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L'autonoma valutazione del giudice nel contesto della motivazione cautelare

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di laurea

L’AUTONOMA VALUTAZIONE DEL GIUDICE NEL CONTESTO DELLA MOTIVAZIONE CAUTELARE

Candidato: Relatore:

Martina Mancuso Chiar.mo Prof. Luca Bresciani

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INDICE

INTRODUZIONE ………pag. IV

CAPITOLO I.

LA MOTIVAZIONE NELL’ATTIVITA’ DECISIONALE DEL GIUDICE

§ 1. Distinzione tra ius dicere e reddere rationem nella decisione

giudiziale………pag. 1

§ 1.1 I criteri della logica nella motivazione…….…………...pag. 5 § 2. La motivazione nelle previsioni costituzionali

§ 2.1 L’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti

giurisdizionali dell’art. 111 Cost………...pag.7

§ 2.2 La motivazione come garanzia del diritto di libertà sancito

all’art. 13 Costituzione…...……….……pag. 13

§ 3. La motivazione della sentenza dibattimentale a confronto con

quella dell’ordinanza

§ 3.1 Cenni alla disciplina della motivazione della sentenza

dibattimentale…….………..pag. 16

§ 3.2 La struttura della motivazione dell’ordinanza

cautelare……….………pag. 20

CAPITOLO II.

L’EVOLUZIONE DEL CONTENUTO DELL’ORDINANZA: DAL CODICE ROCCO ALLA RIFORMA DEL 1995

§ 1. La motivazione cautelare nel passaggio dal codice di stampo

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§ 1.1 I principi del processo inquisitorio e la mancanza di

motivazione dei provvedimenti cautelari…...……..pag. 28

§ 1.2 L’avvento della Costituzione repubblicana e del

modello accusatorio……….………..pag. 31

§ 2. L’assetto della motivazione cautelare assunto con la riforma

del 1995……….pag. 44

§ 2.1 La modifica della lettera c) del comma 2, art. 292 c.p.p.:

l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari………...….pag. 45

§ 2.2 L’aggiunta della lettera c-bis) nel comma 2 dell’art. 292

c.p.p.: la valutazione degli elementi forniti dalla difesa e la giustificazione della misura scelta………..…...pag. 48

CAPITOLO III.

L’ODIERNA MOTIVAZIONE DELL’ORDINANZA

CAUTELARE: TRA MOTIVAZIONE PER RELATIONEM ED IL NUOVO CRITERIO DI VALUTAZIONE AUTONOMA DEL GIUDICE

(oppure “DAL COPIA ED INCOLLA ALL’AUTONOMA VALUTAZIONE DEL GIUDICE: L’ODIERNA MOTIVAZIONE CAUTELARE)

§ 1. Cos’è la motivazione per relationem ed i suoi possibili

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§ 1.1 Criteri di ammissibilità della motivazione per

relationem: analisi della sentenza Cass., SS. UU., 21 giugno 2000, n. 17……….pag. 60

§ 2. Il contenuto dell’”autonoma valutazione” instituita dalla legge

47/2015…….………pag. 67

§ 3. Intervento innovativo? Il parere della dottrina e la prassi della

giurisprudenza………..……pag. 80

CAPITOLO IV.

I RINNOVATI CONFINI DEL CONTROLLO SULLA MOTIVAZIONE IN SEDE DI RIESAME

§ 1. L’istituto del riesame inteso come possibilità di recupero del

diritto di contraddittorio dell’imputato nella vicenda cautelare

§ 2. Poteri del tribunale del riesame in caso di mancanza di

motivazione o di autonoma valutazione nell’ordinanza cautelare: la riforma dell’art. 309 c.p.p. ad opera della legge 47/2015.

§ 2.1 Analisi di un caso concreto di applicazione della

riforma: la sentenza di annullamento del tribunale del riesame di Perugia n. 7647/2014

CONCLUSIONI………....……….pag. 113 BIBLIOGRAFIA….………pag. 117

(5)

5

INTRODUZIONE

Il presente lavoro si pone l’obiettivo di esaminare l’odierna componente motivazionale del provvedimento che viene emesso dal giudice nella fase cautelare.

Le misure cautelari, com’è noto, vengono richieste dal pubblico ministero al giudice, che deve decidere con un’ordinanza, senza avere la possibilità di un confronto con l’indagato, che ignora l’esistenza di un procedimento cautelare a suo carico.

Lo svolgimento della realtà cautelare differisce notevolmente da quello del procedimento penale principale, proprio per l’assenza di un contraddittorio, per la strumentalità e provvisorietà delle misure; ma, nonostante questo, le più importanti garanzie previste dal nostro assetto costituzionale devono essere rispettate.

Una delle più importanti garanzie è appunto la motivazione del provvedimento giurisdizionale che limita la libertà personale (artt. 13 e 111 Cost.). Dunque anche l’ordinanza cautelare, alla stregua della sentenza dibattimentale, deve contenere la motivazione del giudice che emette l’atto stesso.

Il contenuto motivazionale dell’ordinanza cautelare ha subito, nel corso dei decenni, numerose modifiche, sia ad opera del legislatore, che della giurisprudenza; in particolare, la Corte di cassazione1 si è pronunciata per fare chiarezza sull’utilizzo della

tecnica motivazionale per relationem, tecnica che consente di

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6 realizzare un atto motivazionale richiamando al suo interno un altro atto che viene collegato al primo e ne entra a far parte. Non solo, ma, per contrastare l’attività di “copia ed incolla” (una deviazione, appunto, del motivare collegandosi ad un altro atto), si sono rese necessarie ulteriori modifiche, che fossero in grado di ribadire l’importanza di motivare attivamente, valutando in maniera concreta tutti gli aspetti della vicenda; in quest’ottica la legge n. 47 del 16 aprile del 2015 ha apportato le ultime novità in tema di motivazione del provvedimento cautelare, sia per quanto riguarda la sua struttura, che deve ora contenere un’autonoma valutazione da parte del giudice che la emette, sia per lo strumento che l’imputato ha a disposizione nel caso in cui tale struttura non venga rispettata: il riesame.

La lettera della legge, però, non pare aver chiarito tutti i dubbi. In particolare ci si continua a chiedere cosa si intenda per autonoma valutazione del giudice, come individuarla concretamente all’interno della motivazione dell’atto?

E ancora, la definizione di autonoma valutazione, avrà portato ad elaborare rigidi schemi motivazionali che astrattamente impongano al giudice un preciso contenuto nella sua motivazione?

Sottolineare che il giudice debba riuscire a trasmettere, nella motivazione della sua ordinanza cautelare, il proprio iter ragionativo, indipendente da quello degli altri personaggi della vicenda cautelare, sarà stato interpretato, a due anni dall’entrata in vigore della legge, dalla giurisprudenza come innovativo, tanto da indirizzare i giudici verso una nuova prassi motivazionale?

(7)

7 Dato che un’autonoma valutazione del giudice sembra voler eliminare la possibilità di motivazione attraverso un “copia ed incolla” acritico, sarà ancora possibile far riferimento a motivazioni per relationem? Si saranno affermati nuovi criteri esegetici per decidere quando questa tecnica sia eventualmente concessa?

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8

CAPITOLO I.

LA MOTIVAZIONE NELL’ATTIVITA’ DECISIONALE DEI GIUDICI

Oggi esiste un nesso inscindibile tra giurisdizione e motivazione: la motivazione è, infatti, l'esplicazione dei criteri e delle ragioni del provvedimento giurisdizionale. Tale processo giustificativo può essere idealmente scomposto nella quaestio facti e nella quaestio iuris: la prima consiste nell'accertamento dell'esistenza e del modo d'essere dei fatti storici rilevanti ai fini della decisione; la seconda, invece, è funzionale ad individuare ed interpretare la disposizione di legge applicabile al caso concreto, ed a dichiarare gli effetti giuridici che a questa si ricollegano.2

La motivazione è quindi una componente necessaria dei provvedimenti del giudice.

