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Problematiche e prospettive della disciplina urbanistica e dei beni culturali,

conclusiva

Loreto Colombo nel suo articolo104 fa una condivisibile riflessione su

come superare diversi problemi della disciplina e spingerla verso una semplificazione.

Secondo Loreto Colombo l’urbanistica va profondamente riformata nei suoi processi: “sul piano normativo, la fantasia ai livelli statale, regionale e locale non riesce a trovare limiti nell’esperienza: è continua la tendenza ad un’innovazione additiva basata su modelli funzionali immaginati in astratto, con la pretesa di incasellare la realtà entro fitti ed immaginifici telai regolativi”.

Ancora in vigore la vecchia legge del 1942 che disciplina l’ordimanento a cascata Regione-Provincia-Comune, secondo la quale il livello sottordinato discende cronologicamente e concettualmente dal livello sovraordinato. Nell’esercizio della competenza urbanistica, le Regioni “si sono sbizzarite in una legiferazione complessa e variegata, che costringe a defatiganti elaborazioni e a contorti procedimenti di approvazione dei piani”.

104 L.COLOMBO. Urbanistica e beni culturali. Una riflessione a partire da La

Cecla, Moroni e Montanari.

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I territori si trasformano e queste dinamiche non sono coerenti a un quadro pianificatorio, che in realtà sempre ritarda. Se è aggiornato uno dei livelli di piano, saranno antiquati gli altri.

“E così la pianificazione si è trasformata in un'attività sostanzialmente burocratica nella quale il formalismo mal nasconde una grave lacuna culturale, un'idea vera e concreta di città e di territorio”.

A ciò va aggiunto l'eccessivo numero di piani: a quelli generali si aggiungono i piani di settore, come il Piano di parco, il Piano per l'Assetto idrogeologico, il Piano regionale dei trasporti, senza contare i tanti piani specifici di livello comunale.

Il livello di pianificazione più praticato, quello comunale, è regolato dalle leggi regionali, ma la sua approvazione, in genere di competenza provinciale, presuppone la preventiva verifica di conformità ai vari piani di settore con pareri e passaggi formalizzati. Anche per questo si spiega perchè molti Comuni, nonostante l'obbligo, “si accingono malvolentieri all'incombenza del piano e spesso la trascinano sine die”.

E allora L.Colombo pone una domanda: “una volta constatato il bassissimo grado di adeguamento ad un obbligo di legge non sarebbe normale chiarirne i motivi e provvedere attraverso una riforma semplificativa? Continua invece la perversa pratica dell'autoassoluzione, secondo la quale le responsabilità sono sempre degli altri: per la Regione i Comuni sono inadempienti; per i Comuni la Regione detta regole impossibili”.

Insomma occorrono semplicità e chiarezza, efficacia ed efficienza. A ciò possono provvedere soltanto, purché in sinergia, i politici e gli addetti ai lavori.

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Una logica spartitoria concepisce la pianificazione come attività essenzialmente locale e attribuisce allo Stato la tutela dei beni culturali e del paesaggio.

La concezione statalista della tutela beni culturali e del paesaggio, benché risalente alla fase postunitaria, trova la sua espressione sistematica nelle due leggi Bottai del 1939; la prima sulle "Cose di interesse storico e artistico", la seconda sulla "Protezione delle bellezze naturali". Esse rappresentano tuttora il fondamento costitutivo del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, che sostanzialmente le ha messe insieme condendo il tutto con qualche ammodernamento del concetto di paesaggio, in senso culturale ed evolutivo, desunto dalla Convenzione europea del Paesaggio.

L.Colombo analizza il sistema degli uffici periferici - le soprintendenze, e le caratterizza come un sistema arcaico, che pretende di concentrare in un ministero con un bilancio sistematicamente inadeguato, nonostante i vantati sforzi recenti, la protezione e spesso la gestione di un patrimonio sterminato.

Nel caso delle soprintendenze per i beni architettonici ed il paesaggio, “la loro attività è in gran parte basata su un gioco di rimessa: il cittadino-suddito che intenda eseguire lavori, anche di sola manutenzione, su un edificio o un paesaggio iscritto tra i beni di interesse pubblico ("vincolato") deve chiedere il parere preventivo e restare in attesa dell'oracolo. Quel parere viene rilasciato in base a presupposti inevitabilmente soggettivi, tanto che, sorvolando sulla motivazione di certi dipendenti, si enumerano pareri diversi per casi analoghi e viceversa. Al punto che qualche funzionario più critico e avveduto comincia ormai ad avvertire la mancanza di norme di

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comportamento ispirate a casistiche consolidate, come avviene per la giurisprudenza in campo giudiziario”.

