4.Poteri del giudice e principio del contraddittorio
5. Principio del divieto di scienza privata : presidio alla terzietà e imparzialità del giudice.
Il principio di scienza privata costituisce uno dei principi fondamentali del processo civile, tuttavia non trova sede esplicita all’interno del codice, bensì può essere ricavato a contrario dalla lettura dell’art. 115 c.p.c.. Il secondo comma del presente articolo stabilisce infatti che, senza bisogno di prova, è consentito al giudice tenere conto dei fatti che sono noti pubblicamente, ossia, dei fatti notori.
È considerato principio di grande rilevanza perché interviene a delineare dei limiti all’attività del giudice in modo da assicurarne la terzietà e l’imparzialità54
. In questo senso la Cassazione ha
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Vedi LUISO, op. cit., pp. 1612 ss..
54 Cfr. CALAMANDREI, Per la definizione del fatto notorio, in Riv. dir, proc.,
1925 v. I, dove si sottolinea che, qualora il giudice faccia riferimento alla propria scienza privata, verrebbe confusa la funzione stessa del giudice con la funzione del testimone. Rare volte il testimone riferisce i fatti così come li ha percepiti, ma li riferisce come in seguito a ciò che ha recepito e ciò inconsciamente lo porta ad
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affermato: “la norma dell’art.115, che fa obbligo al giudice di decidere iuxta allegata et probata, non impone di ammettere prove ritenute dal giudice superflue, ma vieta soltanto di attingere fuori dal processo la conoscenza dei fatti da accertare e di prescindere del tutto dalle prove acquisite nel processo.”55.
Il divieto si sostanzia nell’impedimento rivolto al giudice di ricorrere a fonti di informazione esterne al processo, prescindendo dalle prove acquisite secondo le norme processuali56. Può essere quindi inquadrato nella problematica più ampia del necessario rispetto del principio del contradditorio, perché si vuole impedire che la parte possa venire pregiudicata da una decisione che trova il suo fondamento in questioni a lei non sottoposte, sulle quali cioè non abbia potuto approntare una strategia difensiva.
Dibattuta è anche la portata da attribuire a tale divieto. Dubbia infatti risulta l’estensione dello stesso alla possibilità per il giudice di ricercare fuori dal processo, elementi fattuali avvalendosi dei suoi poteri ufficiosi.
Per la dottrina maggioritaria, sostenuta dalla giurisprudenza, il giudice potrebbe non incorrere nel divieto solo per acquisire la essere parziale. Data questo scollamento la testimonianza per essere utilizzata necessita di una “purificazione” diretta alla genuinità del fatto, opera che deve essere posta in essere dal giudice, terzo e imparziale. CALAMANDREI sottolinea quindi l’impossibilità di poter cumulare in una persona sola la funzione di colui che giudica e quella di chi è giudicato. Il giudice non riuscirebbe ad essere il critico efficace della propria testimonianza.
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Cass. 2 Feb. 1983 n. 893; tale orientamento è stato ribadito anche da successive pronunce della corte: vedi Cass. 6 Giu. 1985 n. 3366: “ l’art 115 c.p.c. vieta al giudice di attingere fuori dal processo la conoscenza dei fatti da accertare e di prescindere del tutto dalle prove acquisite nel processo medesimo.”.
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In una prospettiva comparativa, diverso si presenta il sistema anglosassone in cui il giudice può prendere conoscenza direttamente anche di nozioni che esulano dal concetto di comune esperienza e trasmetterle alla giuria attraverso vincolanti istruzioni. Si tratta dell’istituto del judicial notice . Tuttavia il sistema ad un’attenta analisi non risulta così lesivo per le parti, in quanto il giudice, prima di porre in essere tale istituto, deve comunicare alle parti la sua iniziativa, così da stimolare il contraddittorio.
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conoscenza di fatti o la disponibilità di prove di cui ne abbia accertato l’esistenza all’interno del processo, sulla base delle allegazioni delle parti57. Tale orientamento propone un’apertura del giudice allo spazio non processuale, infatti rimane fuori dal campo di applicazione del divieto la possibilità di integrare il materiale probatorio ma nel rispetto dei poteri delle parti. Poste tali premesse, il giudice non potrà utilizzare la conoscenza esterna al processo come fondamento essenziale per la decisione finale, ma potrà utilizzare tali conoscenze per integrare il materiale probatorio, le cui fondamenta sono costituite dalle parti attraverso le loro richieste58.
Non mancano orientamenti contrari che sottolineano la portata generale del divieto di scienza privata; deve cioè essere inteso in modo estremamente rigido per assicurare “l’ordine isonomico” del processo, un ordine in cui il contraddittorio delle parti ha carattere costitutivo del sapere del giudice che diviene garante della costituzione dialettica della prova. In tale accezione qualsiasi intervento attivo del giudice, salvi i fatti notori e le regole comuni d’esperienza diviene incompatibile ad assicurare l’ordine del processo59. In questa prospettiva il giudice dovrà attenersi alla regola che gli impone di giudicare iuxta allegata et probata; regola che deve essere intesa in senso assoluto.
57 Cfr. BUONCRISTIANI, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino,
2001, p. 30, il quale si riferisce al divieto di scienza privata al fine di salvaguardare l’imparzialità e la neutralità del giudice. “Il giudice non può ricercare i fatti rilevanti fuori dal processo, né può cercare di giovarsi del suo sapere privato […]. La posizione neutrale del giudice non è invece pregiudicata dalla possibilità di prendere in esame fatti che risultino acquisiti nel processo.”. In questo senso cfr. anche VERDE, Domanda (principio della), in Enc giur., XII, Roma, 1989, p. 8.
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Tale impostazione è sostenuta dalle Sezioni Unite della Cass. Sent. 3 Feb. 1998, n. 1099, che afferma che “[…] dovendosi ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio, legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere-dovere di rilievo d’ufficio si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza a determinati fatti legittimamente acquisiti nel processo.”.
59 In tal senso è utile il riferimento operato da CAVALLONE, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc., 2009, n.4, p. 863.
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Oggi dal dettato normativo è possibile rilevare che il codice, come già accennato, non lascia molto spazio a tale divieto introducendo piuttosto una norma permissiva in relazione ai fatti notori. L’unica traccia normativa è individuabile nell’art 97 disp. att., disposizione che inibisce al giudice di ricevere private informazioni sulle cause davanti a lui pendenti e concede di ricevere memorie per il solito tramite della cancelleria. Ma tale disposizione non ha ricevuto una grande valorizzazione, tant’è che il divieto di scienza privata viene tuttora ricavato a contrario dalla possibilità per il giudice di porre a fondamento della propria decisione “le nozioni che di fatto rientrano nella comune esperienza”60
.
Diviene perciò decisivo, per inquadrare la nozione di scienza privata, risalire al concetto di notorietà dei fatti.