Il fatto che il giudice, investito della cognizione di una determinata controversia, sia tenuto non solo a risolverla ma anche ad esprimere le ragioni giuridiche e fattuali sottese alla decisione assunta, può apparire oggigiorno quasi scontato, ma, in realtà, l’istituto della motivazione, nella sua attuale accezione, è da intendersi una conquista della civiltà giuridica relativamente recente. 3

2 M. CONCORDIA, La motivazione della cautela personale mediante rinvio ad altri

atti del procedimento, nota a sentenza (Cass., Sez. II, 18/09/2012, n. 36409), in Cass.

Pen., 5/2013, p. 1965.

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9

§ 1. DISTINZIONE TRA IUS DICERE E REDDERE RATIONEM NELLA DECISIONE GIUDIZIALE

Esiste un contesto della decisione e un contesto della motivazione.4

Pur considerando che l’appendice finale del iudicium (ovvero la giustificazione) deve rispondere ai canoni del discorso argomentativo, in quanto diretta a mostrare il fondamento normativo della decisione, parte della dottrina sostiene l’individuazione di due distinti contesti (come sopracitata): il contesto della motivazione (contest of justification) e quello della decisione (contest of discovery), distingue quindi, la logica del reddere rationem da quella del ius dicere.

Questa convinzione si basa sulla considerazione che, nonostante il giudice debba decidere sulla base di quanto viene allegato e provato5, i processi mentali che stanno alla base del suo

convincimento esprimono una complessa vicenda logica e psicologica soggettiva, che lo allontana da uno schema meramente deduttivo.6

Tuttavia, sostenendo la distinzione tra context of discovery e context of justification bisogna tenere in considerazione che, con l’intento di superare una visione che concepiva la motivazione come strettamente legata al giudizio prescrittivo, logicamente pensato e

4 C. PERELMAN, La motivation des décisions de Justice. Essai de synthèse, in AA. VV., La motivation des décisions de justice, Brulant, 1978, p. 415."

5Con tale espressione si fa riferimento al principio dispositivo dell’attività giudiziale, già noto nel panorama giuridico romano, espresso attraverso il brocardo “Iudex iuxta alligata et probata iudicare debeat”

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10 strutturato, si può giungere alla fuorviante esasperazione della cesura tra i due momenti, sino a convincersi che in essi “la logica della scelta è irriducibilmente diversa”.7

Ciò mal si concilia con la disciplina positiva della motivazione: la giustificazione è ciò che vi è di più distante dalla precipitazione e dall’avventatezza psicologica, il discorso argomentativo deve essere ben saldo e capace di tenere in piedi, razionalmente e sistematicamente, la decisione: fino ad arrivare a ‘convincere’ della sua conformità al diritto. In particolare l’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali e la sottoscrizione del loro testo, infatti, tendono a ricondurre la decisione del giudice agli stessi argomenti adottati per deliberarla: in quest’ottica la giustificazione va ricavata dal materiale probatorio formato secondo le regole del contraddittorio, il libero convincimento deve, cioè, essere sostenuto da processi mentali, sia logici che psicologici, i quali si specchiano in quanto allegato e provato dalle parti e in quanto proveniente dagli atti processuali.

Dunque la distinzione tra contesto di decisione e contesto di motivazione va considerata cautamente, essa è lecita a patto che il potere-dovere di motivare non degeneri in libero arbitrio; il legislatore vuole, infatti, evitare che il giudice motivi in modo diverso da quello in cui ha ragionato per decidere, è inesatto dire che la logica della scelta è diversa nei due contesti, poiché sia nella formazione della decisione che in quella della motivazione il giudice deve applicare le leggi sostanziali.

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11 È vero che nella prassi esistono certamente casi in cui il giudice decida lasciandosi influenzare da sue proprie impressioni e convinzioni, utilizzando per la motivazione ulteriori parametri ma nella maggior parte dei casi la logica della decisione e quella della giustificazione coincidono. Infatti il giudice, sapendo di dover poi spiegare le ragioni del decisum sarà portato, quasi automaticamente, ad accogliere solo quelle soluzioni che siano fornite di motivi idonei a sostenerle, scartando quelle che, pur sembrandogli soggettivamente giuste, non possono essere sostenute giuridicamente in maniera adeguata.8

Il fatto che si sia potuta affermare una tale divaricazione dei contesti è da ricondurre al collegamento che evidentemente è stato effettuato tra la decisione giudiziale e l’ambito delle decisioni morali o pratiche. Certamente in tali giudizi è possibile motivare con argomenti che non hanno collegamento con le ragioni effettive che hanno indotto chi esprime il giudizio ad approvare un certo comportamento. Il giudice deve invece decidere in base a delle precise regole e motivare in una forma non libera ma programmata dalla legge. Il contesto di decisione risulta quindi vincolato e collegato a quello della motivazione da una serie di obblighi.9

Bisogna considerare però che il meccanismo logico, deduttivo, conduce alla verità soltanto partendo dall’accettazione di regole, dogmi o assiomi universalmente accettati: fino a quando ci si

8 Cfr. M. CONCORDIA, op.cit.

9 Cfr. E. AMODIO, la motivazione della sentenza penale, in Enc. dir. vol. XXVII, 1977 pagg 185 e ss.

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12 muove in ambiti formalistici ed astratti un sillogismo veicola certezza, poiché la conclusione certa discende da premesse altrettanto certe. Per quanto riguarda l’ambito giuridico, invece, ci accorgiamo che vi è una sorta di discrezionalità d’origine nella formulazione delle premesse, tale da renderle probabilistiche; perciò non possiamo identificare l’esposizione dei motivi della decisione con le premesse di un sillogismo: la scelta (e l’interpretazione) della norma - premessa maggiore- e la descrizione del fatto -premessa minore- sono l’esito di una prospettiva relativa e parziale, che si fonda solo su ciò che le prove riportano di quelle mille peculiarità con cui gli accadimenti reali si manifestano. Lo schema deduttivo si scontra con il processo penale, in cui il ragionamento muove dai fatti (storici e particolari – c.d. lost facts, non riproducibili in laboratorio), per giungere all’universale: «sillogismo e deduzione si riducono [allora] a schema il cui rispetto può assicurare tutt’al più ordine del discorso giuridico ai fini di quella giustificazione ex post che si compendia nella motivazione (e che permette il successivo controllo sulla coerenza logica)» – garanzia comunque non trascurabile.10

10 O. DI GIOVINE Dal costruttivismo al naturalismo interpretativo? Spunti di

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§ 1.1 I CRITERI DELLA LOGICA NELLA MOTIVAZIONE

Quanto detto finora riconduce la motivazione alla logica: la motivazione viene intesa come la rappresentazione esteriore del ragionamento logico compiuto dal giudice nella sua attività decisionale.

Il ruolo ricoperto dalla logica nel processo giurisdizionale è quindi fondamentale; essa offre parametri razionali per la formazione del convincimento giudiziale, sta alla base del metodo che giuda i ragionamenti, indirizza i meccanismi di controllo delle pronunce. Da un punto di vista prettamente socio-politico la logica svolge una funzione “civile”, diviene strumento di controllo sociale e garanzia della trasparenza processuale consentendo a chi è estraneo al processo di conoscere i modi, i tempi, le forme ed i criteri secondo i quali il giudice ha deciso la singola controversia. Ecco che attraverso il controllo sulla motivazione si realizza l'effettiva partecipazione all'amministrazione della giustizia da parte del popolo.11 Si vede, allora, come, in una simile

prospettiva, la motivazione assolva ad una funzione che si riflette al di fuori dello stesso processo, e che è, per l'appunto, extra-processuale: in questo modo, l'organo decidente vive un fisiologico processo di auto-responsabilizzazione; infatti, l'obbligo di sottoporre le proprie scelte al giudizio dei terzi, tendenzialmente, scongiura il rischio di improvvise esternazioni a-razionali, e pone, così, il giudice, al riparo da sospetti di arbitrio.