Anche qui L.Colombo tocca lo stesso problema della necessità di una semplificazione.

“In un paese che si attarda nella messa in sicurezza di un territorio colabrodo e nell'adeguamento statico, impiantistico ed energetico di un patrimonio edilizio storico diffusamente degradato è ancora possibile immaginare di procedere chiedendo al ministero il parere per ogni singolo edificio?

Non è arrivato il momento di ricorrere a regolamenti che il cittadino debba applicare responsabilmente - letteralmente "rispondendo" di ciò che fa - invece di dipendere dal tutore come un minorenne o un incapace?”

Un altro aspetto importante sono i finanziamenti. Il ministero può operare direttamente, in caso di necessità, su beni pubblici o concorrere al finanziamento di opere su beni privati vincolati, ma sempre che siano disponibili le risorse, cioè in un numero insignificante di casi rispetto alle necessità.

Da qui ha origine la diatriba che ormai da tempo vede da un lato i difensori del "tutto pubblico" e dall'altro i sostenitori dell'"anche i privati". Il primo partito è schierato all'insegna del pubblico = Stato; Stato = bene; privato = corruzione/speculazione. Il secondo si schiera in difesa di un sistema nel quale la rilevanza pubblica dei beni culturali non escluda la possibilità di un concorso fattivo tra apparati pubblici, cittadini e imprenditori.

“Tommaso Montanari, convintamente iscritto al primo partito, nel suo Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), paventa, col titolo a doppio senso, rischi e pericoli. Ricordando che

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l'opportunità/necessità dell'intervento privato nel settore dei beni culturali viene accampata ormai da trent'anni, si chiede se l'avvento dei privati vada visto come un esito infausto ma obbligato o vada considerato come una svolta virtuosa verso la sussidiarietà sancita dall'art. 118 della Costituzione. Sulla prima domanda l'A. non si dà per vinto e si chiede ancora se proprio non ci siano alternative. Sulla seconda domanda pone la questione della "sincerità" dei privati nell'attendere al principio costituzionale della tutela dei beni culturali, sospettando che essi possano perseguire, invece, obiettivi diversi e magari opposti a quelli dello Stato”.

E aggiunge L.Colombo: “Quanti la pensano in questo modo sono gli assertori di uno Stato padre-padrone, ancora nella scia ideologica di quello Stato etico di matrice idealistica - che opera nel bene e per il bene dei cittadini - all'origine dei regimi che hanno portato alle rovine del secolo scorso”.

La convinzione di quanti ritengono non solo opportuno ma necessario il concorso dei privati prescinde, in realtà, dalla semplicistica divisione di compiti che attribuisce allo Stato la tutela e ai privati la valorizzazione. Un esempio di un approccio ragionevole è il decreto n. 83/2014, che “in tardiva analogia con quanto avviene in altri paesi, ammette un credito d'imposta fino al 65% per donazioni in favore di interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici”.

“Non c'è da dubitare che le regole debbano essere pubbliche perché pubblica è la rilevanza del patrimonio culturale, ma dove e quando lo Stato avrebbe trovato - e poi speso - i denari per restaurare il Colosseo? E senza il coinvolgimento di una fondazione senza scopo di lucro, ma finanziata da un colosso americano dell'informatica, non

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languirebbero ancora gli scavi di Ercolano, che sono oggi un gioiello tale da proporsi come modello anche per Pompei?

Il nostro paese sconta, forse in questo campo più che in altri, la scarsa fiducia in se stesso e affonda nel nichilismo dell'eterno sospetto. E' vero, la corruzione dilaga, ma è giusto incolparne solo i privati? E chi è il corrotto o il concussore se il privato ha come interlocutore la pubblica amministrazione? Dunque come si fa, se non per pregiudizio ideologico, ad insistere sul regime pubblicistico e centralizzato dei beni culturali come antidoto alla corruzione e alla speculazione?” Una conclusione: occorrono fiducia, libertà e lungimiranza. Qui però, vorrei aggiungere che bisogna stare attenti e tenere conto della complessità dei fenomeni. La semplificazione degli interventi non deve rimuovere e quindi tradire tale complessità.

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LA PARTE 2: IL CASO TOSCANA