffermarsi sul fatto che tale principio, che disincentiva il ricorso alla misura cautelare più invasiva della libertà personale, abbia delle eccezioni, l’ammettere tali eccezioni incide anche sulla motivazione che il giudice deve fornire nella sua ordinanza.

La norma che riguarda le eccezioni al principio di gradualità è l’art. 275, comma 3 c.p.p.; questa disposizione originariamente

43Cfr. G. CIANI, sub art. 292, in commento, loc. cit. 44 Cfr. P. TONINI, Manuale, cit., pagg. 425-426.

48 codificava soltanto il principio di residualità della custodia cautelare in carcere, ciò completava i principi espressi dai commi 1 e 2 del medesimo articolo, secondo i quali il giudice, nell’accordare una misura cautelare, deve tener conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado di esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (comma 1) e del fatto che la misura cautelare deve essere proporzionata alla gravità del fatto e della sanzione che si ritiene possa essere irrogata (comma 2). Tuttavia, la portata dell’articolo in questione, fortemente innovativa rispetto al codice di rito precedente, è stata modificata ed, in alcuni casi stravolta da numerosi interventi del legislatore.

Nel 1991 il legislatore aveva previsto che in presenza di gravi indizi di determinati reati si dovesse applicare la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che non fossero acquisiti elementi dai quali risultasse che non sussistevano esigenze cautelari. Dunque il legislatore aveva introdotto una doppia presunzione per limitare la discrezionalità del giudice della cautela: una prima presunzione, di carattere relativo, che riguardava la sussistenza di esigenze cautelari, nel caso in cui venissero accertati gravi indizi di colpevolezza in relazione a determinati tipi di reati; ed una seconda, di carattere assoluto, in relazione alla misura cautelare da adottare, ovvero sempre quella inframuraria.

Nel 1995 il legislatore intervenne nuovamente restringendo l’operatività delle presunzioni, limitandole ai soli delitti di associazione mafiosa ed ai delitti commessi avvalendosi del

49 metodo o per agevolare simili organizzazioni. Questa disposizione fu ritenuta compatibile con la Costituzione45 e superò il vaglio

della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.

Infine, nel 2009, la presunzione di adeguatezza della misura carceraria “si riespande nei suoi massimi confini”46 includendo nel

sistema delle presunzioni ipotesi di reato che non erano mai state contemplate in precedenza. Questo intervento del legislatore, insieme all’effettivo ricorso alla regola della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, suscitò critiche da parte della dottrina, la quale sottolineò come la Costituzione assegnasse alla custodia cautelare preventiva una funzione strumentale rispetto alle finalità del processo. La presunzione di cui all’art. 27, comma 2, Cost. impone che la misura cautelare non