11 “La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano” art 125 cpp che rimanda all’art 101 comma 1 Cost “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.

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§ 2 LA MOTIVAZIONE NELLE PREVISIONI

COSTITUZIONALI

§ 2.1 L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DI TUTTI I

PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI DELL’ART 111

DELLA COSTITUZIONE

Esiste un nesso inscindibile tra giurisdizione e motivazione. La Costituzione sancisce l’obbligo di motivare tutti i provvedimenti con funzione decisoria per renderli conoscibili dalle parti (funzione endoprocessuale della motivazione) e controllabili dai giudici dell’impugnazione e dell’opinione pubblica (funzione extraprocessuale della motivazione).12

Per quanto riguarda la realtà italiana l’esigenza di rendere pubblicamente conoscibili le motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali è sancita, a livello costituzionale, dal sesto comma dell’art. 111 della Costituzione: << tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati>>. Tale disposizione, esistendo già nella formulazione originaria dell’articolo, costituisce una delle novità rispetto alla tradizione costituzionale italiana pre-repubblicana dove mancava qualunque disposizione in materia. L’analisi del principio della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali deve muovere necessariamente dalla questione di fondo se esista, nell’ordinamento costituzionale, un generale obbligo di motivazione degli atti. Al riguardo troviamo

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15 contrapposte una concezione tradizionale, che valorizza la continuità fra il nuovo ordinamento costituzionale e quello pre-repubblicano, nel quale tale principio non esisteva, ed una concezione più moderna, che ricollega la motivazione alla responsabilità, intesa nel senso estremamente ampio di una responsabilità “politica” verso l’opinione pubblica, più che nel senso di una responsabilità che possa essere fatta valere giuridicamente.13

Considerando questa seconda concezione, la norma espressa dal sesto comma dell’art. 111 Cost. è concepita non solo in senso strettamente processuale, in quanto va a costituire un “autentico punto di sintesi e di effettività delle garanzie processuali sancite anche da altri articoli della stessa Costituzione”14 ad esempio

quelle dell’amministrazione della giustizia in nome e con le forme di partecipazione del popolo15, della terzietà e imparzialità del

giudice e del giusto processo in generale.

Seguendo tale ricostruzione la motivazione sarebbe uno strumento di controllo democratico sull’amministrazione della giustizia; ciò consentirebbe di superare gli angusti confini del processo e dell’impugnazione ma finirebbe per ampliare eccessivamente il significato della responsabilità alla quale la motivazione è collegata. In effetti, in un ordinamento come quello

13 Cfr. A. ANDRONIO, sub art. 111, in commentario alla Costituzione, R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Torino, 2006, pagg. 2119 e ss.

14 A. SCAGLIONE, La motivazione della sentenza penale: profili teorici e pratici, in

www.giustizia.palermo.it, incontro di studio, Palermo, 24 febbraio 2011, pag. 5.

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16 italiano, il controllo pubblico sulla giustizia è sostanzialmente privo di effetti giuridici: il giudice diviene un funzionario pubblico tramite un concorso ed è dotato di garanzie come quella dell’inamovibilità e dell’indipendenza, manca dunque una diretta legittimazione democratica del potere giudiziario, gli unici soggetti in grado di far valere la responsabilità del giudice sono quindi il Consiglio superiore della magistratura (per i profili disciplinari) e i soggetti direttamente coinvolti nel procedimento giurisdizionali.16

Sembra essere più appropriato, che la motivazione possa essere considerata, più che il tramite fra il giudice ed il “giudizio” popolare sul suo operato, l’elemento sopra il quale, il giudice stesso, fonda la propria legittimazione, dando conto della propria soggezione alla legge. Proprio secondo questo ragionamento si riconduce il principio della motivazione a quello della legalità dell’art. 101, comma 2, Cost.

Sempre in un’ottica extraprocessuale si deve inquadrare la funzione delle motivazioni delle decisioni non impugnabili, quali quelle delle supreme magistrature e della Corte costituzionale: è chiaro che in tali contesti la motivazione non sia funzionale all’eventuale controllo del giudice superiore ma, semmai, a stabilire indirizzi giurisprudenziali nello svolgimento della funzione nomofilattica.17

La formula utilizzata dal dettato costituzionale, “tutti i provvedimenti giurisdizionali”, non lascia adito a dubbi: i

16 Cfr. A. ANDRONIO, sub art. 111, loc. cit. 17 Cfr. A. ANDRONIO, sub art. 111, loc. cit.

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17 provvedimenti da motivare sono quelli adottati dal giudice soltanto, escludendo quelli emessi dal pubblico ministero.

La limitazione posta dalla norma costituzionale racchiude una precisa scelta sulla struttura e sui contenuti della motivazione: se a motivare deve essere il giudice, evidentemente, si ritiene che solo un organo pienamente imparziale possa garantire una decisione che prenda in considerazione le ragioni dell’una e dell’altra parte, supportata da una motivazione soddisfacente, ottenuta seguendo i principi della logica e della completezza argomentativa.

Sicuramente il carattere dell’imparzialità non è posseduto dal magistrato del pubblico ministero, nonostante, secondo il dettato costituzionale, egli debba agire lealmente e rispettando il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinnanzi alla legge. La funzione del pubblico ministero è guidata dalle regole di obiettività che esprimono contenuti diversi da quelli che connotano l’imparzialità richiesta al giudice; l’obiettività non implica né l’estraneità rispetto al fatto da giudicare né l’equidistanza dalle parti (requisiti essenziali per garantire l’imparzialità): il pubblico ministero dovendo verificare un’ipotesi di reato, durante le indagini sarà guidato da valutazioni prognostiche di colpevolezza dell’indagato e, poi, nel caso venga esercitata l’azione penale, emerge chiaramente il suo ruolo di parte, quale sostenitore dell’accusa, quindi, di interessi contrapposti a quelli dell’imputato.

Dunque spetta a chi svolge le indagini e, successivamente, ricoprirà il ruolo di parte processuale, agire secondo criteri di obiettività garantendo un trattamento uniforme per tutti coloro che vengono sottoposti al procedimento penale.

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18 Sicuramente al giudice non può essere richiesta la stessa nozione di obiettività utilizzata per il pubblico ministero: per essere imparziali non è sufficiente, nell’agire del giudice, trattare tutti allo stesso modo ma è necessario porsi al di sopra delle parti, in una posizione di equidistanza rispetto alle ragioni dell’accusa e della difesa.

Senza dubbio anche il pubblico ministero, ricomprendo la funzione di un organo pubblico, opera per l’accertamento della verità e, quindi, non deve perseguire ad ogni costo colui che si rivela estraneo ad ogni responsabilità penale; tuttavia, va considerato che chi investiga e sostiene l’accusa in giudizio è raramente portato ad accettare una prospettazione dei fatti diversa da quella ipotizzata. È proprio questa naturale inclinazione verso le ragioni dell’accusa che rende il pubblico ministero un organo, sì, obiettivo, ma non imparziale, ciò perché, anche quando non ha ancora assunto il ruolo di parte processuale, non è mai chiamato a decidere in qualità di terzo, in maniera distaccata dagli interessi che caratterizzano la sua figura di pubblico accusatore.

Ciò che è stato fin qui detto trova conferma nell’analisi dei compiti istituzionali del pubblico ministero, che svolge funzioni inquirenti e funzioni requirenti: è compito del pubblico ministero svolgere le indagini e richiedere l’intervento del giudice nei casi in cui occorre adottare dei provvedimenti che incidano sui diritti e libertà dei cittadini; ancora una volta chi decide su tali provvedimenti è il giudice, organo imparziale, terzo ed estraneo agli interessi delle parti.

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19 Da tutto ciò si desume che l’unico in grado di motivare, secondo i principi che l’ordinamento vuole per la motivazione, è il giudice. La motivazione, letta in quest’ottica di sintesi delle argomentazioni poste a sostegno di interessi contrapposti, deve essere ritenuta un’attività tipica di chi è chiamato a decidere la controversia, dopo aver valutato le ragioni di entrambe le parti. Il pubblico ministero non motiva i propri atti ma espone le proprie ragioni, giustifica le proprie scelte e convinzioni descrivendo gli elementi che, secondo il proprio modo di vedere, supportano la propria ipotesi.

Dunque il fatto che l’articolo 111 comma 6 Cost. si riferisca ai soli provvedimenti giurisdizionali implica una precisa scelta riguardo alla struttura e ai contenuti della motivazione: essa è tale solo se espressa da un giudice, il quale deve dar conto delle ragioni che lo portano a decidere in quel modo, motivando quindi il proprio convincimento riguardo tutto ciò che è stato sottoposto al suo esame, sia riguardo agli elementi che lo hanno portato al provvedimento emesso, sia riguardo quelli che ha ritenuto irrilevanti ai fini di una diversa decisione.18

In altre parole si può dire che, non solo tutti i provvedimenti del giudice devono essere motivati, ma anche che tutto il provvedimento, inteso come insieme di statuizioni, espresse con la decisione, deve trovare un’adeguata giustificazione logico-giuridica nella esposizione dei motivi.19

18 Cfr. G. DELLA MONICA, Contributo allo studio della motivazione, Padova, 2002, pag. 9.

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§ 2.2 LA MOTIVAZIONE COME GARANZIA DEL DIRITTO DI LIBERTA’ SANCITO ALL’ART. 13 COSTITUZIONE

La nostra Costituzione, votata alla valorizzazione della persona umana, riconosce una serie di diritti inviolabili del singolo individuo; questi diritti costituiscono gli autentici fondamenti dell’intero ordinamento che devono essere riconosciuti e garantiti. Nell’ambito delle libertà individuali disciplinate nel Titolo I della Parte I della Costituzione particolare rilievo è assunto dalla libertà personale, sancito all’art. 13 della Costituzione.

La libertà è esposta a delle “limitazioni più o meno estese in nome dell’efficienza del processo”20: la ricostruzione dei fatti e

l’accertamento della responsabilità penale, nel porsi come precipue finalità del processo penale, postulano di frequente l’impiego di strumenti e meccanismi processuali potenzialmente lesivi di diritti e garanzie fondamentali, soprattutto nei confronti dell’imputato. La conflittualità tra le esigenze processuali e quelle sottese al diritto di libertà sono state risolte dal legislatore costituente mediante una disciplina incentrata su un sistema di regola ed eccezioni: posta la regola dell’inviolabilità della libertà personale, le restrizioni della stessa sono configurabili come eccezioni che devono essere corredate da un insieme di limiti e garanzie che condizionino la discrezionalità del legislatore ordinario.

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21 È nel secondo comma dell’art. 13 Cost. che vengono stabiliti i criteri secondo i quali la libertà personale può essere eccezionalmente limitata.

Innanzitutto, sotto un primo profilo, la libertà è garantita, dal dettato costituzionale, da una riserva di legge che disciplina tassativamente la limitazione “nei casi e nei modi stabiliti dalla legge”; sotto un secondo aspetto, un’ulteriore garanzia è quella di giurisdizione, che consente l’eccezionale limitazione “con atto motivato dell’autorità giurisdizionale”.

Dunque la libertà del singolo individuo può, nei casi espressamente previsti, subire limitazioni ad opera dell’autorità giudiziaria; con l’espressione “autorità giurisdizionale” si intende, secondo l’odierno codice di procedura penale, e a differenza di quanto avvenisse sotto la vigenza del vecchio codice, l’autorità giudicante e non anche quella requirente (cioè il pubblico ministero), spettando solamente alla prima la possibilità di adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale.

Ciò che maggiormente interessa in questo contesto è un’ulteriore garanzia che emerge dalla stessa disposizione che sancisce la garanzia di giurisdizione: quella dell’obbligo di motivazione del provvedimento dell’autorità giurisdizionale, in ordina al caso concreto, circa la sussistenza dei presupposti della restrizione stessa. L’autorità giudiziaria deve, infatti, esprimersi con un provvedimento motivato che indichi “tutte le ragioni (di fatto e di diritto) che determinino o che abbiano determinato l’emanazione

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22 della misura restrittiva”21. Ciò vale ad assicurare alla riserva di

giurisdizione un significato sostanziale, permettendo una più compiuta garanzia della libertà personale anche nei confronti di provvedimenti arbitrari dell’autorità giudiziaria non solo per mezzo del ricorso per Cassazione, previsto dall’art. 111 Cost. ma anche attraverso l’istituto del riesame delle misure coercitive, in virtù del quale l’imputato, in termini brevissimi, può chiedere al c.d. Tribunale della libertà il riesame, anche nel merito, dell’ordinanza che abbia disposto la misura. Contro l’ordinanza del tribunale che rigetti la domanda di riesame può essere presentato ricorso per Cassazione.

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23

§ 3. LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA

DIBATTIMENTALE A CONFRONTO CON QUELLA

DELL’ORDINANZA

§ 3.1 CENNI ALLA DISCIPLINA DELLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA DIBATTIMENTALE

Per poter riflettere sulla portata della motivazione dell’ordinanza cautelare facciamo un breve cenno alle principali norme che regolano la motivazione della sentenza dibattimentale nel codice di rito.

Ai sensi dell’art 546, comma 1 lettera e, la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”.

L’obbligatorietà della motivazione, espressa da tale disposizione, è collegata a quanto viene espresso all’art 192 comma 1: “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”.

Per quanto riguarda la valutazione delle prove, essa può essere intesa come un’attività legale, perché solo le prove legittimamente acquisite possono essere valutate ai fini decisori, ed un’attività razionale, poiché la motivazione della decisione deve essere resa secondo i principi di ragionevolezza, rispettando tre ordini di

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24 regole: della logica, della scienza e dell’esperienza corrente.22

Questi criteri devono, inoltre, tenere in considerazione la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: nella motivazione il giudice deve spiegare perché le prove che ha considerato decisive per l’emissione della sentenza di condanna siano idonee ad eliminare ogni ragionevole dubbio di decisione diversa.

Innanzitutto bisogna tenere presente che il primo comma dell’art 192 del codice di rito con l’espressione “risultati acquisiti” si riferisce all’esito di un percorso argomentativo svolto tramite un’operazione mentale su elementi precedentemente raccolti. Non esistono prove con un valore determinato a priori, accettabili di per sé; al contrario, è necessario il ragionamento del giudice per poter accettare l’attendibilità della fonte. Per questo motivo il giudice ha il compito di dare conto delle operazioni compiute e dei risultati raggiunti.

Dunque, importanti e complementari, al fine di descrivere il percorso argomentativo della decisione del giudice, sono gli artt 192 e 546, comma 1 lett. e cpp. La prima norma esige l’esposizione dei criteri, presi singolarmente e nel loro complesso, che vengono utilizzati nella valutazione degli elementi di prova; la seconda norma accoglie e traduce la necessità di confronto tra le possibili e diverse ipotesi ricostruttive del fatto attraverso la valutazione delle opposte ragioni, al riguardo il giudice deve optare per la spiegazione ragionevole a tutti gli elementi raccolti. Il risultato del ragionamento del giudice, ottenuto secondo questi schemi, non

22 Cfr. P. FERRUA, un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in www.questionegiustizia.it, 1998, pag. 589.

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25 potrà essere considerato inconfutabile logicamente ma sarà sicuramente accettabile razionalmente. Parlando di razionalità, secondo i canoni della stessa, l’obbligo di motivare appare indispensabile, soltanto attraverso la motivazione è possibile effettuare, infatti, un controllo sul ragionamento del giudice: motivare significa esporre le ragioni di convincimento, esporre le ragioni significa voler giustificare una scelta razionalmente compiuta.

Sempre seguendo la norma espressa dal primo comma dell’art 546 del codice di rito, bisogna tenere in considerazione che il giudice non si limita solamente a scegliere una ricostruzione del fatto e fornirne le prove che la confermino, ma deve anche esporre le ragioni per cui esclude la validità di eventuali prove che contrastino con il suo convincimento e dunque indicare i motivi per cui esclude ipotesi avverse alla propria.

In questo aspetto si coglie un’importante novità del codice del 1988, che differenzia notevolmente l’iter attraverso il quale il giudice motiva una sentenza dibattimentale da quello seguito per la motivazione dell’ordinanza cautelare: la motivazione della sentenza dibattimentale assume un carattere dialogico, cioè, viene effettuato un ragionamento sul conflitto tra le prove a favore e quelle contrarie alla ricostruzione del giudice; in ambito cautelare, non essendo possibile un confronto con l’imputato, sotto questo aspetto la motivazione viene ottenuta attraverso un ragionamento personale, e non dialogico, del giudice.

Per quanto riguarda la completezza della sentenza, essa deve essere motivata adeguatamente sia in fatto che in diritto. Per

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26 quanto riguarda le motivazioni in diritto, generalmente questa esigenza viene soddisfatta, anzi, spesso le sentenze sono motivate in diritto in maniera anche troppo estesa; capita invece che le sentenze non siano sufficientemente motivate in fatto. A proposito di motivazione in fatto, bisogna che il giudice indichi anche i contenuti delle prove che lo hanno portato al convincimento (contenuto della testimonianza, risultato della perizia, etc), non è sufficiente un rimando generico per controllare il ragionamento del giudice, che scaturisce, infatti, dal rapporto tra gli elementi di prova e i fatti accertati. Il dovere di motivare in fatto non si esaurisce però con l’esposizione delle prove, motivare significa qualcosa di più di indicare, è necessario infatti “rendere esplicito anche il canone di argomentazione utilizzato per arrivare all’affermazione della sussistenza (o della insussistenza) del fatto imputato”.23

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§ 3.2 LA STRUTTURA DELLA MOTIVAZIONE

DELL’ORDINANZA CAUTELARE

La struttura motivazionale di base, che abbiamo detto accomunare qualsiasi tipo di provvedimento giurisdizionale, specifica il proprio contenuto in riferimento allo standard legale24 definito per

quel determinato frangente processuale. Per intendersi, sarà più corposa la motivazione della sentenza di merito che chiude il procedimento, rispetto alla motivazione dell’ordinanza cautelare che viene emanata, invece, in assenza di contraddittorio tra le parti e allo stato degli atti, generalmente prima che il processo penale si apra.

Anche se l’ordinanza cautelare viene emessa in questo particolare contesto processuale, il giudice dovrà motivare l’applicazione della misura cautelare secondo cadenze simili a quelle della sentenza dibattimentale (art 546, comma 1, lett. e).25

Questa esigenza viene compresa riflettendo su alcuni aspetti. Innanzitutto l’uso delle misure cautelari va bilanciato con valori costituzionali estremamente delicati, che devono essere tutelati con accortezza: la libertà personale (art. 13 Cost.), il diritto di difesa (art. 24 Cost.), la presunzione di innocenza (art. 27 Cost.) e il contraddittorio (art. 111 Cost.).26

24 F. M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in

cassazione, Milano, 1997, pag. 63: «Il ragionamento induttivo non ha bisogno di

etichette, ma di metodi operativi, efficaci e condivisi che permettano di stabilire – per tutti – se è stato raggiunto lo standard legale.»

25 P. TONINI, Manuale, cit., pag. 456.

26 E. MARIUCCI, "Collage informatico" di contenuti esplicativi, validità della

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28 Considerando la strumentalità cautelare, ci accorgiamo che il rischio cui sono esposti questi beni costituzionalmente protetti trova l’unico e sicuro baluardo in quell’istituto costituito dalla motivazione dei provvedimenti de libertate, che richiama il dettato dell’art. 13 Cost., secondo cui soltanto l’«atto motivato dell’autorità giudiziaria» può limitare la libertà personale, nei casi e nei modi stabiliti dalla legge.27

Inoltre è stato evidenziato come l’esigenza di una «motivazione ampia» derivi altresì da un uso disinvolto del provvedimento cautelare;28 prassi, quest’ultima, certamente non ammirevole,

stigmatizzata anche dalla Corte Costituzionale.29

E un’attenzione particolare per le ragioni a fondamento del provvedimento è da pretendersi, a maggior ragione, riflettendo sul momento processuale in cui, comunemente, viene richiesta ed accordata l’applicazione della cautela: la decisione del giudice su un provvedimento che limita la libertà personale dovrebbe essere

www.processopenaleegiustizia.it, nota a Cass. sez. VI 24 maggio 2012, n. 22327, 2012, fasc. 6, p. 96.

27 A. MACCHIA, P. GAETA, L’ordinanza cautelare e il suo controllo in Cassazione, in Dir. pen. proc., 2008, pag. 1165.

28 V. SPAGNOLETTI, Brevi riflessioni sulla c.d. motivazione ‘apparente’ in tema di

provvedimenti de libertate, nota a sentenza (Cass., Sez. II, 22 ottobre 2004, n.

43646), in Cass. Pen., 2006, fasc. 2, p. 661.

29 Corte Costituzionale, sentenza n. 265 del 2010: «la eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società»."

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29 compiuta sulla base di un quadro conoscitivo completo, completezza che, nella vicenda cautelare non è possibile ottenere. Possiamo individuare una prima anomalia, rispetto alla decisione giudiziale emessa in seguito al dibattimento, configurabile come quantitativa, che consiste nell’essere, la decisione, emessa ‘allo stato degli atti’, per cui il panorama probatorio è in piena evoluzione. Anomalia tuttavia rimediabile, poiché la provvisorietà della misura cautelare obbliga a sorvegliare sulla permanenza dei presupposti applicativi.

Una seconda difformità, inquadrabile come qualitativa, dipende dal fatto che il provvedimento de libertate è un atto ‘a sorpresa’, che non consente l’instaurazione di un contraddittorio preventivo, si rinviene, in questa fase del procedimento penale, una disparità di fondo fra accusa e difesa che deriva dall’esercizio dei poteri attributi al pubblico ministero e all’autorità giudiziaria per contrastare la criminalità. Se nel corso del processo questa distanza si colma con la dialettica, viceversa, nella fase procedimentale delle indagini preliminari il divario è pressoché irrimediabile. La motivazione del provvedimento cautelare quindi, a differenza di quella della sentenza dibattimentale, rimanda ad un modello di argomentazione decisoria sul fatto fondato su ragionamenti monologicamente elaborati dall’organo giudicante.30

Per orientare il giudice a esaminare e giustificare il provvedimento cautelare tenendo conto della disparità tra le parti, il legislatore ha previsto una disposizione dedicata all’ordinanza cautelare,

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30 l’articolo 292.2 del Codice di rito, volta a sancire un percorso logico che il giudice deve seguire, attenendosi al quale possa ritenere compiuto il proprio dovere di motivare.

Proprio per la mancanza del contraddittorio tra le parti nella fase cautelare si può osservare come la struttura dell’art 292 c.p.p. risulti “semplificata” rispetto a quella più complessa, prevista per la sentenza dibattimentale (artt 192, comma 1, lettera e, 192, comma 1): mentre per la sentenza dibattimentale il giudice non può basarsi su indizi ma dovrà indicare “le prove poste a base della decisione stessa”, per l’ordinanza cautelare si limita ad esporre “indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza”.

Il giudice svolge, quindi, un controllo di verifica dell’ipotesi, accertandosi dell’esistenza degli elementi a suo sostegno, non esistendo, nella fase delle indagini preliminari, un diritto alla controprova della difesa, il rischio è che vengano seguite precedenti convinzioni o intuizioni, spesso sostenute dal pubblico ministero, senza considerare la vicenda da ulteriori punti di vista. Dunque, comparando la struttura legale della motivazione dell’ordinanza cautelare a quella della sentenza, emergono differenze normative a livello filologico che si ripercuotono sul piano contenutistico.31

In primo luogo, si richiede da un lato l’indicazione degli «elementi» (art. 292) mentre dall’altro lato l’indicazione delle

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31 «prove» (art. 546). I due termini esprimono un’incredibile distanza sostanziale perché se l’«elemento» è ciò che proviene da una parte soltanto ed è in attesa del contraddittorio che lo “verifichi”, la «prova» è quel dato di conoscenza che deriva dall’esaurimento del contraddittorio.

In secondo luogo, la «non rilevanza» degli elementi (art. 292) si oppone alla «non attendibilità» delle prove (art. 546).

Ulteriore divergenza lessicale che rivela una ‘tara genetica’ della piattaforma decisionale del g.i.p., nel momento di emissione dell’ordinanza cautelare. Il problema nasce da un’istruttoria non compiuta poiché siamo ‘allo stato degli atti’. Se la questione sull’attendibilità o inattendibilità della prova segue a una valutazione già realizzata sulla sua rilevanza in un panorama definitivo, all'inverso, la prognosi del g.i.p. avviene in un quadro d’accertamento in trasformazione ove è sufficiente la mera ‘idoneità ricostruttiva’.

In ogni caso, le indicazioni del legislatore escludono che si emetta un provvedimento de libertate che si regga su una mera idea logica. Dopo questi riscontri, un altro esame da compiere è quello concernente la presenza e la valutazione degli elementi confutanti,32 così che si possa dire d’aver pienamente vagliato la

“faccenda cautelare”.

In conclusione, il giudice deve aver compiuto tutta una serie di verifiche: sulla coerenza esplicativa dell’ipotesi accusatoria; sul supporto materiale della prospettazione d’accusa; sull’esistenza (e

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32 l’affiorare) di elementi e punti contraddittori. Nel caso coesistessero ricostruzioni contrastanti, si preferirà quella che vanta una probabilità logica prevalente (poiché più ragionevole); e tale sarà l’ipotesi che spieghi più fatti e li spieghi meglio, che abbia più elementi che la corroborino, che non sia contraddetta da argomentazioni antitetiche o elementi confutanti.

Infine, esiste un limite di sistema al giudizio di probabilità logica costituito dall’articolo 125 delle disposizioni di attuazione, a detta del quale l’azione penale si esercita quando l’accusa è sostenibile in giudizio, altrimenti deve procedersi all’archiviazione. Com’è stato sostenuto, dato che «l’emissione dell’ordinanza cautelare non implica esercizio dell’azione penale e quindi non preclude l’archiviazione», si può affermare che quest’ultima sia emanabile anche sulla base di un’accusa soltanto possibile ma comunque non ‘forte’ al punto di essere sostenibile in giudizio, perché non ancora in grado di giustificare una (prognosi di) condanna.33

Queste peculiarità, che hanno una genesi stilistica e formale seppure si riversino in modo decisivo sulla sostanza dell’atto giuridico, si inseriscono in quel continuo bilanciamento tra la necessità di salvaguardia del potenziale probatorio e il riconoscimento di quei vincoli di proporzionalità e adeguatezza da tener ben presenti nel comprimere la libertà personale.

Si constata, però, che la volontà di contrastare la pervasività di fenomeni criminali dà spesso vita a prassi distorsive nella ricerca di quella stabilità ora accennata. Non è, infatti, una novità che

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33 «l’apparato motivazionale dedicato al vaglio delle esigenze cautelari venga sacrificato a vantaggio di quello sugli indizi di colpevolezza, come se il giudice, a fronte di indizi schiaccianti, ritenga quasi in re ipsa le esigenze cautelari»; e non sconvolge scoprire della «tendenza a far prevalere la gravità del fatto sugli ulteriori parametri, pure importanti, come la vita anteatta o la distanza nel tempo della vicenda contestata [venendo] così quasi automaticamente applicata la misura massima, lasciando a mere formule di stile la motivazione circa l’inadeguatezza di altre misure».34 O, ancora, non impressiona l’esperienza che narra di

valutazioni non differenziate a sufficienza e di motivazioni grossolane in casi di indagini ove si richiede l’applicazione della cautela per una pluralità (consistente) di soggetti.

Questi fenomeni, assieme al bisogno di equilibrio cui si aspira, portano a concentrarsi e a ‘puntare il dito’ sul compito di motivare.132 Una motivazione che deve concretarsi in una giustificazione esauriente e rispettosa di una struttura prestabilita. Un istituto che si fa sempre più «ampio» e nel quale occorre ritrovare la razionalità alla quale si tende.

Il metodo di verifica dell’ipotesi e la struttura della motivazione dell’ordinanza cautelare sono progressivamente divenuti sempre più complessi, tanto da avventurarsi nel dire che «quest’ultima ormai è quasi diventata una sentenza di merito» poiché «non si tratta dello schizzo appena abbozzato di un legislatore annoiato [ma] è forse l’inevitabile approdo di una crescita di civiltà

34 G. ZACCARO, Introduzione de “Misure cautelari e libertà personale”, in

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34 [giacché] la posta in gioco e le garanzie del giusto processo non consentono probabilmente soluzioni diverse».35 A chiusura del

ragionamento, dunque, possiamo osservare che «per quanto collocato in una fase non ancora ‘processuale’ in senso stretto, l’intervento cautelare, strutturato sullo schema tipico di un contesto fortemente giurisdizionalizzato, giustificato dal grave conflitto di fondo tra interesse al trattamento cautelare da un lato e mantenimento della libertà dall’altro, ed altamente procedimentalizzato, impone (pur con difficoltà e limiti) all’operatore del diritto l’adozione di una filosofia probatoria sempre più assimilabile a quella del giudizio, stante la necessità di sottoporre l’ipotesi formulata dall’accusa ad una prima, ineliminabile, ‘prova di resistenza’ tale da consentire l’immediata incidenza sul diritto di libertà, costituzionalmente protetto, con portata anticipatoria (in caso di trattamento custodiale), dell’effetto tipico della sanzione».36

35F. M. IACOVIELLO, La motivazione, cit., pag. 109.

36 D. TRUPPA, Considerazioni sparse sull’attuale sistema cautelare personale, in

www.questionegiustizia.it: misure cautelari e libertà personale, ottobre 2014, pag. 35.

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CAPITOLO II.

L’EVOLUZIONE DEL CONTENUTO DELL’ORDINANZA: DAL CODICE ROCCO ALLA RIFORMA DEL 1995.

§ 1. LA MOTIVAZIONE CAUTELARE NEL PASSAGGIO DAL CODICE DI STAMPO INQUISITORIO AL MODELLO ACCUSATORIO DEL 1988

La distinzione tra “sistema inquisitorio” e “sistema accusatorio” era già nota nel Medioevo, con la prima espressione si indicava quel sistema processuale che attribuiva al giudice inquisitore il potere di attivarsi d’ufficio per perseguire i reati e acquisirne le prove; il tipo di processo accusatorio era, invece, caratterizzato dal potere di iniziativa processuale delle parti, il giudice aveva il potere di prendere decisione su richiesta delle parti.

Oggi con i termini “accusatorio” e “inquisitorio” ci riferiamo a tipi di processo penale a cui sono associate determinate caratteristiche, ad esempio, l’oralità ed il contraddittorio per il primo, la scrittura e la segretezza per il secondo. L’appartenenza di un processo ad una delle due tipologie dipende, dunque, da quali caratteristiche si considerino essenziali al fine di distinguerli. Possiamo affermare che la contrapposizione tra due modelli distinti abbia un valore meramente astratto: la maggior parte dei sistemi è di tipologia mista.37

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§ 1.1 I PRINCIPI DEL PROCESSO INQUISITORIO E LA MANCANZA DI MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI CAUTELARI

Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità: la verità è direttamente proporzionale al potere del soggetto inquirente, quindi, quanto più potere gli venga dato, tanto meglio viene accertata la verità. Nella persona dell’inquirente si cumulano tutte le funzioni processuali: è contemporaneamente giudice, accusatore e difensore dell’imputato; ha quindi completa supremazia sull’iniziativa processuale e sulla formazione delle prove. Gli altri soggetti processuali, l’offeso, ma, soprattutto, l’imputato, erano meri oggetti del giudizio, non avevano poteri, in quanto risiedevano tutti nel ruolo del giudice.

Dal principio del cumulo dei poteri nelle mani del giudice derivano le principali caratteristiche del sistema inquisitorio che caratterizzò il nostro ordinamento, prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Tra esse è utile, ai nostri fini, ricordarne alcune, ad esempio, l’iniziativa processuale di ufficio del giudice; oppure l’iniziativa probatoria che gli garantiva pieni poteri coercitivi nella ricerca delle prove; la segretezza dell’attività svolta dal giudice che doveva garantire la ricerca del vero senza possibili ostacoli rappresentati da diverse ricostruzioni della vicenda da parte dell’imputato. Ma, per arrivare a comprendere la completa assenza dell’esigenza motivazionale dei provvedimenti cautelari, bisogna sottolineare come in questo modello processuale esistesse, in primis, la presunzione di reità dell’imputato: ciò significa che

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37 bastano pochi indizi perché un individuo venga considerato colpevole, l’unica possibilità di salvarsi da una condanna è quella di riuscire a convincere il giudice della sua innocenza nel momento in cui viene chiamato a discolparsi, se non riesce in tale compito, verrà condannato, anche se l’accusa risulti basata su semplici indizi.

In quest’ottica processuale il sistema inquisitorio prevedeva un istituto di carcerazione preventiva, di cui, peraltro, faceva largo uso, molto differente da quello odierno: mentre oggi la custodia cautelare in carcere viene applicata solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e solamente nel caso in cui nessun altro rimedio preventivo sia soddisfacente, nel sistema inquisitorio la custodia cautelare in carcere veniva adoperata in via preventiva, nel caso in cui semplicemente non sussistessero prove d’innocenza dell’indagato ed aveva anche la finalità di anticipare la pena che in seguito alla decisione verrà irrogata al colpevole; è facile comprendere che, se bastava il sorgere di indizi di colpevolezza per emettere quasi automaticamente un provvedimento cautelare, una motivazione dello stesso non fosse necessaria, il passaggio tra l’individuazione degli indizi e la limitazione della libertà personale era quasi automatica, tant’è che il provvedimento che emetteva ogni tipologia di mandato38 veniva emesso dal giudice

con la forma del decreto, che si distingue dalla sentenza e

38 Era questo il termine con cui veniva identificato, nel codice abrogato, un provvedimento di cattura, di arresto o di accompagnamento.

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38 dall’ordinanza proprio perché non ne è necessaria la motivazione, se non quando ciò sia espressamente richiesto dalla legge.39

§ 1.2 L’AVVENTO DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E DEL MODELLO ACCUSATORIO

Con l’avvento della Costituzione si afferma la necessità di apportare dei cambiamenti nel sistema processuale, per rispettare i principi che il dettato costituzionale sostiene è necessario orientarsi verso un sistema almeno parzialmente accusatorio. Questa esigenza si concretizzò in seguito all’entrata in funzione della Corte costituzionale, in seguito alla quale presero avvio due differenti iniziative riguardo alla procedura penale: da una parte furono compiute parziali modifiche al codice di rito del 1930, dall’altra si iniziò a propendere per la scrittura di un nuovo codice. Il primo orientamento è prevalso almeno fino alla fine degli anni ’60, in questo lasso di tempo fondamentale fu l’azione della Corte costituzionale, che impose al legislatore di adeguare le norme del codice di stampo prettamente inquisitorio ai principi costituzionali. Ciò che avvenne, poiché non c’era tempo sufficiente per discutere nuovi istituti, fu il ripristino di garanzie per l’indagato già sperimentate nel codice liberale del 1913, una tra tutte la scarcerazione automatica per decorrenza dei termini del mandato di cattura, per il quale, tra l’altro, furono limitati i casi di obbligatorietà. L’effetto complessivo delle varie modifiche

39 G. CONSO- G. GREVI, commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 1982, pag. 805.

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39 apportate fu quello di pervenire ad un sistema di tipo misto, con prevalenza accusatoria.

L’unico aspetto che non fu toccato fu il principio del cumulo delle funzioni processuali, giudice e pubblico ministero continuavano a possedere, sostanzialmente, gli stessi poteri processuali.40 La

separazione delle funzioni avvenne solamente con l’istituzione del nuovo codice di procedura penale, nel 1988: il principio della netta separazione fra l’attività di parte del pubblico ministero e quella giurisdizionale tipica del giudice costituisce, infatti, uno dei cardini del nuovo processo e può essere intesa come una conseguenza logica della scelta del sistema processuale accusatorio.

L’approdo alla distinzione dei poteri del pubblico ministero e del giudice, nelle norme del nuovo codice, è strettamente connesso alla nascita della motivazione dell’ordinanza cautelare. Per prima cosa richiamiamo l’odierno articolo 291 cpp, dove viene ribadito che è sottratto al pubblico ministero ogni potere decisorio in tema di misure cautelari e viene esclusa la possibilità che dette misure possano essere adottate dal giudice indipendentemente dall’iniziativa del pubblico ministero: quest’ultimo quindi è, sotto questo profilo, richiedente senza legittimazione a disporre, mentre il giudice è soggetto decidente ma non ex officio.

Per quanto riguarda la motivazione dell’ordinanza cautelare, essa è prevista dall’articolo seguente, il 292 c.p.p., e, nello specifico, dal secondo comma, dove vengono elencati i requisiti dell’ordinanza

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40 che viene emessa dal giudice, su richiesta del pubblico ministero; già nella formulazione originaria, prima dei vari interventi di modifica del legislatore, alla lettera c, veniva richiesta “l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza”.

L’elencazione dei requisiti che l’ordinanza deve contenere dimostra che le ordinanze con cui il giudice provvede in tema di coercizione personale devono rispondere ai requisiti tipici e propri di ogni provvedimento del giudice ed, inoltre, si è voluto sottolineare che talune componenti dell’atto, in particolare la motivazione, devono in questa materia rispondere a particolari criteri, non essendo sufficiente una completezza ed una non contraddittorietà meramente formali.

Nonostante la disposizione della lettera c appaia come la maggiormente innovativa di tutto il comma, rispetto al passato, va tenuto in conto che il legislatore aveva già anticipato il nuovo codice di rito, con la modifica dell’articolo 264 del vecchio codice di procedura penale, abrogato con la legge 12/8/1982 n. 532 e la legge 5/8/1988 n. 330, con queste novelle, ed in particolare la seconda, viene notevolmente attenuato le differenze tra il vecchio ed il nuovo.41

Facendo un breve excursus su alcune delle modifiche apportate all’abrogato art. 264, in tema di motivazione, è da ricordare che l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali

41 Cfr. G. CIANI, sub art. 292, in commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, pagg 164 e ss.

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41 destinati ad incidere sulla libertà personale, in accordo agli articoli 111 e 13 della Costituzione, fu specificamente previsto per i mandati di arresto, cattura e di accompagnamento dall’art. 9 della legge 18 giugno 1955 n. 517, che introdusse nell’art. 264 un nuovo comma di seguito al primo. Ciò soddisfaceva la convinzione, della dottrina e di una consolidata giurisprudenza, che la motivazione avesse la funzione, da un lato, di far conoscere al soggetto che verrà privato della libertà personale le ragioni per le quali ciò avviene e di poter quindi predisporre i mezzi necessari di difesa, e dall’altro, rendere possibile, in caso di impugnazione del mandato, il controllo del procedimento di valutazione degli elementi indizianti effettuato dall’organo decidente (il giudice). Questo obbligo di motivazione si esplicava secondo due tesi principali della giurisprudenza: in alcune sentenza l’obbligo veniva soddisfatto semplicemente indicando gli elementi di accusa o anche solamente il tipo di prova acquisito, senza necessità ulteriore di specificarne la fonte; in altre sentenze, invece, nell’obbligo veniva ricompresa anche l’indicazione della fonte di prova. L’apparente contraddizione tra le due tesi veniva superata con la precisazione, contenuta in alcune sentenze, che l’obbligo di motivazione di un mandato di cattura potesse ritenersi adempiuto anche con la sola indicazione dei fatti e delle circostanze indizianti, senza una necessaria menzione delle fonti probatorie da cui gli indizi sono stati desunti, dato che l’indicazione delle fonti è necessaria soltanto quando la circostanza indiziante non viene direttamente ed esplicitamente descritta. Quindi non si trattava di due tesi incompatibili ma di due distinti profili logici di un unico

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42 criterio di valutazione sulla sufficienza della motivazione di provvedimenti restrittivi della libertà personale.

Purtroppo gli orientamenti prevalenti in dottrina svuotarono il significato dell’obbligo di motivazione, l’obbligo si riduceva ad un mero riferimento al tipo di elemento di prova acquisito dalle indagini, senza specificarne la fonte né dimostrarne la fondatezza. Con l’intento di rendere più concreto l’obbligo di motivazione e contrastarne lo svuotamento in mere formule di stile l’art. 264 venne ulteriormente modificato ad opera dell’art. 10 della legge 12 agosto 1982 n. 532, che modificò il precedente testo che richiedeva solo una “sommaria enunciazione” in un obbligo che preveda una “specifica enunciazione degli indizi di colpevolezza ai sensi dell’articolo 252”. Da questa riforma si possono individuare tre affermazioni nelle quali si può riassumere il riflesso giurisprudenziale della nuova situazione normativa: la necessità di precisare il contenuto delle risultanze acquisite con l’indicazione degli elementi di riscontro; la necessità di evidenziare la rilevanza e la concludenza delle prove per quanto riguarda la colpevolezza dell’imputato mediante la spiegazione delle ragioni per cui viene riconosciuta sufficienza ed idoneità a tali prove (contrariamente alla precedente esclusione della esigenza di qualsiasi indicazione in proposito); l’esclusione della necessità di indicare la fonte degli indizi, in particolare qualora si tratti dell’indicazione del nome di coloro che hanno reso dichiarazioni accusatorie, per evitare ritorsioni ed intralci alle ulteriori indagini, atteso il permanere del limite del segreto istruttorio. Va infatti sottolineato come permanga, nella nuova

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43 norma, il segreto istruttorio quale limite della motivazione, la salvaguardia di tale segreto aveva giustificato una possibile sommarietà della motivazione tacendo la fonte o il contenuto di una prova, adesso, la giurisprudenza, inizia ad intendere il limite del segreto come operante solo per la fonte della prova, per tutelare l’istruzione in corso; con la riforma tra le esigenze antitetiche del segreto e quelle della motivazione si propende per la tutela a vantaggio delle seconde.42

Tornando all’analisi dell’odierno articolo 292, la nuova disciplina dell’ordinanza cautelare è, comunque, divenuto più stringente, rispetto alle modifiche passate, l’obbligo di una rigorosa motivazione delle ordinanze con cui vengono disposte le misure cautelari, giacché il legislatore, non solo, ha indicato come obbligatori gli elementi oggetto della motivazione ma, anche, il contenuto della stessa.

Poiché ai sensi dell’art 273 c.p.p. comma 1 gli indizi di colpevolezza devono essere gravi, gli elementi di fatto cui fa riferimento la disposizione in esame devono evidenziare tale gravità; debbono cioè essere tali, per la loro univocità, certezza ed efficienza probatoria, da far ritenere probabile, allo stato degli atti, la colpevolezza del prevenuto.

L’accentuazione dell’esigenza di determinatezza della motivazione dei provvedimenti cautelari si verificò con l’introduzione del tribunale della libertà e la prima modifica all’art 264 comma 2 c.p.p. abr. ad opera dell’art 10 della legge 532/82, la

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44 motivazione dei provvedimenti di cattura diviene, dunque, strumentale anche al nuovo meccanismo di controllo. Poiché il riesame non è configurato come semplice sindacato, ma si estende alla rivalutazione di tutte le risultanze processuali, al fine di verificare la congruità del provvedimento nel caso concreto, i motivi, allora, hanno soprattutto la funzione di consentire l’individuazione dei punti su cui deve svolgersi il giudizio. La necessità di indicare i fatti specifici che autorizzano l’adozione della misura cautelare disposta esclude di certo la legittimità di motivazioni che si risolvano nel mero richiamo alle indagini di polizia giudiziaria ovvero nella semplice indicazione della fonte non accompagnata da quella del contenuto delle risultanze acquisite, che sola consente all’imputato di conoscere gli elementi di accusa; ma esclude anche la sufficienza di motivazioni fondate su dichiarazioni di testimoni o di coimputati dei quali vengano taciute le generalità. Poiché il fine ultimo della motivazione è quello di consentire all’imputato un tempestivo utilizzo dei mezzi difensivi a suo favore, è di fondamentale importanza conoscere chi lo accusa per, eventualmente, dimostrarne l’inattendibilità.

Tutto ciò induce ad affrontare anche un ulteriore, più generale e più delicato problema. Ci si deve cioè domandare se pure secondo il nuovo codice di procedura penale l’obbligo della motivazione, quando la misura venga adottata nel corso delle indagini preliminari, possa subire limitazioni derivanti dalla necessità di tutelare il segreto delle indagini stesse.

L’articolo 292, a differenza dell’articolo 264 c.p.p. abr., che parlava di specifica enunciazione degli indizi di colpevolezza, compatibile

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45 con il segreto istruttorio, non contiene alcun richiamo a detto segreto; se ne deve desumere che il legislatore abbia inteso risolvere il problema in maniera radicale, cioè non consentendo deroghe o limitazioni all’obbligo di indicare gli elementi da cui sono desunti i gravi indizi di colpevolezza, derivanti dalla necessità di tutelare la segretezza delle indagini. Questa affermazione trova conferma, oltre che nella formulazione letterale della norma, nella terzietà dell’organo deputato ad adottare i provvedimenti in esame e nell’accentuata posizione di parte dell’organo richiedente. Ciò significa che il pubblico ministero non possa presentare al giudice elementi che egli possa utilizzare per la formazione del proprio convincimento ma non inserire nella propria motivazione. Una differente conclusione allontanerebbe il sistema processuale dal modello accusatorio, voluto dal legislatore, e lo riavvicinerebbe a quello inquisitorio. Certamente si possono verificare casi in cui, per evitare compromissioni, sussista l’esigenza di non rivelare elementi o ulteriori prove ma, in tal caso, per tutelare questa esigenza, l’unico mezzo a disposizione del pubblico ministero è quello, appunto, di non rivelarli e, quindi, non utilizzarli neppure per richiedere la misura cautelare.

Sempre ai sensi della lettera c, nell’ordinanza con la quale il giudice dispone una misura cautelare deve essere contenuta non solo l’indicazione degli elementi di fatto dai quali gli indizi sono stati desunti, ma anche quella dei motivi della loro rilevanza. Questo obbligo era stato anticipato dalle modifiche all’art 264 c.p.p. abr., introdotte con la novella del 1988, ma già la

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